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Fernando Giaffreda

Jacopone da Todi. Lo spiritualismo dugentesco fra rivelazione, perdono e redenzione

JacoponeIl contesto abituale in cui viene collocato il personaggio storico di Jacopo Benedetti [Todi 1230 ca. – Collazzone (PG) 25.12.1306] è quello della letteratura italiana degli albori, in particolare della produzione dotta popolare e/o religiosa medievale del XIII secolo.
Più noto come Jacopone da Todi, costui, sovente classificato secondo solo a Dante (anche se ne nacque prima) per forza e tematiche poetiche (volgari), non si stacca tanto facilmente dalle sue quasi cento laudi[1], composte negli ultimi trent’anni del secolo, o dai suoi eccellenti Stabat Mater dolorosa e Stabat Mater speciosa; né è possibile separarlo dall’abito talare francescano (cordigliero), da lui vestito ostinatamente in assai tarda età per continuare ad espiare in somma ed estrema penitenza le colpe invano lavate con la preghiera e il supplizio dalla moglie Vanna, figlia di Bernardino di Guidone, dei conti di Coldimezzo, quand’era in vita. Sposata dal Benedetti nel 1259, l’amata nobildonna gli morì tragicamente nel crollo di un terrazzo impalcato in legno, apposta apparecchiato per una festa familiare in casa de’ Benedetti, posta nel Rione S. Silvestro della cittadina tuderte.
Lui, il benestante e perciò piccolo patrizio Jacopo, non si immagina che tegola pesante gli sarebbe caduta in capo al soccorrere la diletta consorte, e nel raccogliere le membra di lei morente. Fu la svolta traumatica e decisiva della sua vita scoprire che Monna Vanna indossava un cilicio![2]
Ma andiamo per ordine. Secondo varie ricostruzioni più o meno leggendarie della sua vita, risalenti peraltro al XVI secolo, ma anche attenendosi ai vasti riferimenti autobiografici tratteggiati nelle sue stesse Laudi, fino a quel momento funebre (1268), cioè fino a circa trentotto anni d’età, Jacopo Benedetti, figlio di Iacobello, aveva condotto in Todi una vita civile, laica piuttosto sregolata, in linea con l’immaginativo francescano originale; era un messere, anzi un notaio cittadino, e forse di più: un procuratore legale e consigliere del Comune, e però affermato nel lavoro e nella vita, noto a tutti, tanto d’aver studiato a suo tempo la legge e l’arte giureconsulta all’Università di Bologna. Divideva allora il suo tempo fra la redditizia attività legale, notarile e scrivana, e il divertimento, certamente non cavalleresco, ché sarebbe stato troppo ordinato e contiguo al tono lavorativo. Si presume comunque si dilettasse anche in poesia profana stando ai continui rimandi immaginali volgari che si trovano nelle Laudi, insieme al linguaggio schiettamente giuridico-letterario che li pervade.[3]
In occasione poi della notizia dell’arrivo in Umbria, nel 1259, del re di Sicilia Manfredi, che si sarebbe fermato fra Spoleto, Todi, Perugia e Jesi (città natale del padre, l’imperatore Federico II Hohemstaufen), Jacopone partecipò come consigliere rogante alla stesura di un patto di solidarietà e aiuto reciproco concluso fra le città di Spoleto e Todi, le quali intendevano tutelarsi così da eventuali assedi o attacchi a scopo di sottomissione, ovvero da costrizioni al tributo da parte del sovrano siciliano.[4]   
La crisi esistenziale e psicologica che di colpo s’impadronisce di Jacopo, o almeno il suo esito così tracotante e netto, vale a dire il brusco abbandono della vita laica, civile e professionale per quella religiosa, penitenziale e monastica, è la prova di quanta breccia avesse fatto nell’Italia centrale la predicazione di Francesco d’Assisi con l’esempio di dedizione completa alla povertà assoluta; di quanta suggestione e penetrazione religiose le coscienze delle classi medie, non nobili e «borghesi», subissero sempre nei momenti difficili della vita. E il Benedetti ha allora una folgorante illuminazione retrospettiva, per cui con la perdita improvvisa e cruda della consorte il quotidiano futuro gli si prospetta d’ora e già inutile e vano, modificabile solo con il riconoscimento e l’assunzione su di sé della «colpa», che solo la moglie vedeva, nonostante (e forse in virtù) delle esortazioni di lui alla partecipazione ai piaceri, alle fughe e ai divertimenti. Cambiare vita e coscienza del tutto era ora un diventare lei e risorgerla, un come redimerla in se stesso, un riparare l’offesa perpetrata senza coscienza a quella divinità già perduta e lontana, ma reincarnata nell’esercizio continuo della penitenza e dell’espiazione che le furono proprie.
Dopo aver distribuito tutti gli averi ai poveri, nullatenenti e servi, come aveva fatto già in  Assisi Francesco, Jacopone per dieci anni, dal 1268 al 1278, fece il bizzoco[5] nei conventi, nei cenobi e nelle associazioni religiose, molto diffuse e che sorgevano spontanee sotto il segno francescano nell’Umbria di quel periodo. Nel fare «pubblica penitenza», cioè vagando e assumendo su di sé gli sberleffi che lo marchiano d’ora in avanti come «Jacovone» appunto, consistette quel suo «gir bizzoccone»[6] di cui lui stesso parla, arso da un furore ascetico e scosso da una follia mistica mai visti prima in quella forma così violenta e impressionante. Servì umilmente i più umili servi seguaci di Francesco, i cosiddetti «fraticelli», portatori e propagatori della più ferrea regola del santo, la povertà (in Dante essa è concettualizzata come «ben ferace»). Ma per espiare la colpa di cui si riteneva portatore e depositario, fra i francescani egli introdusse con forza personale il valore della sofferenza come prova e viatico d’apprendimento, dimostrando la pratica del dolore autoinflitto e dell’umiliazione costante che gli provenivano da altre correnti religiose spirituali(ste) dell’epoca. L’ex-giureconsulto Jacopo infatti sapeva leggere e scrivere, e la sua «pazzia» dunque non poteva che essere lucida e consapevole, dotta e sapiente nonostante la sua volontaria collocazione esistenziale fra gli strati più infimi delle classi sociali. In un contesto di manifestazione allegorica delle alterne vicende umane dunque andrebbero posti i due aneddoti che gli vengono attribuiti solo per tradizione, a conferma della sua follia ascetica:[7] quello secondo il quale si sarebbe presentato a una festa avanzando a quattro zampe e con un basto carico di pietre simulando un asino; e quell’altro, ancor più cruento e sconvolgente, quando si mostra completamente nudo alle nozze del fratello, malamente coperto di piume variopinte che gli vestivano il corpo spalmato con lo strutto e la sugna. Esempi di lezione religiosa popolare degne di un postumo Boccaccio o di un ancor più successivo Geoffry Chaucer. Ma questi forse sono episodi formati apposta dalle barocche biografie cinquesecentesche…

Jacopone design


E tuttavia si potrà disquisire ancora a lungo, come s’è fatto finora, sul valore di questo tournement improvviso del Benedetti, ma più interessante sarebbe individuare da dove traessero origine i fondamenti di questa autentica paranoia religiosa. Certo si è che dimorando per dieci anni nei conventi umbri e italo-centrali, e altresì viaggiando molto, anche fuori d’Italia prima di essere fatto fraticello francescano, Jacopone venne a contatto con le grandi correnti spiritualiste dell’epoca, coi rigurgiti del pensiero logico introdotto nella fede da Abelardo, con quello trinitario e millenaristico di Gioacchino da Fiore, il quale con quel suo messianismo insito nell’aspettativa dell’avvento prossimo e inevitabile dell’«Età dello Spirito»[8], intesa come vera e propria «terza età dell’uomo», senza Chiesa, senza Stato né coercizioni, vissuta in una società egualitaria, sobria, umile e benigna, affidata alla spontanea carità degli uomini, influenzò molto la nascita del partito degli «spirituali» all’interno del movimento («Ordine») francescano, e la penetrazione delle stesse idee e movimenti catari e albigesi; laddove quest’ultimi perpetravano lo spirito di purezza (katharos = puro)contro la Chiesa e ciò che essa rappresenta: la ricchezza, la potenza politica, un’organizzazione sacerdotale lontana e staccata dalla vita collettiva e in «comune», quella praticata dal «popolo», dalla gente semplice e senza protezione. Giova ricordare in proposito che una delle pratiche più peculiari che hanno fatto breccia nelle classi più umili durante tutto il Dugento grazie alle «sette eretiche» di stampo marcatamente spiritualista, sia stata proprio quella del digiuno volontario fino alla morte, nella convinzione che la sofferenza volontaria e la mortificazione del corpo, l’astinenza insomma, fosse il mezzo assoluto per guadagnarsi la salvezza eterna, l’elevazione a Dio, la rassomiglianza (imitazione/mimesi) all’esperienza di Cristo.[9] L’apprendistato alla santità insomma.
Nel 1278, a dieci anni esatti dal trauma familiare, il bizzoco Jacopone entra regolarmente nel «Primo Ordine francescano» come frate laico, accolto probabilmente nel convento dei Pantanelli di Terni, quando già nella congregazione monastica umbra divampava forte la divisione fra la corrente rigorista degli Spirituali e quella, più flessibile e moderata, dei Conventuali. Jacopone, inutile dirlo, prese le parti e la difesa della corrente spirituale. Ora, la differenziazione in due tronconi era sorta nel movimento dopo la morte di Francesco (1226), per il modo in cui si sarebbe dovuto interpretarne la predicazione e l’esempio religioso dati in lascito. E, dopo la morte nel 1274 del ministro generale dell’Ordine, Bonaventura da Bagnoregio, nella giovane congregazione francescana, peraltro riconosciuta da Onorio III il 29 novembre 1223 col quarto Concilio lateranense mediante l’approvazione della Regola bullata, si cristallizzò definitivamente la diversità interpretativa fra i «frati della comunità» da un lato, detti anche conventuali, e i frati «zelanti» (zeloti), dichiarati anche spirituali, dall’altro. E ciò anche grazie al contributo esemplare di Jacopone, che nella distinzione ebbe parte attiva dal punto di vista teorico mediante la stesura di molteplici laudes sul tema.
Lo stesso anno del Signore 1274 però è anche l’anno del Concilio II di Lione, durante il quale, stando a quanto riporta fra l’altro Angelo Clareno da Cingoli (fra’ Pietro da Fossombrone), pare che papa Gregorio X avesse l’intenzione di concedere e riconoscere agli ordini mendicanti, e cioè ai francescani e ai domenicani, la proprietà dei beni mobili e immobili posseduti o in uso. Atto che venne ufficializzato a conclusione del Concilio: soppressione di tutti gli ordini mendicanti formatisi prima del 1215 ad eccezione dei domenicani, degli eremiti agostiniani e dei francescani «moderati». In pratica la decisione papale significò l’esclusione di fatto o, se si vuole, la «condanna» implicita, della corrente francescana più radicale, quella che predicava la povertà assoluta, nella quale il clero avrebbe dovuto esemplarmente vivere, per condurre così, in maniera più incisiva, il proselitismo e l’evangelizzazione delle masse contadine e rurali, ma anche di quelle ruotanti intorno alle aree urbane e comunali. Lo stesso frate eremita Pietro Angeleri da Morrone, il futuro papa Celestino V, fondatore e capo della congregazione denominata la «Comunità dei Fratelli del Santo Spirito» a Maiella, per evitare il rischio di essere elencato fra gli eretici proscritti dal Concilio, vi si presentò in età già avanzata dopo un mitico viaggio a piedi dall’Abruzzo, per chiedere e ottenere da Gregorio X il riconoscimento del gruppo di benedettini da lui denominati «frati di Pietro da Morrone» e dunque della sua regola formulata dieci anni avanti.
In questa ondata di forte spiritualismo, la pervadente divisione dell’Ordine francescano nei due tronconi interpretativi ha origine proprio sull’opportunità o meno per gli ordinati (ma in generale per tutti i religiosi, preti, sacerdoti o ecclesiastici che fossero) di mantenersi assolutamente poveri e di non accedere alla proprietà nonostante la diversa propensione (risoluzione) papale. È in questo contesto che nel periodo divampa nell’Italia centrale, soprattutto nelle Marche e in Umbria, ma anche in Romagna (prossimo acquisto territoriale nel 1276 di uno Stato pontificio in via di consolidamento dopo la riforma gregoriana) la «questione della povertà», costellata da aspri scontri anche armati, da alcuni notevoli disordini nelle congregazioni religiose e dall’emergere di discordanti prese di posizione fra i rappresentanti francescani (fra’ Trasmondo, fra’ Tommaso da Tolentino, fra’ Pietro da Macerata sono addirittura imprigionati).
Dal punto di vista concettuale, i rappresentanti più moderati dell’Ordine, cioè i conventuali, nominati negli atti come «relaxati», sostenevano la necessità di diffondere nelle città la predicazione francescana, di costruire nell’ambiente urbano i nuovi conventi, i quali avrebbero dovuto far parte integrale della comunità cittadina, utilizzando per questo anche la raccolta di fondi dalle elemosine, per poi essere elargite a loro volta nell’attività di aiuto e soccorso ai poveri. In questa visone programmatica, la proprietà dei beni avrebbe certamente svolto una funzione centrale, di impulso allo sviluppo e alla diffusione del francescanesimo. Per contro, i secondi (zeloti)[10] mantenevano l’ideale e la pratica della povertà assoluta, nella quale l’Ordine avrebbe dovuto semplicemente svolgersi, così da sottolineare con forza il carattere eremitico e ascetico (ovvero extraurbano) del francescanesimo originale. Anzi, costoro, sostenitori entusiasti del pensiero evangelico del cluniacense Gioacchino da Fiore, identificavano l’avvento della Chiesa Spirituale (ecclesia spiritualis), da lui preconizzato, proprio con la venuta al mondo del fenomeno religioso, nonché umano, Francesco d’Assisi. La tensione fra le due frazioni sarà avvertita e vissuta anche dal giovane Dante, il quale, frequentatore del novello convento francescano di Santa Croce, ma anche testimone della presenza a Firenze del movimento dei Patari e dei Catari, elaborerà nel suo tipico misticismo aristotelico la scelta morale prettamente cristologica per l’aspetto più duro della regola: la povertà quale «ben ferace» appunto, e la condanna dell’elemosina come pratica non evangelica.
Nel 1288 fra’ Jacopone viene dato per trasferito a Roma sotto la protezione del cardinale Bentivegna, anch’egli di estrazione francescana, fatto porporato da Niccolò IV. Più che di mecenatismo, si tratta di un temporaneo riparo dagli attacchi e dalle persecuzioni ai «puri» da parte degli emissari dell’Inquisizione. L’aria che tira nell’Italia centrale in quella seconda metà del XIII secolo non è certamente favorevole a chi rincorra certi ideali ascetici, con la Chiesa romana fortemente impegnata nella ricostruzione canonica, cioè amministrativa, della Donazione di San Pietro, specie dopo la cacciata definitiva dall’Italia degli Svevi (1266) e grazie al richiesto soccorso, rivelatosi poi anch’esso non del tutto disinteressato, degli Angioini. Proprio il Bentivegna si era opposto intorno al 1276 ai tentativi di sottomissione integrale del vescovado di Todi, territorio visto da Roma come testa di ponte per il successivo inglobamento della Romagna (1278).
A contatto con l’ambiente romano, fra’ Jacopone fa esperienza della realtà abbastanza secolarizzata della curia romana e dei presupposti feudali su cui ancora poggiava il meccanismo di elezione del pontefice. Lì impara a conoscere i centri del grande potere ecclesiastico degli Orsini, dei Colonna, dei Caetani, delle loro ramificate estensioni nei possessi e nella feudalità laziali; apprende la sostanza dei rapporti fra papato, feudalità e popolo romano (senato e comune), al quale ultimo era devoluto ancora l’atto di ratifica definitiva dell’elezione papale (acclamazione). Non va dimenticato inoltre che dopo la riforma gregoriana (introduzione del Conclave e del Concistoro cardinalizio), fra le precondizioni più importanti e sostanziali per diventare cardinale vi era quella di appartenere alla famiglia o alla parentela più o meno stretta del papa, oppure di far parte della sua clientela, sia curiale che ecclesiastica, concepita pur sempre nell’ambito dei rapporti feudali e mercantili del periodo.
È in queste condizioni generali che si arriva, o almeno è Jacopone ad arrivarvi, all’abbrivio della crisi cruciale del 1292, quando a Perugia muore il papa, Niccolò IV, al secolo Girolamo Masci da Ascoli Piceno. Nel capoluogo umbro si apre allora un conclave, forse il più importante e decisivo dalla riforma gregoriana, che si trascinerà senza effetto per ventisette lunghi mesi, lasciando nello sconcerto non solo i più attenti fedeli, ma anche chi fosse stato interessato alle aspettative di risoluzione dei maggiori problemi politici e di sovranità del momento. Già dieci anni prima la scintilla dei Vespri siciliani aveva ravvivato nella nobiltà siciliana l’istintiva preferenza per la perduta (e maltolta) sovranità normanno-sveva, manifestatasi coll’offerta del trono dell’isola agli Aragonesi, i quali per legami matrimoniali si trovavano schierati in funzione antifrancese e perciò antipapale (Angioini).[11] Si andava profilando insomma un periodo non breve di crisi di identità politico-religiosa della cristianità, sempre divisa fra guelfismo e ghibellinismo, e che questa volta si sarebbe concluso col trasferimento in Francia, sotto il protettorato della corona capetingia, dell’ufficio papale («cattività avignonese»). Ora, a partire da quel 1292, col conclave ci si trova a decidere su quale tipo di indirizzo e contenuto la Chiesa si sarebbe dovuta misurare nell’esercizio del suo potere sovrano: e pare proprio che lo scontro ingaggiato all’interno degli interessi materiali delle opposte famiglie feudali dei Colonna (Giacomo e Pietro) e degli Orsini, grandi elettori e componenti da lunga data del collegio, andasse in direzione opposta alle aspettative spirituali(ste) di quasi tutto un secolo. Era in gioco anche il vecchio principio non codificato, risalente già al periodo prenormanno, che la Sicilia fosse un appannaggio feudale di diretta competenza papale. Oltretutto il giovane istituto della sacra magistratura non era condotto con la stessa tecnica assembleare odierna, cioè nella clausura ininterrotta  e nell’isolamento costante dei componenti fino all’elezione finale, ma anzi i cardinali elettori si trovavano allora liberi di disertare il consesso e di circolare senza impedimenti in lungo e in largo anche fuori dalla città, intrattenendo pourparleurs e contatti coi più disparati clienti e sostenitori, laici ed ecclesiastici.
Fu in questa situazione d’impasse che nell’estate del 1294, a Perugia si presentò, munito di una certa irruenza, Carlo II d’Angiò insieme al figlio Carlo Martello, per sollecitare dal Conclave una decisione in tempi brevi, spinto com’era dall’impellente necessità di veder presto ratificato, almeno da un papa nel pieno dei poteri sacri, l’accordo appena raggiunto con gli Aragonesi circa la sistemazione dinastica della Sicilia. E invece l’angioino fu respinto di tutto punto, anzi rimbrottato e cacciato dal cardinal elettore Benedetto Caetani - che presto anche lui sarà fatto papa (Bonifacio VIII) -, il quale non trascurò così di farsi conoscere dal gran numero di sovrani che venivano ognora e inopinatamente a chiedere favori e riconoscimenti clientelari, senza che ne avessero determinato o discusso à l’avance il prezzo. Tuttavia la pressione esercitata dai due angioni sui cardinali riuniti non fu vana, ma anzi ebbe l’effetto di una subitanea quanto inattesa risoluzione nella scelta del Sacro Collegio, il quale a sortita elesse un non porporato, scegliendolo, grazie anche alla perorazione del cardinale decano Latino di Melabranca e dopo ben più di due anni di vacanza del soglio, in un monaco eremita assolutamente solitario, un anacoreta molto avanti con l’età, per giunta completamente estraneo, per scelta mistica, alle più banali logiche della sovranità: il settantanovenne molisano Pietro Angeleri, conosciuto come fra’ Pietro da Morrone, che tosto avrebbe assunto il nome di Papa Celestino V, e che avrebbe di lì a poco ufficializzato l’ordine dei fraticelli jacoponici. Ma era il 5 luglio 1294, e il neo eletto non era lì ma sui monti della Maiella, in pieno e assoluto ritiro spirituale (che lui stesso ora credeva l’ultimo, quello finale), completamente ignaro di quanto stava accadendo sul suo conto. Ma a dire il vero, l’Angeleri non si era tenuto del tutto fuori dall’indecoroso souplasse del Conclave, al quale, stando ad alcune delle numerose e colorite cronache successive, aveva indirizzato una strana lettera minacciando l’ira di Dio sui cardinali elettori se avessero protratto troppo a lungo la «vedovanza della sposa di Cristo»: una prova ulteriore della viltà additata dai critici di Celestino, i quali riferiscono che la lettera fu scritta sotto la pressione e l’induzione dello stesso Carlo d’Angiò per ottenere il risultato voluto.
La decisione dei cardinali in conclave di offrire candidato, a mo’ di agnello sacrificale, chi aveva osato gettare giudizi morali sul conclave era chiara quanto opportuna - anche se un po’ strumentale: occorreva un papa fantoccio che per il momento desse soddisfazione agli angioini quanto agli aragonesi, che consentisse di superare la fase giudicata di passaggio e contingente, lasciando che i cardinali giunti a patto guidassero nell’ombra e dietro le quinte le sorti interne della Chiesa. In quel momento i casi dell’Italia meridionale e insulare interessavano meno rispetto a quelle della Donazione di San Pietro e dell’Italia centrale, ritenute forse molto più importanti da dopo la fine del dominio normanno svevo. La speranza era quella di affidare a un «estraneo» il vicariato di Cristo per meglio occuparsi le sfere ecclesiastiche di faccende più rilevanti: le logiche di potere. E così sulla persona dell’Angeleri vennero a riporsi le speranze della cristianità più spirituale, di derivazione francescana e pauperistica. Tanto è vero che lo stesso Jacopone dedicherà una Lauda a Celestino V («Che farai Pier da Morrone…?») nella quale si riassumevano per il governo della Chiesa tutte le aspettative e le ansie cristiane di un’epoca segnata da una tensione morale e evangelica mai viste prima.
La debolezza e la manovrabilità di papa Celestino V,[12] la sua capacità di lasciarsi strumentalizzare, quella inadeguatezza al compito assunto obtorto collo di cui parlò anche il Petrarca, non tardarono a farsi vedere, anche se i primi atti (bolle) che emanò con l’intento di riformare moralmente la Chiesa furono destinati a lasciare in positivo il segno tanto nei sostenitori quanto nei critici e negli oppositori. L’emissione della Bolla della Perdonanza[13] intendeva assumere il significato di azzerare tutti i debiti morali contratti dai fedeli fra loro stessi, accogliere i peccatori pentiti a nuova linfa della cristianità. e creare finalmente le condizioni per un egualitarismo di fondo previo un semplice atto di umiliazione che avrebbe dato il segno e offerto il simbolo dell’inaugurazione di una società cristiana finalmente riconciliata, più giusta e non gerarchizzata. Un rituale figurativo questo, certamente caro a Jacopone, il quale insieme agli altri esponenti «spirituali» Pietro da Macerata (fra’ Liberato) e Angelo Clareno (fra’ Pietro da Fossombrone) chiese e ottenne dal nuovo papa il riconoscimento del loro gruppo francescano, pauperista e spiritualista, e che fu dunque denominato dei «Poveri eremiti di Messer Celestino».[14]
Dalla Perdonanza però non si sarebbe più fatto ritorno indietro: il suo successore Bonifacio VIII, cioè quel cardinal Caetani – figura a dir poco ingombrante, decisiva e discriminante per i destini di molte persone che vissero da protagonisti la Chiesa di quel periodo (l’Angeleri, l’Alighieri, Jacopone, i Colonna ecc.), lo convinse finalmente, a forte rischio di plagio, a dimettersi dalla suprema carica cristiana – fatto e atto unico, enorme, nella storia della Chiesa –; ne copiò la forma canonica travisandone la sostanza giuridica, così da introdurre il lucro[15] vero e proprio, inteso nel senso economico-finanziario più stretto, nella tratta di quella «indulgenza» che Pietro da Morrone aveva inserito nel diritto canonico. E l’indulgenza era concepita originariamente come principio di restituzione dell’integrità e purezza dell’anima alla comunità universale degli uomini. Dal plagio del Caetani sarebbe uscito finalmente il Giubileo del 1300, il primo della storia che viene annoverato, ma opposto e contrario all’annuale indulgenza plenaria di Celestino.
Papa Angeleri si era messo completamente nelle mani dell’angioino Carlo, attirandosi anche per questo il biasimo di molti che avevano sperato in lui: nominò il sovrano francese anzitutto «maresciallo» del futuro conclave, già pur pensando al proprio abbandono; nell’unico concistoro del suo brevissimo pontificato (18 settembre 1294) investì ben 13 nuovi cardinali, nessuno dei quali romano ma molti francesi; ratificò con una bolla il trattato fra gli Angiò e gli Aragona per il ritorno dell’isola ai francesi, fissandolo alla morte del sovrano aragonese, non senza trasferire la sede della Curia da l’Aquila a Napoli, stabilendo altresì la propria residenza in Castel Nuovo, dove riservò a se stesso una piccola stanza, umile e semplice, così da illudersi di perseverare nella sua attitudine ascetica e schiva. Intanto il potere reale si incollava alle mani di Carlo d’Angiò. Ecco dunque che se da un lato Dante Alighieri bollò d’ignavia e pusillanimità Celestino per non aver saputo (e voluto) esercitare il potere come si deve, aprendo di fatto la strada all’anacronistico e pernicioso progetto teocratico-simoniaco del Caetani[16] quando questi raggiunse un’intesa generale con Carlo, dall’altro Jacopone oscillò nella considerazione di Celestino per la stessa ragione: rinunciare, cioè non dire mai «Voglio!»,[17] significava nei fatti non mantenere il potere, e dunque lasciar cadere nel nulla la pratica della penitenza e della remissione gratuita della colpa finalmente introdotte dal Morrone con la Bolla della Perdonanza – e per il frate esiziali per il progresso della fragile personalità umana.
Ma a riprova e sostegno di tutte queste circostanze, oltre alle note laudi composte ad invettiva contro il Caetani, e cioè «Iesu Cristo se lamenta de la Eclesia romana»,  «O Bonifazio, molt’ai iocato al mondo» e «O papa Bonifazio, eo porto tuo prefazio», quest’ultima scritta in prigione per chiedere a Bonifacio che lo aveva fatto imprigionare dopo l’immediato scioglimento dell’ordine eremitico-celestiniano di togliergli la scomunica, sarebbe importante ai fini della ricostruzione della complessa e oscura lotta politico-religiosa di quella fine secolo, poter conoscere il testo del famoso quanto inesplorato Manifesto di Lunghezza, redatto da Jacopone da Todi in persona il 10 maggio 1297 su commissione dei cardinali Jacopo e Pietro Colonna, avversari e vittime a Bonifacio VIII. Il Manifesto è un vero e proprio atto di denuncia lanciato nei confronti del Caetani. Dopo che la politica teocratica e simoniaca del nuovo papa si era già tutta dipanata, quella carta fu esposta al pubblico ad opera di quei cardinali nobili sconfitti proprio per stigmatizzarla. Costoro la fecero affiggere nel maggior numero possibile di chiese a Roma e nel Lazio. Il documento è conservato nell’Archivio Segreto del Vaticano, la cui mostra ancor oggi ne documenta soltanto l’esistenza, senza possibilità alcuna di consultazione o visione. Lì, in forma solenne, tipica di un atto regolarmente rogato e «pubblicato» nei modi allora usati, sono denunciate le malefatte di Bonifacio, la sua sostanziale eresia, la simonia impiegata per diventare papa e forse anche la sospetta sodomia, oltre ovviamente alla illegittimità della sua elezione al trono di Pietro, al plagio da lui usato, complice Carlo d’Angiò, nei confronti di Celestino V,[18] le cui dimissioni erano da considerarsi nulle. Nel Manifesto, redatto nel Castello di Lunghezza - donde il nome col quale è passato alla storia -, località già feudo dei Colonna sito lungo la Tiburtina, poco fuori Roma, si autorizzavano i fedeli alla disobbedienza  e veniva segnalata l’occorrenza per la cristianità della convocazione di un nuovo Concilio, affinché venisse eletto finalmente un nuovo papa, l’attuale rappresentando Satana ed essendo perciò dichiarato decaduto.
La reazione di Bonifacio VIII non tardò a venire: tredici giorni popola pubblicazione della carta di Longhezza, il 23 maggio 1297, il papa emise una bolla intitolata «Lapis abscissus» con la quale tolse sigilli e titoli ecclesiastici ai Colonna, sciolse l’ordine dei frati spirituali istituito da Celestino, scomunicò i ribelli e tutti quelli che avevano aderito alle prescrizioni del Manifesto e bandì una crociata contro la fortissima corrente spirituale raccolta nei Colonna, dando incarico a Matteo d’Acquasparta, amico di vecchia data di Jacopone, di perseguire gli scomunicati che avevano riparato a Palestrina, roccaforte e caposaldo dell’opposizione spiritualista. Nel settembre dell’anno seguente, dopo un anno e mezzo di assedio al paese, al castello e alla rocca, Palestrina capitolò finendo coll’essere distrutta completamente secondo gli ordini papali: sulle rovine fu cosparso addirittura il sale dopo che se ne passò con l’aratro il terreno (primavera 1299), a segno didattico della memorabile fine riservata ai nemici di Roma.[19] L’atto in realtà nascondeva il passaggio di proprietà di quel feudo all’appannaggio personale del Caetani, che lo diede in gestione ai cardinali Orsini. I Colonna dovettero riparare in Francia, sotto la protezione del re capeto Filippo il Bello, il quale avrebbe poi ingaggiato con successo una lotta di sostanziale autonomia politica e finanziaria, di tipo «nazionale», dallo Stato della Chiesa.
Jacopone da Todi fu catturato durante l’assedio, torturato, spogliato del saio, processato e quindi condannato in perpetuo, con pena da scontare nel carcere del Convento di San Fortunato a Todi, sua patria natale. Neppure quel grande lavaggio universale dei peccati rappresentato dall’Anno Santo del 1300 gli valse l’assoluzione o, in alternativa, la sospensione della pena, o almeno una qualche forma di grazia. Fu solo grazie a Benedetto XI, eletto papa alla morte di Bonifacio il 12 ottobre 1303, che a Jacopone fu tolta la scomunica, restituito l’amato saio francescano e concesso di ritirarsi nell’ospizio dei frati minori annesso al monastero delle Clarisse a Collazzone in Umbria, dove morì, come vuole la tradizione, nella notte di Natale di tre anni più tardi, 1306.
Esiste un san Celestino, un san Bonifacio - che non è il Caetani - , ma è anche vero che non esiste un san Jacopone da Todi. Il quale però viene annoverato dal 1433 come «beato» per tradizione e volontà dei Francescani, a lui fedeli e memori. In quell’anno infatti il corpo del Benedetti fu traslato nell’Ospedale della Carità a Todi e successivamente nella sacrestia della Chiesa di San Fortunato. Nel Cinquecento, il vescovo di Todi, Angelo Cesi, tumulò i resti del giullare di Dio nella cripta di San Fortunato, dove si trova tuttora per la devozione dei credenti.

Tuttavia, non sarebbe corretto rappresentare lo scontro diretto fra Jacopone e il Caetani, entrambi frequentatori dell’Università di Bologna, solo come la lotta sempiterna fra bene e male, fra vittima e carnefice, cosa che per come si sono svolti i fatti e per certi profili non è del tutto sbagliato assumere, quanto invece, proprio per rendere giustizia ad entrambi gli uomini di fede, inscrivere quella lotta come un impatto storicamente determinato fra due diverse e anche personali concezioni del «corpo» e della sua «resurrezione», pur sempre considerati all’interno della fede e della cultura cristiana del Dugento. Jacopone si oppose strenuamente al culto dei morti mediato dallo smembramento del corpo finalizzato all’adorazione speculativa, al traffico delle reliquie corporali che avveniva normalmente nel suo tempo come conseguenza delle crociate, ma che da Bonifacio fu  sapientemente organizzato proprio con l’istituzione del Giubileo, occasione ghiotta per fare cassa e grande proselitismo. Per la personale esperienza traumatica vissuta, peraltro in stretta analogia con la mitica «conversione» corporea di Paolo di Tarso, e per l’intima visione del concetto di dolore, da lui percepito crudo e nudo, il beato di Todi scrutò più correttamente e profondamente del Caetani nel corpo «risorto» di Cristo (da vivere come perifrasi dell’uomo). L’evento della resurressi, avvenuta canonicamente dopo tre giorni dalle indicibili sofferenze umane e fisiche patite sulla croce della carne, rappresenta una vera e propria «guarigione» del corpo e dal corpo, la sua definitiva salvezza ad unicum, ovvero anche la concreta metamorfosi di esso in qualcosa d’altro: l’avvento dello Spirito.

Fernando Giaffreda, © 2008
 

[1] La lauda, che più tardi con Dante sarebbe diventata lode (cfr. la sua apologia letteraria dello “stilo de la loda”), consiste in un componimento poetico in volgare tipico dell’epoca, ad argomento religioso e a forte caratterizzazione popolare, con fine esplicativo, didascalico e accessibile ai semplici. Non di rado essa è anche musicata, e per questo assume quella speciale forma lirico-narrativa, di tipo quasi esclusivamente religioso, per la quale al “solista” i fedeli rispondono per le rime. Grazie a Jacopone, tale forma poetica si presenta drammatica o dialogata, soprattutto per divulgare e diffondere fra gli umili il Vecchio e il Nuovo Testamento, e le leggende sacre.

[2] Strumento di penitenza di antichissime origini e di cui in quel tempo, come in parte oggi, si doveva avere l’autorizzazione clericale per indossarlo.
Il cilizio è originario appunto della Cilicia e dell’Anatolia, consistente in una grossa e grezza stoffa tessuta con pelo di capra, che per la sua densità è più simile alla crinolina. La sua particolare consistenza indusse i Romani ad adoperarla quale veste militare protettiva o come arsenale protettivo nelle opere e macchine belliche.
L’uso penitenziale del cilicio ne ridusse nel Medioevo forme e dimensioni, per poterlo indossare intorno alla vita o alla coscia, laddove la carne era più esposta al soffregamento dei nodi di spago o teste di chiodi che vi venivano aggiunte per provocare dolore nel movimento. La corda nodosa che fa da cintura al saio francescano (il cui ordine è detto appunto anche «cordigliero»), ne è una variante manifesta, che soddisfa l’immaginazione e allude alla penitenza, regola fondante di quella confraternita religiosa. Concettualmente, il contrappasso psicologico penitenziale lo fece diventare uno strumento di protezione ed esercizio dell’anima nelle campagne militari dello spirito (religioso).
Paradossalmente, l’uso di questo strumento di sofferenza che si preferisce autoinfliggersi è ancora attuale, e sopravvive mirabilmente alla modernità: si veda, solo per pura curiosità http://www.ilprimoamore.com/testo_375.html.

[3] Gli autori volgari della prima letteratura italiana si contraddistinguevano anche per l’invenzione di nuove parole e fonemi quali, nel caso di Dante, perizoma o, nel caso invece di Jacopone, di nudo.

[4] Nel 1987 Silvestro Bessi, storico collaboratore del Bollettino della Regia Deputazione di Storia patria per l'Umbria (rivista pubblicata a Perugia come annuario dalla Deputazione S.P.U.), ha rinvenuto nell’atto rogato del Memoriale Communis Spoleti l’annotazione della presenza di due consiglieri del Comune di Todi: un «Angelucius Benedictoli» del rione «Collis» e un «Iacobus Benedictoli (…) de regione Sancti Silvestri», probabilmente fratelli, il secondo dei quali, per lo storico, sarebbe appunto J.

[5] Bizochus in latino medievale. Oggi il termine circola di rado come sinonimo di bacchettone e bigotto, ma nel caso di Jacopone è da presumersi che egli fu prima esattamente «pinzochero», affiliato cioè come laico all’ordine dei francescani per condurre la nuova vita devota in preghiera e carità, ma, soprattutto per il suo caso, in penitenza e umiliazione; e poi, alla fine del suo decennale apprendistato monacale, fu, secondo le regole del convento di San Fortunato a Todi, dove passò, «bizzoco», appartenente cioè al terzo ordine dei francescani: colui che anche sotto la diversa guida di domenicani e agostiniani conduceva una vita povera e umile in protesta contro il lusso dell’alto clero, con o senza presa di voti.
Ma l’interessante consiste nell’accezione sentenziale del termine bizzoco, che nelle condanne e bolle papali venne a designare i pauperisti, e perciò gli scomunicati, a seguito della risoluzione giudiziale pontificia sulle divisioni prodottesi nel movimento francescano. In particolare, bizzoco è anche sinonimo di begardo (beghino [der. bigotto] ma più esatto al femminile, come chi appartenne alle associazioni religiose sorte nel XII secolo non riconosciute, e anzi condannate e scomunicate prima dal Concilio Lateranense IV del 1215, sotto Innocenzo III, e poi dal Concilio di Vienne [Alpi-Rodano] del 1311, condotto da Filippo IV di Francia Capeto, detto il Bello, che teneva in pugno Clemente V, col risultato di scomunicare questi movimenti «spiritualisti» definiti pauperisti, umiliati, arresi, bizzochi, romiti ecc. insieme ai Templari, il capo dei quali fu portato al rogo).

[6] Locuzione del verso 130 presente nella Laude 53 (LV), De fratre Iacobo quando fuit  in carcere [Cantico de frate Jacopone de la sua pregionìa. lv.] in  Iacopone da Todi, Laude, a cura di Franco Mancini, Gius. Laterza & figli, Bari 1974 – © 2002 Biblioteca dei Classici Italiani by Giuseppe Borghi.

[7] «Empazzato d’amore de Dio», com’egli s’esprime in più d’una lauda.
 

[8] «Un courant souterrain, plus profond et plus caché que l’augustinisme parce que plus hérétique, traverse le christianisme. On pourrait le comparer à une nappe phréatique qui abreuve les racines des arbres, perce à la surface dans les sources, alimente le puits. L’Évangile éternel doit sa mise en forme, très  probablement, à Abélard autant qu’a Joachim de Fiore. Il actualise et répartit dans le temps les personnages de la trinité chrétienne. Arrachées à leur substantialité mystérieuse e mystique, à leur éternité, ils entrent dans la «réalité» et dans l’historicité. Le Père ? C’est la nature avec ses prodiges ; c’est la puissance féconde, infiniment, terriblement, en qui se discernent mal la création et le créé, la conscience et l’inconscience, la souffrance et le plaisir, la vie et la mort. L’épreuve ne s’ajoute pas à l’existence naturelle, elle lui est inhérente. Le Fils, le Verbe, n’est pas éternellement coextensif à la substance paternelle ; il en émerge, il en naît dans la durée ; le langage, la conscience, la connaissance, coïncident avec la naissance et la croissance du Fils. Au cours de son ascension, le savoir ne peut pas ne pas avoir confiance en soi ; cette foi accompagne la conscience et son inquiète certitude, conquise sur le doute. Le Verbe a cru sauver le monde. Il a échoué. Le savoir ne suffit pas à la rédemption – ni la souffrance de la conscience malheureuse. Non seulement le Christ (le Verbe) mourut en vain, ma sa mort a permis à la pire des puissances de s’établir, à l’Église, qui célèbre la mort du Verbe en le tuant chaque jour : en tuant la pensée. Pour que la Rédemption s’accomplisse, il faut que l’esprit, le troisième terme de la triade éternelle et temporelle, immanent au transcendant, s’incarne en bouleversant le monde. L’Esprit est subversif ou n’est pas. Il s’incarne dans l’hérétiques, les révoltés, le purs en lutte contre l’impureté. Il apporte avec lui la révolte et la joie. L’esprit seul est vie et lumière.
L’Évangile éternel divise le temps en trois périodes : la Loi, la Foi, la Joie. Au Père appartient la Loi et de lui elle provient: dure loi de la nature et de ce qui la prolonge, la puissance. Au Fils, au Verbe, appartient la Foi, avec ses corollaires, l’Espérance et la Charité. L’Esprit apport la joie, la présence et la communication, l’amour absolu et la lumière parfaite. Mais aussi la lutte, l’aventure, la subversion, donc une violence contre la violence…». Henri Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche ou le royaume des ombres, Casterman, Tournai, 1975 p. 37 e segg.

[9] «Uno fra i più grandi movimenti eretici assilla da secoli l’ortodossia e, di conseguenza, la stimola e la feconda. Se ne nasconde l’importanza e perfino l’esistenza. Secondo il paracletismo, l’incarnazione di Cristo non ha salvato il mondo. Il Cristo ha doppiamente fallito; egli morì senza cancellare le conseguenze dell’origine degli uomini, e cioè le loro sofferenze e la loro malvagità, i preti e la Chiesa si sono impadroniti del suo messaggio e della sua morte utilizzandola per fini menzogneri, corruttori e dominatori la Chiesa riunisce dunque i peggiori nemici della divinità, coloro che ogni giorno resuscitano di nuovo il Dio che muore in eterno, per ucciderlo. Infatti, la potenza del Verbo (il «Logos» secondo San Giovanni, ragione e coscienza, discorso e sapere), necessaria, non basta alla redenzione del mondo. Il Padre assoluto crea in una specie di frenesia crudele e indifferente; l’Essere infinito getta le sue creature nell’essere finito (il mondo). Da quell’oceano burrascoso nasce e si eleva la coscienza con la scienza, in una parola: il Verbo. La coscienza partecipa alla sofferenza delle creature e la esprime; crede di placarla e non ci riesce. Per porre fine a questa tragedia, cioè la morte sempre vana del Verbo e il suo sacrificio ogni volta inutile, occorre che si incarni la terza persona, lo Spirito, di cui si parla tanto poco (poiché il Logos propone se stesso e non propone che sé). Lo Spirito parla raramente. Prima scaglia la sua sacra collera contro quelli che pretendono che la salvezza del mondo sia già compiuta. Dopo aver aperto la sua strada con la violenza, lo Spirito porterà la riconciliazione ultima fra la carne e l’anima, fra il creatore e la creatura, fra la potenza spontanea e la trasparenza. Già quando soffia (parla) lo Spirito annuncia la guerra contro i signori, contro i re e i principi, contro i vescovi e il papa» (in Henri Lefebvre, Il manifesto differenzialista, Dedalo –Bari, 1980, pp. 67-68). Al testo viene appresso la seguente nota dell’Autore: «Alcune osservazioni su questa eresia: a) Essa fu l’ideologia delle grandi rivolte contadine fino al XVI secolo incluso; b) Abelardo fu paracletista, di qui la sua critica del Logos e il suo nominalismo. Lo si picchiò crudelmente in quanto eretico più che come amante di Eloisa. Per lei egli fondò l’abbazia di Paracleto; c) Attraverso Abelardo, la filosofia occidentale deriva in una certa misura dal paracletismo. L’Idea hegeliana e lo Spirito assoluto formulano filosoficamente la riconciliazione suprema, la sintesi finale; non senza privilegiare il Logos; d) Se per «spirito» si intende il mondo della differenza, la grande eresia fondamentale riacquista un senso».

[10] Gli Zeloti sono catalogati da Giuseppe Flavio, storico ebreo romanizzato nato a Gerusalemme intorno al 37 d. C e morto a Roma nel 100, come la quarta setta filosofica presente nella città del Santo Sepolcro al tempo di Gesù con i Farisei, i Sadducei e gli Esseni. Gelosissimi della tradizione religiosa e della legge ebraica, nonché predicatori solerti della rivolta armata contro gli occupanti romani, gli zeloti si trovarono molto vicini agli esseni, cui forse apparteneva lo stesso Gesù secondo un’ipotesi addotta peraltro senza prove certe da Benedetto XVI, nell’episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio, azione essenica poi attribuita dai Vangeli alla sola mano di Gesù in persona. Li contraddistingueva il loro pauperismo, la purezza e la semplicità, anche sociale, della loro concezione escatologica. Il collegamento etimologico dei frati francescani del Dugento con gli zeloti ebraici non può non colpire l’immaginazione e lo spirito di ricerca.
 

[11] Pietro III d’Aragona aveva sposato Costanza, figlia del re di Sicilia Manfredi Hohenstaufen, morto nella battaglia di Benevento nel 1266. A lui i nobili dell’isola, che per gestire la crisi dei Vespri si sarebbero presto riuniti a Catania in un «parlamento» tutto siciliano, avevano offerto la corona di Sicilia in cambio di aiuto per cacciare i francesi dall’isola.

[12] Sulla figura storica e il dramma di Celestino V, Ignazio Silone (pseudonimo che cela il vero nome anagrafico di Secondino Tranquilli [Pescina de’ Marsi, AQ, 1.5.1900 – Ginevra 18.8.1978], un militante della gioventù socialista che a Livorno, nel 1921, dalle logge del teatro Goldoni dove si teneva il XVII congresso del PSI, gridò violentemente, provocando la scintilla della scissione, che si dovesse abbandonare immediatamente quello scempio di raduno borghese per riunirsi nell’altro teatro di Livorno, il San Marco, per fondare appunto il Partito Comunista d’Italia), scrisse un dramma letterario, L’avventura di un povero cristiano, Milano, Mondadori, 1968, che vinse il premio Super-Campiello dello stesso anno, e il cui interessantissimo testo si avvalse di alcune successive rappresentazioni teatrali. In esso si ventilava fra l’altro l’ipotesi che il personaggio del III canto dell’Inferno,«colui  che fece per viltade il gran rifiuto» non fosse Celestino ma Ponzio Pilato.

[13] Emessa a L’Aquila, dalla Basilica di Collemaggio il 29 agosto del 1294, giorno della sua incoronazione avvenuta alla presenza del Sacro Collegio, di diversi sovrani, fra cui gli Angiò, e di cospicue delegazioni cittadine di tutta Europa, non senza l’intervento di un folto popolo tripudiante, la Bolla dell’Angeleri elargiva per la prima volta nella storia della Chiesa l’indulgenza plenaria a chiunque, confessato e pentito sinceramente dei propri peccati, si fosse recato per comunicarsi nella stessa basilica dov’era avvenuta la cerimonia nel periodo per i vespri del 28 agosto di ogni anno al tramonto del giorno dopo.
Ancor oggi la cerimonia del primo vero giubileo cristiano scaturito dalla Bolla del Perdono, conservata nella cappella blindata della Torre del palazzo comunale de L’Aquila, si svolge ogni anno nel capoluogo abruzzese sotto l’ufficio dell’autorità civile del Sindaco, il quale con l’approvazione della Santa Sede lo inaugura ogni estate, leggendo in pubblico la bolla. Sarà poi Bonifacio VIII, l’aguzzino di Celestino V e di Jacopone, a copiare l’idea del perdono universale, rieditandolo con qualche trasformazione in un rito penitenziale di stampo prettamente speculativo e mercenario a partire dal 1300, come Anno Santo o Giubileo, cerimonia da celebrarsi ogni cinquant’anni (poi trenta, e poi ancora ogni dieci).

[14] L’Ordine, per così dire, degli Spirituali eremiti fu presto soppresso da Bonifacio VIII quando fu eletto papa dopo la rinuncia di Celestino. Infatti tutte le bolle e decisioni dell’Angeleri, che fu catturato a Vieste il 16 maggio del 1295 mentre cercava di riparare in Oriente da Guglielmo l’Estendard su commissione di Carlo d’Angiò e di Bonifacio per timore che fosse recuperato da Filippo in Bello come antipapa,  furono dichiarate nulle o decadute.

[15] Nella legislazione del diritto canonico (canoni dal n. 992 al n. 997), il termine tecnico e letterale per designare la facoltà del fedele di ottenere per sé e per altri il lavaggio della colpa e del peccato è appunto quello del «lucro». Ognuno poi, compreso Lutero un paio di secoli dopo nella storia della Chiesa, darà un significato diverso a seconda dell’opportunità (temporalità).

[16] Oltre alla pratica nepotistica e all’avidità personale, all’intromissione scorretta e scandalosa negli affari politici e nelle libertà cittadine di numerosi comuni italiani, l’attivismo universalistico e teocratico di Bonifacio si contornò di alcune altre pratiche disdicevoli e molto criticate dalla chiesa di Francia e da Filippo il Bello, uniti in quel periodo in uno sforzo di unificazione (nazionalizzazione e statalizzazione) della società francese. Il culto dell’immagine personale del papa ancora vivente ne fu un primo aspetto, peraltro del tutto inedito, introdotto dal Caetani nella storia della Chiesa. Si fece ritrarre infatti in numerosi dipinti e statue che tuttora si trovano a Bologna, a Orvieto, Anagni, Firenze e a Roma ovviamente. Si fece addirittura immortalare da Giotto in un famoso affresco dove Bonifacio era intento a leggere, dalla Loggia di San Giovanni in Laterano, la bolla che proclamava il suo Giubileo del 1300.
 

[17] Come espressamente recita a mo’ di sollecitazione un passo della lauda a Celestino V dedicata «Che farai Pier da Morrone?».
 

[18] Il 13 dicembre 1294 Papa Angeleri durante un concistoro appositamente convocato abdica in favore del Caetani intonandone egli medesimo la formula recitativa, scritta in una bolla specifica a lungo preparata sotto la sollecita e martellante insistenza del futuro Bonifacio, il quale gli fornì con solerzia tutte le giustificazioni giuridiche di un simile, inedito atto. In quella formula Celestino V denuncia il suo insufficiente sapere, altresì necessario per una conduzione degna del vicariato di Cristo, il suo desiderio di ritornare all’antica vita monastica lasciando le chiavi di San Pietro al Caetani, di diversa caratura e perciò più adatto all’Ufficio.
Successivamente il dimissionario Pietro da Morrone, ritornato all’eremitaggio nella Maiella, è costretto a fuggire dalla chiesa di San Germano presso Sulmona, avvertito del proposito di Bonifacio di catturarlo per timore che intorno a lui si riorganizzasse l’opposizione al suo sostanziale colpo di Stato. Il progetto di fuga in Oriente fu però stroncato il 16 maggio del 1295, quando l’Angeleri fu catturato nella chiesa di Santa Maria di Merino sul Gargano, sita fra Peschici e Vieste, ad opera di Guglielmo de l’Estendard, connestabile del re napoletano Carlo d’Angiò. Di lì fu imprigionato nella rocca di Fumone in Ciociaria, dalla quale non vi uscì se non assassinato per ordine del Caetani nel 1296.

[19] Al di là della motivazione simbolica che traeva l’immagine dalla storia di Roma classica, in una lettera vergata dal Caetani il 13 giugno 1299 si leggeva: «perché non vi resti nulla, nemmeno la qualifica di città». Infatti Palestrina perse in quell’occasione il titolo originario di appartenenza alle sette diocesi suburbicarie di Roma.

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