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di VITO BIANCHI

  

Federico II, al-inbiratur, erede del regno normanno per ramo materno, aveva trascorso la fanciullezza alla corte di Palermo. Arabi erano stati i suoi precettori. Araba la lingua che egli aveva orecchiato nelle stanze delle cancellerie. Araba la matrice delle favole ascoltate: col Kitab Kalila wa Dimna s’era sgranato agli occhi del principino tutto un fantastico mondo di cose mirabili e animali parlanti, racchiuso in un testo che di secolo in secolo influenzerà Rabbi Joel, Giovanni da Capua, Anton Francesco Doni e Agnolo Firenzuola, sino a La Fontaine.

Per le sale del Palazzo Reale, il piccolo re s’era poi edotto ai Conforti politici che Ibn Zafer, arabo di Sicilia, aveva composto nel XII secolo. E per i cortili e i giardini palermitani il fanciullo era cresciuto nel vivace cosmopolitismo post-normanno, habitat più stimolante di un castello sperduto nelle foreste di Svevia o Alsazia.

Quell’eclettismo culturale assorbito nell’infanzia sarà un bagaglio che lo stupor mundi porterà sempre con sé, e che lo renderà sensibile non tanto all’Islam-religione, quanto piuttosto all’Islam-pensiero, al fascino di un patrimonio che per spirito di sperimentazione e metodo d’indagine sopravanzava di gran lunga l’Europa cristiana.

Nella Magna Curia di Federico confluirono perciò gli intellettuali cultori di scienza e tecnica araba, che erano in grado di trasmettere il portato degli studi più aggiornati di alchimia e medicina, filosofia e matematica, astrologia e astronomia. A Giovanni e Mosè da Palermo si unì Teodoro d’Antiochia, farmacologo e astrologo, che per l’imperatore svevo tradusse un testo arabo del falconiere Maomin, prodromo al De arte venandi cum avibus.

E nell’ideale continuazione dell’opera di Gerardo da Cremona, il britannico Michele Scoto, formatosi alla scuola di Toledo, volse dall’arabo scritti aristotelici quali l’Historia animalium, integrata dall’Abbreviatio Avicennae de animalibus, facendo della Sicilia un luogo d’elezione per lo studio del sapere antico e per le ricerche alchemiche e fisiognomiche.

Leonardo Fibonacci divulgò a sua volta il sistema delle cifre numeriche indo-arabe, e sviluppò metodi algebrici, problemi indeterminati e analisi pubblicate nel Liber abaci, nel Flos e nel Liber quadratorum. Lo spunto per la stesura di simili trattati era offerto talvolta dai tornei fra matematici che, a colpi di equazioni, Federico amava organizzare presso di sé. E se l’agone assumeva una dimensione internazionale, finiva per coinvolgere anche gli epicentri dell’universo islamico: nel Kitab al-masa’il as-siqilliyya, il Libro dei quesiti siciliani, cinque ponderosi enigmi sapienziali vennero in effetti inviati in Africa, Egitto, Siria, Asia Minore e Yemen. La risoluzione pervenne dal califfo almohade ‘Abd al-Wahid ar-Rashid (1232-1242) tramite Ibn Sab’in, un mistico sufi andaluso di Murcia, che non risparmiò all’Hohenstaufen toni ironici per i vizi di forma nella presentazione dei quesiti.

La prassi dei quiz mondiali era comunque indice dei pacifici contatti intercorrenti fra l’imperatore e i sultanati mediterranei: e in virtù delle relazioni intrattenute col sultano ayyubide al-Malik al-Kamil, nella "crociata diplomatica" del 1229 Federico poté negoziare una tregua decennale, che gli permise di cingere senza combattere la corona di Gerusalemme, restituendo alla cristianità Betlemme e Nazareth. Non si sbaglia troppo nel pensare che l’esperienza in Terrasanta rientrava nella curiosità intellettuale di un uomo desideroso non solo di esibire lo status di imperatore-crociato (ormai imprescindibile nella politica occidentale), ma anche di visionare l’Haram al-Sharif e ascoltare, come riporta la coeva aneddotica araba, l’appello alla preghiera lanciato nella notte dal muezzin.

Filo-islamismo? Non proprio, o almeno non del tutto.

Quando infatti si trattò di eliminare gli islamici che compromettevano la stabilità del suo regno, Federico II non andò per il sottile: ad Agrigento, Entella, Jato, Gallo e in Val di Mazara sussistevano residue roccaforti musulmane, recalcitranti all’autorità imperiale. Ibn Fakhir, Magded e Ibn Abbad, detto il Mirabetto, ne guidarono le ribellioni, foraggiati sovente dal Maghreb. La repressione che ne risultò fu atroce: dal 1222 al 1233, lo Svevo condusse contro i Saraceni di Sicilia un’operazione di polizia che si risolse in un bagno di sangue, con l’evacuazione di donne e bambini, e la distruzione di moltissimi paesi. I capi ribelli e i loro figli furono giustiziati istantaneamente oppure "mazzerati", gettati in mare dentro a dei sacchi. I sopravvissuti vennero deportati in Puglia e insediati nei casali di Capitanata a Stornara, Girofalco o Castelluccio dei Sauri. E fu soprattutto a Lucera che fiorì una rilevante comunità musulmana: sull’acropoli dell’antica città dauna e romana, Federico ordinò di erigere una fortezza, affidandola a una guarnigione saracena. Dalla colonia lucerina l’Hohenstaufen trasse servi per il proprio entourage, e ben cinque-seimila guerrieri, in gran parte arcieri e cavalieri.

Erano lucerine pure le guardie del corpo che accompagnavano l’imperatore in ogni spostamento, nei castelli e nei loca solaciorum creati nel foggiano e in Basilicata, sul filo della memoria siculo-normanna: e per imitazione, anche i signori d’Italia, soprattutto i ghibellini, bardarono "alla moresca" i loro eserciti.

  

  

©2003 Vito Bianchi; il brano è tratto da Vito Bianchi, L’Islam in Italia, MedioevoDossier, De Agostini-Rizzoli, Milano 2002.

   


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