Sei in: Storiamedievale ® Pre-Testi

di MARIANGELA BINETTI  *

pagina 1

   

è opinione diffusa che lo stato di degrado ambientale in cui attualmente versa il nostro pianeta sia il risultato di alcune scelte operate dall’uomo sul lungo periodo. Tali scelte non sempre si sono dimostrate le migliori perché certe modifiche e trasformazioni, compiute in maniera non «razionale» e inseguendo la logica del profitto e del guadagno, hanno finito col compromettere l’equilibrio delle forze naturali. Questa catastrofe ecologica è considerata figlia del progresso tecnologico: le stesse idee di degrado e inquinamento oggi vengono messe comunemente in relazione con l’industrializzazione selvaggia, con lo smog, con la deforestazione e così via. Il degrado ambientale insomma sembra essere tipico delle società industrializzate. In realtà forme di degrado ambientale, certo diverse e non catastrofiche come le attuali, erano già presenti nelle società preindustrializzate: si pensi al lavoro compiuto tra il XIII e il XIV secolo dai Comuni dell’Italia centrosettentrionale, i quali si preoccuparono non solo di rafforzare il processo di urbanizzazione del territorio, ma anche del «decoro urbano». Certamente questa preoccupazione era dettata da una sorta di sentimento di orgoglio civico, di ambizione per l’aspetto della propria città, fomentato dalle ostilità e dalle incessanti lotte tra i singoli centri. La città doveva essere bella e per questo furono messe a punto norme statutarie concernenti la sua manutenzione, e istituite magistrature che ne curavano l’applicazione e l’osservanza. Gli Statuti cittadini prevedevano innanzitutto che essa non fosse deturpata dagli edifici rovinati, data l’usanza di distruggere case o altre costruzioni per ricavarne legna e pietre da vendere o riutilizzare. Per il suo stesso decoro, ma anche per favorire il commercio, era prevista la manutenzione di vie e strade interne, in modo da rendere più agevole il viaggio a mercanti e viandanti. Le strade, infatti, non si presentavano più fangose come in passato, bensì ricoperte di ghiaia o pietre levigate. La città inoltre non doveva offrire spettacoli sgradevoli, per cui, ad esempio, le forche cui venivano appesi i criminali venivano poste in luoghi non molto centrali; le capre e tutti quegli animali dannosi alle piante e per giunta puzzolenti, dovevano essere allontanati dal centro abitato; piazze, vie, portici, canali, strade, dovevano essere tenuti puliti e agibili, per cui non vi si poteva gettare acqua dalle finestre, tenere animali sotto i portici o nelle piazze, né tanto meno depositarvi letame. In taluni casi si ordinò addirittura di togliere gli alberi selvatici dalle città, di piantarne di domestici in campagna e di praticare determinate coltivazioni [1].

Nonostante le norme e i divieti le condizioni igieniche dell’ambiente non erano ancora delle migliori, perché minacciate comunque dai residui nocivi e maleodoranti delle diverse attività produttive: si pensi all’allevamento dei bachi da seta [2], alla macerazione della canapa e del lino e ai lavori di macelleria. Tuttavia l’elemento che contribuiva a rendere irrespirabile e insalubre l’aria, soprattutto nel contado, era una pratica molto diffusa: la raccolta e la conservazione del letame. Uno dei principali responsabili della bassa produttività era, come è noto, la scarsità di fertilizzanti. Il fertilizzante per eccellenza era il letame, in particolare gli escrementi degli animali: non ce n’era mai abbastanza, tanto che i contadini che coltivavano terre in prossimità delle città acquistavano regolarmente dai proprietari dei vuoti pozzi cittadini interi carri di «maleodoranti rifiuti umani». Accadeva che, essendo il letame una materia di importanza essenziale, il contadino ne curava la raccolta e la conservazione. Queste due operazioni «quanto a igiene o fragranza non erano tali da entusiasmare chi contadino non era». Né va sottaciuta l’usanza, diffusa soprattutto tra i più poveri, di raccogliere il letame per strada quando lo si trovava e di portarselo a casa, dove veniva cumulato fino a raggiungere una quantità che poteva essere venduta [3].

Per l’Italia meridionale non si posseggono attestazioni relative a questa curiosa usanza; tuttavia sappiamo che sia i sovrani svevi che quelli angioini si preoccuparono di contenere il degrado urbano, varando una serie di provvedimenti.

Le Costituzioni di Melfi emanate da Federico II nel 1231 contengono la prima raccolta organica di leggi sanitarie del mondo occidentale; leggi che, raccolte nel Liber III, sono divisibili grosso modo in due capitoli: norme di deontologia e pratica professionale, e ordinamenti di polizia sanitaria [4].

Il De Renzi, lo studioso che si è occupato più da vicino del Liber III delle Costituzioni, ha avanzato un’ipotesi suggestiva circa la sua stesura, e cioè che Giovanni da Procida, medico della corte sveva, avrebbe partecipato alla legiferazione, in quanto quei paragrafi potevano essere stati concepiti solo da un esperto di medicina. L’ipotesi è priva di fondamento per due motivi: innanzitutto mancano documenti coevi che attestino la notizia, e poi le leggi sanitarie non furono scritte ex novo, dal momento che Federico II rielaborò quelle precedentemente emanate dal normanno Ruggero II [5].

Nel titolo XLVIII, «De conservatione aeris», Federico emanò una serie di norme a difesa della salubrità dell’aria, intuendo una relazione tra il degrado ambientale e certe lavorazioni artigianali nocive.

«Nulli amodo liceat in aquis cuiuslibet civitatis [vel castri] vicinis, quantum milliare ad minus protenditur, linum vel cannabem ad maturandum ponere» perché «aeris ... corrumpatur». A quanti disattendevano l’ordine veniva sequestrata la canapa o il lino [6].

La legislazione federiciana rimase in vigore anche nei secoli successivi.

A Napoli nel 1300 Carlo II, in seguito ad una vivace protesta degli abitanti, sottopose ad una operazione di bonifica la zona circostante il Ponte Guizzardo, dove l’aria era malsana e fetida a causa della macerazione del lino nei fusari [7]. Qualche anno dopo, nel luglio 1306, fu ordinato lo sgombero di altri tre fusari: il primo si trasferì «ultra Santa Maria ad Dullolum in loco qui dicitur Campum Servionem»; il secondo «in locum S. Mariae ad Dullolum»; il terzo «in loco ubi dicitur ad tertium» [8].

Ancora un esempio: «Le curature de lini possano curare purché siano distanti due miglia da la città et se ne butta l’acqua», così si legge in due privilegi del XVI secolo a favore dell’Università di Bitonto, per la quale l’industria del lino costituiva uno dei principali cespiti d’introito. « Le vere acque dove se curano decti lini sono in la marina, le quali parte per non essere capace alla quantità de li lini se fanno, parte ancora per la suspectione grandissima et ruina grande ce successe, dove più e più fiate ci sono stati facti schiavi da turchi». Per la qual cosa l’Università chiedeva ed otteneva il 6 gennaio 1550 dal marchese di Bitonto don Conzalo Fernandez de Cordova «che si possono curare de lini in tutti li laghi soliti curarsi, tanto più che li padroni si obbligano et essa Univ. promette a vostra Excellentia che subito levati che saranno li lini de l’acqua cavare et buttare l’acqua fuori, in tanto che non potrà generare mal odore alla città et li poveri se potranno servire de lloro antique et solite commodità» [9]. Tre anni dopo l’Università supplicava il cardinale Pacecco Pietro, viceré di Napoli, «per quanto da tanto tempo che non è memoria di homo in contrario, alcuni cittadini hanno avuto et hanno alcuni laghi de acqua de curare lini infra milliare verso la città de Botonto et contro la Costituzione del regno hanno curato detto lino; et, perché al presente sono vetati, supplicano vostra Signoria ill. mo ... permettere che possano curare ad causa che se perderà la gabella et industria che molta importa ad essa università, stante li eccessivi debiti nelle quali si ritrova, tanto più che dicti cittadini et patroni se offeriscono in continenti, cavando il lino buttare l’acqua fora de dicti laghi». I Bitontini speravano, e a ragione, di ottenere il permesso perché esisteva un precedente: «il simile è stato concesso, alla terra de Terliczo» [10].

«Cadavera ... et sordes, quae foetore faciunt, per eos, quorum fuerint coria», potevano essere lavorati a non meno di un quarto di miglio dai centri abitati, così recita il titolo XLVIII delle Costituzioni federiciane: la pena prevista per i trasgressori era «pro canibus et aliis animalibus, quae maiora sunt canibus, unum augustalem, pro minoribus dimidium».  Federico tuttavia consentiva che sia i residui della macerazione del lino e della canapa che quelli della lavorazione del cuoio «vel in mari vel in flumine proici ...  debere» [11].

La produzione del cuoiame, ha scritto Anna Maria Nada Patrone, serviva unicamente a soddisfare le esigenze locali, visto che  si posseggono testimonianze di esportazioni tutte a breve raggio e soltanto all’interno del regno: a Napoli, ad esempio, si vendevano cuoi bovini di Sicilia [12]. Nelle città del Regnum esistevano sia delle vere e proprie contrade dette «conciarie», come a Palermo, dov’erano ubicate nel centro commerciale, fuori dalle cerchia del vecchio Cassero, che delle strade «di mestiere», come a Messina, dove fin dal XII secolo c’era una «ruga conzarie». La presenza di questi laboratori nel centro abitato è da considerarsi anomala, perché i luoghi destinati alla lavorazione delle pelli con i relativi residui solidi e liquidi, spesso abbandonati nelle strade o negli scarichi all’aperto, erano considerati fortemente inquinanti. Da corna, unghie e pelli, infatti, si sprigionavano in fase di decomposizione anidride solforosa, tiolo, solfuro di idrogeno ed ammoniaca; mentre gli animali «grassi» producevano vapori carboniosi come i formaldeidi, fortemente tossici. Tutto ciò era noto sin dall’antichità, tanto è vero che tali attività furono confinate extra moenia e regolamentate da norme severe e limitative, per impedire che la puzza ammorbasse il centro abitato e che i resti organici inquinassero le acque. 

Bisognerà aspettare le Costituzioni federiciane perché venisse stabilita con precisione la distanza (non meno di un quarto di miglio dai centri abitati) cui era permesso abbandonare i residui della lavorazione. È possibile ritrovare provvedimenti simili solo nelle Assise di Corleone, di Pietro II d’Aragona, e negli Statuti della città dell’Aquila del 1315. È probabile che queste norme risalissero sin alla fondazione dell’Aquila, località interessata alla lavorazione e al commercio del pellame (lo fu anche nei secoli seguenti). Negli Statuti, simili a quelli dei Comuni centrosettentrionali, era  contemplato il divieto di gettare sulle strade pubbliche l’acqua della concia «vel ossa seu cornua ..., rasuram coriorum»; di tenere appese davanti alla propria casa «aliqua coria cruda vel consa colantia»; di stendere sulla strada per farle seccare «coria recentia, putrida, pilose»; di «decoriare coria equorum, molorum, asinorum» nell’abitato o ridare vigore al cuoio secco nelle fonti cittadine. Si può ipotizzare che tali misure di igiene pubblica, anche se poco testimoniate, fossero in vigore in tutto il regno già da tempo, anticipando gli anni dello spostamento delle concerie extra moenia, come accadde in alcuni centri calabresi, a Trapani e a Palermo, dove Federico III proibì nel 1330 ai conciatori di «gittare mortilla in lo fiumi de la conceria ca fora in preludicio di lo porto e de lo fiumi», sotto pena di 4 once e di «extindiri coyra davanti li porti di li vicini loro, ipsi non volenti zo consintiri», sotto pena di un augustale [13].

A Napoli la rimozione delle concerie dal centro risale al regno di Carlo II, in occasione dei lavori di ristrutturazione urbana. Le concerie, infatti, erano ubicate in Piazza dei Pistasi, nella regione di Forcella. Lo sgombero fu ordinato perché «magna pars civitatis ipsius redebatur sordiola, aer eius infectus». Le concerie furono trasferite per sempre in un luogo libero situato «extra civitatem eandem in loco, qui Moricinum dicitur, prope ecclesiam S. Mariae Ordinis Carmelitanum». Il divieto riguardò anche tutti gli altri luoghi della città in cui sorgevano le concerie [14].

La maggior parte delle concerie era gestita da privati, anche se nel XIII secolo non mancarono casi di possesso da parte di ricche abbazie, ad esempio quella di Montecassino, che ne gestiva ben quattro delle sei esistenti nel territorio di S. Benedetto.

Prima della concia vera e propria lavoratori non specializzati, assunti nei primi mesi dell’inverno, eseguivano tutta una serie di operazioni preliminari, necessarie sia per le pelli fresche, ossia quelle provenienti dalle beccherie o dai cacciatori, sia per quelle secche, scorticate da tempo, dure, raggrinzite e spesso salate per una migliore conservazione. Le prime dovevano essere liberate dei residui di carne e ossa dagli excoriatores e poi deterse; le seconde invece dovevano essere rinverdite nelle acque e deterse. Se ne deduce che tutte le concerie dovevano sorgere presso un corso d’acqua per poter eseguire queste operazioni. I cuoi venivano poi messi nelle troscie (buche di forma quadrata, scavate nella terra, profonde 60-70 cm.) ricolme di acqua cotta, ossia bollita in una caldaia con una dose di concia [15] (era necessario quindi disporre anche di grossi quantitativi di legna da ardere). La «malza», cioè l’acqua di concia, era fortemente inquinante e maleodorante, come si evince dagli Statuti dell’Aquila in cui si dice che «pelliczariorum  civitatem deturpat». Il fetore era, infatti, avvertito nei pressi del palazzo regio, di quello della Camera, del vescovato e della piazza del mercato: ciò significa che le botteghe dei conciatori e dei pellicciai sorgevano anche all’Aquila nel centro cittadino.

Anche i ciabattini erano impegnati in una, sia pur modesta, attività di concia: nelle Assise di Corleone emanate da Pietro II d’Aragona, ma a lui precedenti, si vietava ai corviserii sia di gettare l’acqua fetida dei loro vasi per strada durante il giorno, che di seccare sulle piazze e sulle strade private «coira pillosa» [16]

Nonostante i molti e drastici interventi angioini e aragonesi per bonificare l’aria, ancora nel 1500 gli strumenti e le strutture utilizzate per la concia delle pelli e per la tintoria, attività «lorde» per eccellenza, continuarono ovunque a provocare «mal’aere e puzzo grande» [17]

Dagli esempi fin qui riportati si può comprendere perché quella dei conciatori fosse una categoria mal tollerata: Beniamino da Tudela nel XII secolo scriveva, a proposito di Costantinopoli, che nei confronti degli artigiani ebrei c’era «molto odio, provocato dai conciatori di pelli, che gettano via la loro acqua sporca davanti alle porte delle case degli Ebrei ed insozzano il quartiere ebraico» [18]. Gli episodi di intolleranza nei confronti dei conciatori ebrei tra gli abitanti del Regnum crebbero maggiormente nei secoli successivi: nel 1464 l’Università di Taranto chiedeva a Ferdinando d’Aragona «che la conza del corame se debia fare da fore la cita de Taranto et non dentro la terra, salvo che in quelle quactro case quale sonno dentro vicino alla porta dovo è solito de farse per conservatione de lo bono ayro de la dicta cita» [19]

L’espulsione dalle città di certi mestieri divenne, sul finire del Medioevo, un dato generalizzato. A Palermo vennero espulsi dapprima i trappeti da zucchero e poi, nel XV secolo, le concerie. Nel secolo successivo fu la volta di Patti, sempre in Sicilia, dove il governo cittadino inaugurò una politica di maggiore sanità ambientale. Le uniche attività di trasformazione che rimasero al suo interno furono quelle dei filatori, dei tessitori e dei tavernai, i quali vinificavano nelle botti delle taverne perché il vino mal tollerava il trasporto. Le fornaci della terra cotta e della maiolica invece furono espulse non solo a Patti, ma anche a Palermo, Trapani e in Calabria [20]

Le tintorie, ossia i luoghi in cui si praticava la tintura dei panni, erano presenti su tutto il territorio meridionale, a Trani, Barletta, Taranto, Amalfi, Napoli, Capua, Teano, Monteleone (Calabria), Petralia (Sicilia), e, come ben risulta dai registri angioini ricostruiti, sottoposte a tassazione [21]. Queste botteghe erano ubicate prevalentemente nelle giudecche, perché gestite da Ebrei. Nel Regnum la distinzione degli artigiani avveniva non solo in base ai livelli di specializzazione, ma anche alla connotazione etnica, e gli Ebrei erano quelli che eccellevano nella lavorazione della seta e nell’arte tintoria [22]. Federico II, infatti, nel XIII secolo concesse loro il monopolio della seta e delle tintorie, che a Napoli e Capua rimasero attive e operanti anche in periodi di crisi economica. Il loro declino cominciò lentamente a partire dal XIV secolo; e nella prima metà del ‘500 la comunità che risiedeva «nel miglior luogo di Capua ... dove causavano mal’aere, mala conservazione e puzzo grande», era ormai mal tollerata dai cittadini. Sporcizia, tanfo e turpiloquio divennero allora sintomatici di una situazione di miseria ed emarginazione, avallata dallo stesso governo di Capua, il quale chiese all’arcivescovo di costruire il ghetto nell’area di «Piazza Vecchia». In seguito, nel 1540, gli Ebrei vennero definitivamente espulsi, come ormai andava accadendo in tutte le zone del regno [23].

Sempre a difesa della salubrità dell’aria, Federico II regolamentò anche la sepoltura dei morti i quali, se non richiusi in un’urna, dovevano essere sepolti ad una certa profondità. La pena prevista per i contravventori era di un augustale [24].

Un anno di lavori forzati nelle opere pubbliche era invece previsto per i pescatori che avessero avvelenato con «herbas» le acque per meglio catturare i pesci. Le acque, infatti, sarebbero risultate nocive agli uomini o agli animali che le avessero bevute [25]. L’atteggiamento dell’imperatore a tal proposito era piuttosto ambiguo, perché se da un lato proibiva l’intossicamento da veleno delle acque, dall’altro favoriva il loro inquinamento con i residui della lavorazione del lino e della canapa, contenenti a loro volta sostanze dalle proprietà tossiche. La purezza dei corsi d’acqua era messa in pericolo, anche se in maniera modesta, dalla presenza lungo le loro rive dei mulini, della cui presenza si hanno numerose testimonianze negli atti della cancelleria angioina [26]. Tra le attività artigianali e agricole e l’acqua esisteva una forte relazione, dal momento che senza l’acqua molti lavori non potevano essere effettuati. I documenti della città di Capua, ad esempio, abbondano di una espressione particolare, «terra et presa», generalmente tradotta con «terra coltivata», anche se «presa» molto probabilmente sta per presa d’acqua. Le terre coltivate, infatti, necessitavano di una irrigazione regolare, per cui è probabile che esistessero canali per captare l’acqua dal fiume o dal torrente, e cisterne per raccogliere quella piovana o conservarla per le emergenze. In città inoltre dovevano essere presenti anche numerosi pozzi, costantemente minacciati dalle acque del Volturno, in quanto accadeva spesso che esse infiltrandosi inquinassero la falda freatica. A tal proposito abbiamo alcune testimonianze, da Beniamino da Tudela secondo il quale «la città è bella, ma le sue acque sono cattive e le campagne sono devastate dalle febbri» [27], alle carte d’archivio che attestano come i prigionieri contraessero le febbri malariche bevendo l’acqua di pozzo [28].

Cisterne, pozzi, bacini idrici e simili erano dislocati anche nei centri abitati e nelle campagne pugliesi, dove  per mezzo di elevatori (si pensi alle norie) si convogliava l’acqua nei campi. Come ha giustamente osservato Raffaele Licinio, «fonte di costante preoccupazione collettiva nella Puglia medievale, l’acqua ed il suo uso erano oggetto di aspre liti, di suppliche pertinaci, di normative contestate» [29]. Numerose, infatti, sono le chartae in cui compaiono contratti di costruzione di pozzi e cisterne, o clausole di miglioria. A tal proposito riportiamo due esempi significativi: nell’agosto del 1198 Guglielmo, vescovo di Conversano, concesse a Roberto, figlio di Pietro Lombardo, «puteum unum desertum et stercore oneratum» che il monastero di San Benedetto possedeva a Sassano, nell’agro conversanese, a patto che l’usufruttuario lo spurgasse, lo riattivasse e concedesse ogni anno, il giorno di San Benedetto, al monastero una libbra di cera [30]. Nel 1235 la chiesa di S. Angelo in Terlizzi allogava a tal Caropreso di Nicola un campo di ulivi con pozzo in località Morricino, con la clausola di «exicare ipsum puteum et mundare et cunziare decenter ut bene teneat aquam» e con l’obbligo, vita natural durante, di versare annualmente alla chiesa la metà del raccolto ed un censo di 12 tarì d’oro [31].

L’importanza dei pozzi per l’approvvigionamento idrico urbano  è testimoniato da un ordine sui generis, emesso nel 1278 dalla cancelleria angioina: Carlo I infatti scrisse «ai giustizieri di  Capitanata, di Terra di Bari e di Terra d’Otranto che i pirati spesso calano in terra sui litorali dei loro giustizierati per prendere acqua dai pozzi, dai porti e dalle cisterne che in quei luoghi stanno e con tale pretesto fanno scorrerie a danno delle robe e delle persone di quegli abitanti. Per la qual cosa ordina loro di subito devastare e distruggere fino ad un miglio presso al mare tutti i pozzi, i fonti che esistono, conservando solamente quelli indispensabili agli abitanti di quei luoghi» [32]. Ad Agrigento invece l’acqua della più importante fonte idrica urbana era trasportata da due condotte, una «de qua hauriebant aquam saccari», e l’altra che «ex parte orientis dicebatur canalis et decidebat in pilam, ubi bestie adaquabantur» [33].

Nel titolo XLIX delle Costituzioni, «De fide mercatorum», Federico II ingiungeva a macellai e pescivendoli «qui vitae hominum necessaria subministrant», di non commettere frodi perché avrebbero potuto recare danno. I macellai, ad esempio, non dovevano in alcun modo far passare la carne di scrofa per quella di porco, o la «carnes morticinas» per quella conservata da un giorno, o ancora permettersi di vendere a danno ed inganno dei compratori carne guasta o infetta. Similmente per i pescivendoli, i quali non dovevano vendere pesci guasti «et ab uno die ad alium», senza informare l’acquirente. Inoltre, qualsiasi cibo preparato il giorno prima e scaldato il giorno dopo non poteva essere venduto «sine praedictione», a difesa e tutela della salute pubblica [34]

Ad una più attenta analisi i provvedimenti federiciani risultano essere incompleti sotto diversi aspetti: non compare, ad esempio, alcuna disposizione relativa alla manutenzione di pozzi e fontane, o alla nettezza urbana, o alla presenza in città di animali vari, dai maiali alle capre agli asini alle oche; in tutti questi casi non è specificato a chi spettasse la sorveglianza [35], ragion per cui non sappiamo se e come la normativa nel quotidiano venisse rispettata. Una cosa è certa, nel periodo svevo «la qualità della vita sembra incupirsi e deteriorarsi» [36] è probabile inoltre, come recentemente osservato, che Federico II avesse deciso di confinare alcune botteghe artigianali extra moenia dietro la spinta non solo di preoccupazioni sanitarie, ecologiche e ambientaliste, ma anche politiche: gli artigiani delle pelli, infatti, con la loro forza economica, erano sicuramente un ostacolo (e un concorrente) alle scelte economiche e politiche della Corona [37]

Le buczarie o macelli, sottoposti anch’esse a tassazione, erano invece ubicate all’interno delle mura cittadine, come si legge in un documento del luglio 1278 in cui re Carlo ordinava a Manfredonia la costruzione del «macello tra le mura della terra stessa» [38]

Un’altra minaccia per la salubrità dell’aria e dell’acqua era con molta probabilità rappresentata dalle acque di vegetazione, residuo della lavorazione delle olive. Nel Mezzogiorno medievale sono testimoniati numerosi frantoi; in quelli di Terra di Bari l’olio veniva così preparato: le olive macinate e pressate producevano un liquido oleoso, che schiumato dell’acqua più pesante veniva versato in apposite cisterne. L’olio, estratto in emulsione con acqua dalla cisterna, mediante secchi o piatti, veniva versato nell’impianto di decantazione, in modo che l’acqua se ne potesse separare. Quando l’olio emergeva in superficie veniva «tagliato» con la patera o il piatto, mentre la sottostante acqua, essendo più pesante, veniva evacuata mediante tubi di scarico aperti e poi richiusi per permettere la ripetizione dell’operazione. Nei tubi inoltre venivano introdotti dei tappi di cotone a mo’ di bacino di filtraggio dell’impianto [39]. In base a questa procedura è possibile azzardare l’ipotesi di un inquinamento causato dalle acque di vegetazione, le quali come è ormai noto contengono polifenoli (composti chimici con deboli proprietà acide), pericolosi qualora raggiungono una determinata concentrazione. Queste acque  sfociando direttamente nelle fogne o formando fanghi determinavano (e determinano tuttora) ovvie conseguenze per l’ambiente. La stessa aria ne risultava contaminata perché la spremitura delle olive provocava cattivo olezzo. «Aer fit purus, fit lucidus, et bene clarus, infectus neque sit, nec olens foetore cloacae» [40]: questo è quanto prescriveva la Regola sanitaria salernitana, e i sovrani angioini si sforzarono con interventi pubblici di rispettare il precetto.

Carlo Martello, ad esempio, ricordava nel giugno del 1275 ad alcuni abitanti della città di Capua di rispettare il divieto di gettare nella pubblica piazza cadaveri o qualsiasi altra lordura, perché responsabili della corruzione dell’aria. A quanti ignoravano il divieto venivano comminate le pene contemplate nelle Costituzioni del regno [41]

Durante il regno di Carlo I a Barletta si verificò un singolare episodio (dall’aspetto vagamente contemporaneo) di cattivo impiego del denaro pubblico. Il 5 maggio 1273 il re concedeva all’Università la facoltà di imporre una gabella di un quarto di grano per ogni rotolo di carne venduto per sopperire alle spese necessarie alla pulizia dei canali e alla rimozione delle immondizie, che rendevano l’aria insalubre [42]. è probabile che i Barlettani abbiano disatteso l’ordine se Carlo il mese successivo, il 2 luglio, ripeté l’ingiunzione, ordinando lo spurgo dei canali e dei corsi d’acqua della città, e incaricando i giudici Angelo Bonello e Giovanni de Riso di prelevare un aumento sulla gabella della vendita della carne da destinarsi all’esecuzione del lavoro di bonifica [43]. L’ordine, nuovamente disatteso, fu ripetuto per la terza volta il 31 agosto a Galgano Sannella di Ravello, abitante a Barletta e preposto a quei lavori.

Nel settembre dell’anno successivo Carlo scrisse al giustiziere di Terra di Bari perché Giovanni di Benevento, dimorante a Barletta e incaricato dell’esazione di una colletta sul grano e sul macello dell’Università da utilizzarsi per lo spurgo dei suddetti canali, aveva raccolto ben 120 once d’oro senza però pagare Galgano Sannella, responsabile dei lavori, il quale non avendo percepito il danaro aveva sospeso l’opera. Il giustiziere doveva quindi costringere Giovanni a risarcire il Sannella delle spese, in maniera tale che il lavoro potesse essere ultimato nel minor tempo possibile [44]. Il successivo 9 novembre il re per l’ennesima volta ordinò al giustiziere di far ripulire il territorio di Barletta da «omnibus stercoribus», responsabili della corruzione dell’aria e di contagio sia tra i Barlettani che tra gli abitanti dei territori limitrofi. «Sub pena» si ingiungeva anche di far allargare di cinque palmi il canale di Piazza Vetere, in maniera tale che l’acqua potesse liberamente scorrere fino al mare. Il canale doveva infine essere ricoperto di laterizi «bonis et grossis et bene iuntis» [45]. Nel febbraio 1275 i giudici Angelo Bonello e Gaudio de Riso furono incaricati di recuperare nuovamente la somma di danaro necessaria alla pulizia dei canali della città, perché era accaduto un altro episodio increscioso: il preposto ai lavori di bonifica, Angelo Sannella di Ravello, «pecuniam ipsam detinet et in proprios usus convertit». Re Carlo però nel frattempo aveva sentito che tal Giovanni Fasano di Barletta si era offerto volontariamente di terminare i lavori «pro minori pecunie quantitate», ragion per cui si ordinava  che «opus pred. ad meliorem conditionem concedere debeant» [46]

Un altro esempio di degrado ambientale è segnalato a Foggia da Nicolò Jamsilla, il quale narra che in occasione dell’assedio «per la corruzione dell’aria cagionata dallo sterco dei cavalli e da altre immondizie», in città la popolazione fu colta da contagio [47]

In Sicilia il degrado ambientale era stato notato sin dal pieno Medioevo da alcuni viaggiatori musulmani: Ibn Giobair scriveva che Messina era «piena di sudiciume e di fetore», mentre Yaqut, suo contemporaneo, aggiungeva che i Siciliani «per la sporchezza e per il sudiciume» erano peggio degli ebrei e «il negrore delle loro case» superava la «fuliggine de’ forni da mattone» [48]. Nel 1300 i bagni pubblici, frequentati da uomini e donne e presenti in gran numero sul territorio siciliano tanto da essere riconosciuti di fatto come istituzione pubblica, erano (lo ha notato il Trasselli) i principali produttori di «immondizia»: si pensi ai pozzi neri da svuotare, come a Trapani; agli interstizi tra le case adibiti a vuotatoi e ai mucchi di immondizie per le strade, come a Palermo. In alcuni casi, come a Noto, le montagne di rifiuti erano così alte da ostacolare l’ingresso in chiesa; e ancora «recipienti svuotati in testa ai passanti, come a Nicosia; animalucci morti dovunque; le strade ingombrate dai porci che gettavano a terra persino i preti recantisi a dare l’estrema unzione, o che andavano a mangiare i morti al cimitero, come a Corleone; immondizie gettate dalle mura fino a riempire i fossati, come a Malta». Sudiciume e condizioni igieniche precarie erano presenti a vari livelli in città come in campagna, come ci informano sia i documenti del primo ‘500 (si pensi alle relazioni degli ufficiali palermitani che cercarono di ovviare a quei problemi), che il Boccaccio, il quale attesta situazioni analoghe a Napoli e a Parigi. Il «maestro d’immondizia» menzionato in molti Capitoli cittadini entrò in funzione dal 1500, dando luogo a gare, lotte e omicidi per la conquista della carica e per il suo esercizio. In quel periodo, infatti, le condizioni igieniche in genere migliorarono per poi deteriorarsi subito dopo, quando in città si aprirono stalle, in seguito alla diffusione delle carrozze [49].

Per far fronte al degrado urbano sappiamo che a Napoli nel 1304 furono emanate una serie di norme che nell’insieme risultavano una sorta di regolamento edilizio-urbanistico. Carlo II vietò l’uso delle pennate, cioè delle tettoie sporgenti sulle botteghe, le quali restringevano lo spazio specie nelle stradine affollate del mercato; fece demolire gli edifici fatiscenti e puntellare quelli meno sicuri nelle strutture; cercò di limitare, o quanto meno regolare, una usanza molto diffusa, quella cioè di gettare i rifiuti per le strade; stabilì una periodica ripulitura dell’acquedotto e delle numerose fontane che abbellivano la capitale; impose una gabella detta del «buon danaro» per la manutenzione di strade e attrezzature pubbliche [50]. Non sappiamo però se tali norme fossero state estese anche alle altre città del regno; un dato è certo: la stessa Napoli nell’età di Roberto era ancora interessata dal degrado urbano. Nel 1312 quest’ultimo cercò di rendere più vivibile la parte della città prospiciente il mare, caratterizzata da numerosi vicoli angusti e tuguri senza luce, afflitta, nonostante i provvedimenti presi precedentemente da re Carlo II, dall’inquinamento delle acque di scarico e dall’accumulo di rifiuti che ammorbavano l’aria.

Qualche anno dopo, stando ai racconti del duca di Calabria, anche il rione Forcella faceva a gara con il porto quanto a sporcizia: «spesso, ..., passando di là, abbiamo visto agli angoli dei vicoli e su la pubblica via cumuli di rifiuti e fango: tutt’intorno alle mura cittadine una fanghiglia fetida rende difficile il passaggio, e gli scoli dei pozzi ivi esistenti accrescono e alimentano il fango ... . Dalle finestre e dalle porte, all’imboccatura dei vicoli si gettano acque sporche et alia sordida». I responsabili dell’incuria e dell’abbandono di Piazza Forcella pare fossero i proprietari delle case, anche se a detta del curiale Giovanni di Lazzaro le stesse viuzze e le piazze adiacenti erano così sporche che l’aria era irrespirabile. La Corte dal canto suo cercava in tutti i modi di fronteggiare la situazione, ricorrendo spesso a dispendiosi interventi. Nel 1316, ad esempio, il re emanò una severa ordinanza per impedire che le case e gli orti urbani, che sorgevano lungo il tracciato dell’acquedotto di Porta Capuana (quello che portava l’acqua potabile a Castelnuovo e che pare fosse molto capiente), sottraessero l’acqua per poi utilizzarla senza discrezione. In quel periodo, infatti, Castelnuovo era particolarmente affollato a causa di alcuni lavori di ristrutturazione, per cui l’acqua era indispensabile. Non mancarono poi interventi di lastricamento di vie, piazze e strade, eseguito con tecniche adeguate e utilizzando i prodotti delle cave di Pozzuoli o con i resti degli antichi «basolati» romani, sempre di Pozzuoli.

La maggior parte delle città del regno, infatti, versavano in condizioni che oggi gli ambientalisti definirebbero disastrate, per l’assenza di strade, l’impantanamento delle acque, le frequenti frane, i ponti in rovina, la malaria, la siccità e i diversi mali sociali. La maggior parte dei lavori venivano eseguiti a spese dei privati: il territorio foggiano, ad esempio, infestato da malaria e paludi, fu bonificato a spese dei cittadini; Manfredonia col permesso regio ampliò la propria cerchia muraria e concesse a quanti lo desiderassero di costruirvi case, sotto la stretta sorveglianza dell’ordine dei Minori e dei Predicatori; San Severo, possesso della regina Sancia, ottenne il permesso di abbandonare la vecchia strada, la «via francigena» che conduceva i pellegrini al santuario di S. Michele Arcangelo, perché scomoda e senza molte possibilità di ristoro, e di costruirne un’altra più praticabile e meno solitaria. Di fronte a queste opere destinate a soddisfare alcuni bisogni locali re Roberto limitava il suo intervento a operazioni di incitamento o tutt’al più di integrazione delle iniziative cittadine. È il caso di Capua, i cui cittadini nei primi anni del 1300 decisero di costruire un nuovo acquedotto che convogliasse l’acqua in città, non più dal Volturno, come accadeva da gran tempo, ma dalle sorgenti del Monte Rocca. Nel corso dei lavori il duca di Calabria, in assenza del padre, fu costretto ad intervenire per reprimere alcune azioni di sabotaggio compiute da malfattori (presumibilmente briganti al servizio di signori feudali, che con il nuovo acquedotto non avrebbero più riscosso l’acquatico, ossia il tributo sull’uso delle acque) contro la salute pubblica.

Anche a Sulmona il re fu costretto ad intervenire repentinamente per risolvere un altro problema: le terre di quella località, aride per natura, necessitavano di costante irrigazione, possibile solo attraverso la canalizzazione delle acque di due torrenti vicini. Il problema consisteva nell’incapacità (o assenza di volontà) da parte dei proprietari delle terre di trovare un accordo sui lavori da effettuare. Nel 1317 re Roberto per accelerare i lavori ordinò al capitano della città di rendersi promotore di una sorta di consorzio cui obbligatoriamente i proprietari dovevano partecipare. A Ruvo, essendo la «città situata in regione naturalmente arida, non ha né nell’abitato né fuori, nelle vicinanze, l’acqua necessaria per gli uomini e per gli animali, se non due soli pozzi lontani ...». In estate soprattutto la mancanza di acqua affliggeva gli abitanti e rendeva impossibile qualsiasi   forma di allevamento. I cittadini erano disposti a tassarsi pur di raggiungere le 800 once necessarie per la costruzione dei pozzi e di una fontana nei pressi della città. Il re acconsentì alla proposta purché la somma non venisse poi stornata per altri scopi [51].

Gli esempi fin qui addotti consentono di trarre una prima conclusione, e cioè che per quanto le istituzioni politiche si sforzassero con norme e leggi di garantire decenti condizioni igieniche e sanitarie, la situazione ambientale rimaneva invariata. Tali provvedimenti da soli erano insufficienti a garantire condizioni di vita più salubri e igieniche perché non tutti intuivano l’importanza dell’igiene urbana e sociale.

Ad aggravare ulteriormente le già precarie condizioni igieniche e sanitarie concorrevano anche due annosi problemi, intimamente legati tra loro e di difficile soluzione: il dissesto idrogeologico e la malaria.

Determinanti per la diffusione della malaria in Italia furono le condizioni idrauliche, e più precisamente le modificazioni del livello marino della penisola (individuabili nella morfologia delle coste) e la crescita del regime torrentizio dei fiumi, cui seguì la risalita dell’infezione nei fondovalle interni.

Vettore della malaria era la zanzara, presente soprattutto in prossimità della vegetazione palustre, sui cui steli deponeva le uova. La diffusione dell’anofele era da mettere in relazione tanto con l’estensione dell’acqua quanto con il tipo di vegetazione, la quale a sua volta dipendeva dalla «alternanza sia stagionale che interannuale della trasgressione dell’acqua stagnante sulla terra». La propagazione dell’infezione dipendeva oltre che dal meccanismo di sommersione della fascia costiera, anche da quella lenta variazione, sia positiva che negativa, del suo livello, che lasciava via libera all’acquitrino [52].

In Italia, sin dal Medioevo, il processo di bonificazione si è presentato per motivi di carattere sia morfologico che politico-sociale in modo disomogeneo: le zone interessate alla bonifica erano vaste ed estese al nord, frazionate e ristrette a piccoli spazi al sud. L’Italia meridionale, infatti, non ha mai posseduto fiumi paragonabili per portata a quelli settentrionali, ma piuttosto fiumare e corsi d’acqua a regime torrentizio, per cui i danni provocati dalle loro inondazioni erano minori e riguardavano zone poco estese. A determinare questa situazione concorrevano, oltre allo scarso regime pluviometrico, la presenza della dorsale appenninica (che rendeva ancor più breve il corso fluviale), e quella di un manto boschivo più esteso di quello odierno. Questo non significa che l’operazione di bonifica fosse più semplice e facile: la sistemazione dei torrenti a forte pendenza, il prosciugamento di acquitrini, la lotta contro la malaria, il miglioramento delle condizioni igieniche, dipendevano strettamente dal problema della sistemazione dei bacini idrografici, da quello del rimboschimento, dalla costruzione di strade e opere di irrigazione, dalle terribili condizioni pedologiche dovute alla presenza di terreni franosi. Le terre da bonificare erano perciò se non tra le più povere, certamente tra le più depauperate e geologicamente dissestate [53].

La situazione veniva ulteriormente aggravata dalla mancanza di efficaci interventi da parte del potere centrale, a differenza di quanto accadeva al nord, dove i Comuni, sin dalla loro nascita, misero a punto tutta una serie di disposizioni relative alla bonifica idraulica: dalla costruzione di strade e ponti all’arginamento di fiumi e torrenti. Vi furono persino accordi di collaborazione tra  Comuni per la costruzione di canali di scolo e di navigazione: così l’accordo tra Modena e Pistoia del 1225, che vedeva per la prima volta due Comuni collaborare per l’inalveamento del Po, per la manutenzione delle strade ausiliarie e per il regolamento dei fiumi durante la stagione delle piene; e ancora  quello tra Fiorentini e Bolognesi per la manutenzione del canale navigabile fino a Ferrara. Tali provvedimenti rimasero in vigore anche durante l’età delle Signorie, costituendo la base su cui in seguito si attuò, ad opera dei privati, la colonizzazione delle terre demaniali dalle acque.

Secondo Raffaele Ciasca è in questo modo che sorsero i primi consorzi, i quali attuarono il principio dell’associazione: i comuni, infatti, permettevano ai privati di derivare, ossia di sviare in altra direzione, le acque dai fiumi per promuovere l’agricoltura e le industrie, senza però danneggiare la navigazione; si preoccupavano di mantenere in buono stato i canali di scolo e di farne costruire di nuovi lì dove se ne sentiva il bisogno, facendo concorrere proporzionalmente alla spesa gli interessati. Questi consorzi erano esistenti già dall’XI secolo, come testimoniato da documenti privati e statuti cittadini di Milano, Mantova, Verona, Cremona. Una politica comunale sensibile ai lavori pubblici, la collaborazione dei privati, la crescita e la pressione demografica, insieme alla presenza di capitali provenienti dall’industria, incentivarono le opere di sistemazione idraulica e il risanamento di numerosi luoghi infestati dal paludismo [54]

segue

    


NOTE  

[*] Questo saggio è stato pubblicato sulla rivista «Quaderni Medievali», 46 (dicembre 1998), pp. 19-57.

[1] V. Fumagalli, La pietra viva. Città e natura nel Medioevo, Bologna 1988, pp. 37-38.

[2]  L’allevamento dei bachi da seta è un’attività nociva all’ambiente perché fortemente inquinante e maleodorante. All’approssimarsi del termine della vita larvale, il baco, che si nutre di foglie di gelso, vuota l’intestino di tutti i residui di foglie non digeriti  e si prepara a tessere il bozzolo. Il baco è inoltre frequentemente colpito da malattie varie, tra le quali la più ricorrente è la flaccidezza. La flaccidezza, nel suo significato più ampio, ha dato il nome anche ad una malattia con carattere epidemico, che si manifesta per lo più nell’ultima età: i bachi, infatti, muoiono in breve tempo, diventano molli e flaccidi; i cadaveri anneriscono e imputridiscono rapidamente, l’intestino appare profondamente alterato, spandendo un odore ammorbante.

[3]  C. M. Cipolla, Miasmi ed umori. Ecologia e condizioni sanitarie in Toscana nel ‘600, Bologna 1989, pp. 33-35.

[4]  G. Iacovelli, Ordinamenti sanitari nelle costituzioni di Federico II (Atti delle seste giornate federiciane, Oria, 22-23 ottobre 1983), Bari 1986, p. 229.

[5] F. Garofano-Venosta - E. De Rosa, Le leggi sanitarie nelle Augustali federiciane, in «Pagine di storia della medicina», 14 (1970), p. 55.

[6]  Die Konstitutionen Friederichs II von Hohenstaufen für sein Königreich Sizilien, a.c. di H. Conrad, T. von der Lieck-Buyken; W. Wagner, Wien 1973, tit. XLVIII, p. 308: «quod qui fecerit, linum ipsum et cannabem amittat et curie applicetur».

[7]  M. Camera, Annali delle Due Sicilie dall’origine e monarchia fino a tutto il regno dell’augusto sovrano Carlo III Borbone, Napoli 1841-1860, vol. II, pp. 74-75: « Carolus secundus Dei gratia Rex Jerusalem et Sicilie ec. ... ex fusariis ... sitis iuxta pontem Guiczardum ... in quibus linum estivo tempore curabatur propter infectionem aeris et loci adiacentium Civitas clades mortalitatis in civitate ipsa invalebat non leviter, de nostris fidelibus gravi proveniente iactura discrimen et excidium huiusmodi tollere, ... mandavimus et intercidi expresse curationem lini in fusariis supradictis, post quam inhibitionem cives ipsi, et alii quorum intereat, et ad quod dicta fusaria pertinebant asserentes et conquerentes ex hoc intolerabiliter se gravari comodum quod proveniebat eis de dictis fusariis ostendendo petierunt a Nobis, et eorum petitioni pluries institerunt quod provideri super hoc eis de opportuno remedio dignaremur».

[8]  C. Minieri-Riccio, Studi storici fatti sopra 84 registri angioini dell’Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1876, p. 119, a. 1305-1306; per S. Maria a Dogliolo cfr. anche Camera, Annali cit., vol. II, p. 164-65: « Carolus secundus Dei gratia ... ec. ... Deinde cum pervenisset ad Nos quod alia adhuc erant fusaria circa Neapolim ipsi utique Civitati vicina sita prope ecclesiam S. Marie ad Dulliolum que erant Ligoij et Rainaldi Minituli militum, quorumdamque aliorum Neapolitanorum civium, ex quorum exercitio sinceritati dicti aeris et saluti corporee gentis seu populi Civitatis prefate similis poterat lesio provenire, mandavimus quod fusaria ipsa dicti Ligorij et aliorum predictorum sita apud S. Mariam ad Dulliolum ac eorum exercitium deberent totaliter amoveri, que fusaria iuxta mandatum nostrum ab inde fuere remota. ...».

[9]  Libro Rosso della Università di Bitonto (1265-1559), a.c. di D. De Capua, Palo del Colle 1987, vol. I, doc. n. CVIII, p. 533 (1550, 6 gennaio, Bitonto).

[10]  Idem, vol. II, pp. 754-755, doc. n. CXXXVII (1553, 14 settembre, Castel Nuovo, Napoli).

[11]  Die Konstitutionen cit., tit. XLVIII, p. 308.

[12  A. M. Nada Patrone, Pelli e pellame, in Uomo e ambiente nel Mezzogiorno normanno-svevo (Atti delle VIII giornate normanno-sveve, Bari 20-23 ottobre 1987), a.c. di G. Musca, Bari 1989, p. 171.

[13] Eadem, pp. 183-186.

[14] Minieri-Riccio, Studi storici cit., p. 84, Reg. 1300-1301.

[15] La concia era compiuta generalmente con vegetali, specialmente con il tannino ricavato dalle foglie di mirto. Altri vegatali utilizzati erano la polvere di foglie di sommaco, di corteccia di stingo o lentisco, di castagno, noce, ontana, quercia, rovere e cerro. Poteva essere utilizzato anche il tannino contenuto nelle ghiande delle galle o gallozze di vari alberi: cfr. Nada Patrone, Pelli e pellame cit., pp. 186-187.

16 Eadem, pp. 188-193.

[17] R. Licinio, L’artigiano, in Condizione umana e ruoli sociali nel Mezzogiorno normanno-svevo (Atti delle IX giornate normanno-sveve, Bari, 17-20 ottobre 1989), a.c. di G. Musca, Bari 1991, p. 181.

[18] Benjamin da Tudela , Libro di viaggi, a.c. di L. Minervini, Palermo 1989, p. 52.

[19] A. L. Putignani, Diplomi dei principi di Taranto, in «Cenacolo», 3 (1973), p. 73, doc. n. 11.

[20] C. Trasselli, Aspetti della vita materiale, in Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, p. 610.

[21] I Registri della Cancelleria Angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri con la collaborazione degli archivisti napoletani (d’ora in poi R.A.), I (1265-1269), n. 237, p. 83, n. 322, p. 268, n. 374, p. 278;  R.A. II (1265-1281), n. 309, p. 86; R.A. III (1269-1270), n. 225, p. 35 e n. 319, pp. 162-163; R.A.    V (1266-12729, n. 16, p. 103; R.A. VI (1270-1271),n. 861, p. 167 e n. 1881, p. 371; R.A. IX (1272-1273), n. 19, p. 26; R.A. XI (1273-1277), n. 94, p. 113.

[22] Licinio, L’artigiano cit., pp. 162-163.

[23] Di Resta, Capua. Le città nella storia d’Italia, Bari 1985, pp. 25-26. Sulle alterne vicende degli Ebrei in Italia Meridionale cfr. il recente studio di D. Abulafia, Il Mezzogiorno peninsulare dai Bizantini all’espulsione (1541), in Gli Ebrei in Italia, Storia d’Italia, Annali 11/1, Torino 1996.

[24] Die Konstitutionen cit., tit. XLVIII, p. 308: «Sepulturas etiam mortuorum, quos urnae non continent, profundas, quantum mensura dimidiae protenditur cannae, esse iubemus».

[25] Idem, tit. LXXII, p. 332: «Taxum etiam vel herbas huiusmodi, de quibus pisces mortificantur aut moriuntur, a piscatoribus in aquis proici vetamus. Propter haec etenim et ipsi pisces redduntur infecti et aquae, de quibus interdum homines et bestie saepius potum assumunt, nocivae redduntur. Quod qui fecerit, per annum cum ferris operibus publicis deputetur».

[26] R.A. XIV (1275-1277), n, 198, p. 165.

[27] Benjamin da Tudela, Libro di viaggi cit., p. 46.

[28] Di Resta, Capua, cit., pp. 15-16.

[29] R. Licinio, Uomini e terre nella Puglia medievale, Bari 1983, p. 97.

[30] Il  Chartularium del monastero di San Benedetto di Conversano, a.c. di D. Morea, Montecassino 1892, vol. II, doc. n. 141, a. 1198, p. 275.

[31] Codice Diplomatico Barese III: le pergamene del Duomo di Bari [952-1264], a.c. di F. Nitti di Vito e G.B. Nitto De Rossi, Bari 1897, n. 235, a.1235, pp. 256-57. Per quanto concerne la richiesta di un terreno su cui poter scavare un pozzo cfr. Codice Diplomatico Brindisino, a.c. di A. De Leo, Trani 1964, vol. I, n. 58, a. 1243, pp. 92-93: «Petris brundusinus archiepiscopus terram concedit extra Portam Majanei Diomae mulieri brundusine ad fodiendum in eo puteum cum onere solvendi singulis annis ecclesiae suae tarenos auri quattuor, et mittendi per quamlibet hebdomadam salmam unam aquae pro usu suae curiae»; un esempio di pagamento della manodopera necessaria per scavare un pozzo sta in C.D.B XVII, n. 101, a. 1334, p. 168: «Nicolao Thome de Bisancio de Poliniano presente volente et intelligente guadiam ipsam recipiente et stipulante sibi pro se et heredibus suis eis subscripto (...) in puteo uno suo incepto qui est extra Polinianiin loco terris veteris intus fundatum palmos sedicim computato in ipsis illo quod fossum est in fundo ipsius putei et in amplitudine idem puteus erit palmos viginti quattuor et quod in qua porcione donata fodentia excedat amplitudo profunditus in tercia parte pro quo toto predicto opere per me sibi exinde faciendo».

[32] R.A. (1277-79), n. 361, p. 149.

[33] P. Collura, Le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Agrigento (1092-1282), Palermo 1960, n. 53, c. 1253, pp. 107-108.

[34] Die Konstitutionen cit., tit. XLIX, «De fide mercatorum», p. 310: «Buzerios autem venditores piscium, qui vitae hominum necessaria subministrant et ex quorum fraudibus miximum posset non rebus tantummodo, sed personis etiam damnum inferri, in eorum mercibus volumus esse fideles, videlicet ut scrophas pro porcis vel carnes morticinas aut ab uno die in alium reservatas, si hoc emptoribus non praedixsserint, et qualitercumque corruptas vel infectas in damnum et deceptionem emptorum vendere non praesumant».

[35] G. Fasoli, Organizzazione delle città ed economia urbana, in Potere, società e popolo nell’età sveva (1212-1266) (Atti delle VI giornate normanno-sveve, Bari - Castel del Monte - Melfi 17-20 ottobre 1983), a c. di G. Musca, Bari 1985, p. 182.

[36] Licinio, L’artigiano cit, p. 182.

[37] Id., I luoghi della produzione artigianale, in Centri di produzione della cultura nel Mezzogiorno normanno-svevo (Atti delle XII giornate normanno-sveve, Bari, 17-20 ottobre 1995), a c. di G. Musca, Bari 1997, spec. p. 343.

[38] R.A. XIX (1277-1278), n. 403, p. 231. Per la tassazione delle macellerie cfr. R.A. II (1265-1281), n. 309, p. 86; R.A. V (1266-1272), n. 16, p. 103 e n. 213, p. 148, R.A. VII (1269-1270), n. 71, p. 196; R.A. XXVII (1283-1285), n. 39, p. 265.

[39] H. Schafer-Schuchardt, Trappeti in Terra di Bari in età sveva e protoangioina, in Cultura e società in Puglia in età sveva e angioina cit., pp. 187-193.

[40] Regola sanitaria salernitana cit., p. 24, n. 14, «De aere».

[41] R.A. XIV (1275-1277), n. 192, pp. 38-39: «Item pred. civitate banniri faciant quod nullius in plateis civitatis funum proiciant vel sordas alias, que aer corrumpere possint, sub pena super totius in Regni constitutionibus comprehensa».

[42] R.A. XI (1273-1277), n. 259, p. 143.

[43] R.A. XI (1273-1276), n. 166, p. 166.

[44] R.A. XII (1273-1276), n. 409, p. 107.

[45] Idem, n. 317, p. 250.

[46] R.A. XIV (1275-1277), n. 93, p. 16.

[47] Nicolai  de  Jamsilla, De rebus gestis Frederici II imperatoris eiusque filiorum Conradi et Manfredi Apuliae et Siciliae regnum (1210-1258), in Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi ed inediti, ordinati per serie e pubblicati, Napoli 1868, vol. II, p. 192.

[48] Licinio, L’artigiano cit., p. 181.

[49] Trasselli, Aspetti cit., p. 609.

[50] C. De seta, Napoli [Le città nella storia d’Italia], Bari 1981, p. 50.

[51] R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze 1922, vol. II, pp. 394-404.

[52] A. Filangieri, Territorio cit., pp. 200-203.

[53] R. Ciasca, Storia delle bonifiche del Regno di Napoli, Bari 1928, pp. 6-10.

[54] Idem, pp. 33-36.

   

      

©1998-2007 Mariangela Binetti.

   


torna su

Pre-testi: Indice

Home

avanti