Sei in: Storiamedievale ® Pre-Testi

di VITO BIANCHI

La Sicilia nel Libro del re Ruggiero di al-Idrisi (XII secolo)

 

Nel cuore del Medioevo, il cuore del Mediterraneo era un’isola populo dotata trilingui. La Sicilia, le sue contrade, le sue città, erano intrise di accenti arabi, di intonazioni greche, di pronunce latine stratificate sulla bocca e fra i denti delle genti che vivevano al riparo di una cinta urbana, di un castello o anche di una grotta. L’alternarsi di dominazioni animate da Bisanzio, sopraggiunte con l’Islam o calate dall’Europa, aveva in effetti prodotto una realtà etnico-sociale tripartita dalle lingue e dalle religioni: all’ingerenza bizantina s’era sovrapposta dall’827 la presenza islamica delle dinastie aghlabita (prima) e kalbita (poi), mentre dal 1061 le schiere normanne dei due fratelli Altavilla, Ruggero il Gran Conte e Roberto il Guiscardo, si erano incuneate fra le briciole del vecchio emirato palermitano, ormai sparpagliato in una miriade di effimeri micro-regni cittadini. E nella scia dei Normanni erano scesi dalla Marca Aleramica di Savona, Asti e Coni anche i “Lombardi”, e cioè i conterranei di Adelaide, la moglie del Gran Conte, che beneficiarono di vasti territori.

  

ARCHITETTURA DI SOTTRAZIONE

Gli incontri, gli scontri e comunque il confronto di popoli e civiltà dalle radici tanto diverse non potevano che riverberarsi sui piccoli grandi gesti quotidiani, sulla vita di tutti i giorni, a Palermo, ad Agrigento, a Messina come in ciascuno dei tanti casali cresciuti, soprattutto fra il IX e l’XI secolo, a punteggiare le campagne sicule. Che erano campagne pregne di frutti e risorse, rigogliose di sole e natura, e che oltretutto apparivano vivificate dall’intelligente adozione delle raffinate tecniche agricole introdotte dagli Arabi. Lavoro, sudore e preghiere scandivano i ritmi familiari e i cicli stagionali, in agglomerati d’anime che componevano insediamenti sub-divo e villaggi rupestri. Non c’era solo un’architettura “di addizione”, dunque, ma pure un’architettura “di sottrazione”, che ritagliava nella roccia gli spazi vitali, case, chiese, opifici o fortificazioni che fossero. E generava delle moschee, rupestri anch’esse, anch’esse scavate e consacrate nei fianchi della Gran Madre Terra: nulla di più facile, a ben guardare, per una regione islamizzata a fondo, per due secoli e più, dove un abitato sotterraneo, una “criptopoli”, non era meno degno di un villaggio costruito sotto il cielo. Nell’uno e nell’altro caso, per le comunità arabe, grecofone o latine dovevano esistere necessariamente residenze, laboratori e luoghi sacri che articolassero la società e ne regolassero i rapporti. E ad essere addentate dal piccone si prestavano bene sia le “cave” naturali, profonde ferite inferte al suolo dal carsismo del massiccio ibleo, sia le alte creste di tenera arenaria conchiglifera del comprensorio dei Nebrodi, evocatrici di uno spettacolare paesaggio fatato.

 

COL CORANO FRA LE DITA

Nonostante tuttavia l’aspetto incantato e incantevole, né fate né gnomi abitavano quella pietra. Non erano personaggi fiabeschi a modellare il sottosuolo, a formicolarvi nei budelli. Si trattava, semplicemente, di uomini, di donne, bambini e animali domestici, con le loro vicissitudini, le loro storie e i loro bisogni. Con l’esigenza di sopravvivere e pregare, con la Bibbia o il Corano fra le dita: in Val Demone, a Rometta, in un territorio tradizionalmente di forte persistenza bizantina, che solo dal 965 poté essere acquisito dai Kalbiti al dar al-Islam, si è giunti alla recente individuazione di una sala rettangolare pilastrata, realizzata nell’habitat rupestre di contrada Sotto San Giovanni. Le caratteristiche architettoniche farebbero dell’aula un tipico esempio di moschea in formato ridotto, contraddistinta dalla nicchia centrale del mihrab e dallo sviluppo assiale di navate parallele alla qibla, il lungo muro di fondo orientato verso la Mecca. Nella sua concezione modulare, conseguita risparmiando nel banco tufaceo dodici pilastri (oggi in gran parte distrutti), la struttura potrebbe avere mutuato modelli maghrebini, prima d’essere trasformata in un tempio cristiano, forse dedicato a san Nicola, di cui si ha menzione nel XIV secolo.

Un’analoga moschea sarebbe stata inoltre riconosciuta a Sperlinga, in contrada Balzo della Rossa, presso un dosso roccioso che, nelle vicinanze, presenta peraltro tutti gli ingredienti di una vera e propria fortezza trogloditica, disposta con vari ambienti su più piani. A livello funzionale, né più né meno di un classico donjon in muratura, in un accostamento che ancor più evidente si manifesta nell’entroterra agrigentino, coi fortilizi della Pietra di Comitini o di Monte Guastanella: e in questa, che fu una delle roccaforti musulmane durante le deportazioni iniziate da Federico II nel 1222, risalta la magistrale abilità dei lapicidi (arabi?) nell’impiego del soffitto a doppio spiovente e nella realizzazione di facciate monumentali, all’imbocco di sontuosi saloni ricavati grazie a una notevole perizia di scavo.

 

IPOGEI DI SECONDA MANO

Il “castello rupestre” di Gagliano, che già nelle cronache arabe riferite all’anno 830 ricorre in qualità di rocca cristiana, sfruttava invece due guglie affiancate, e conserva un particolare vano ipogeo di forma circolare polilobata, in cui sarebbe ravvisabile una sorta di “bagno arabo”, da connettere con delle decorazioni architettoniche di gusto islamico. Non c’era insomma nulla che non si potesse creare erodendo e adattando la roccia di Sicilia: silos “a campana” per immagazzinare derrate alimentari, gigantesche fornaci a camere sovrapposte per la cottura della calce, aromatari, industrie vetrarie e botteghe artigiane d’ogni genere. All’occorrenza, si poteva anche comodamente manomettere più antichi ipogei, adibiti dalla cristianità ad antri cultuali: una tholos monumentale diverrà ad esempio il tempietto di S. Angelo Muxaro. Una miniera dismessa sarà il santuario di S. Pellegrino a Caltabellotta, una cella protostorica accoglierà il S. Marco di Sutera, e un ninfeo romano fungerà da cripta nel S. Giovanni a Capo Boeo in Marsala. Ancora, un sepolcro ellenistico-romano si tradurrà nel S. Giuliano ad Assoro, una latomia ingloberà il S. Bartolomeo di Mazara, e una grossa cisterna tardoantica ospiterà il santuario campestre di S. Elena di Leonforte, senza contare la riutilizzazione dei capienti cimiteri paleocristiani di Marsala e Siracusa, complessi ipogeici di seconda e terza mano.

Quasi ovunque, sparse sulle pareti delle chiese rupestri, risalteranno infine le immagini di santi, affrescati talora dalle stesse maestranze che venivano chiamate a lavorare in contemporanea per le basiliche subdivali del XII e del XIII secolo, quando la pittura italiana avvertiva l’influsso della “maniera greca”. Era un’arte bizantineggiante, pregna dei bagliori recepiti durante le crociate, oppure perpetuata dalla tradizione di specifici atelier occidentali. Un po’ più spiccatamente romanico era invece il linguaggio che fa dipendere alcuni tratti dell’edilizia rupestre siciliana dall’universo appulo-lucano, come l’uso della recinzione del presbiterio a doppia arcata divisa da pilastro centrale, nota nel S. Nicola di Buccheri e nella chiesetta di contrada Monte a Patti. Fra ricezioni assunte da Oriente e da Occidente, di musulmano permanevano i toponimi degli agglomerati trogloditici, rintracciabili nei documenti normanni, o serbanti a volte il nome del proprietario islamico: termini quali ddièri (le case) e gulfa/gurfa (camera soprelevata), insieme a gar (grotta), perpetuarono i vocaboli arabi, assimilati dal dialetto locale. Come e più che altrove, insomma, la cultura del rupestre siciliano sapeva davvero esprimere l’intimo senso di una terra populo dotata trilingui.

  

  

©2004 Vito Bianchi; il brano è tratto da «Medioevo» (De Agostini-Rizzoli), n. 70, novembre 2002, pp. 82-87.

  


torna su

Pre-testi: Indice

Home