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di FRANCO CARDINI

Nuovi studi fanno chiarezza sull'intrigo che portò alla distruzione dell'Ordine

 

Qualcuno dei lettori si sarà senza dubbio imbattuto, qualche tempo fa, nel programma «Stargate» su Telemontecarlo e avrà assistito alle mie escandescenze (succede a tutti...) dinanzi alle affermazioni di  un cultore di «tradizione templare» il quale affermava che all'Ordine del Tempio si deve la costruzione della cattedrale di 
Chartres e che l'ultimo Gran Maestro Jacques de Molay, sul rogo allestito per lui a Parigi il 18 marzo del 1314, pregava «la parte femminile di Dio» (sic). Mi dicono che quelle escandescenze hanno provocato una polemica presa di posizione di alcune riviste per amateurs esoteristi: ma, francamente, non ho seguito la cosa. 

D'altro canto, ormai si può dir imponente il fenomeno dell'interesse con cui alcune persone forse anche dotate di buone intenzioni e di buona volontà (ma del tutto prive di metodo, di preparazione e di strumenti di lavoro) seguono la vera o presunta storia dell'Ordine templare e fingono o credono d'indagare sulle presunte conoscenze teologiche, filosofiche e scientifiche di quel sodalizio religioso regolare istituito nella prima metà del XII secolo e sciolto dal pontefice nel 1314. 

«Sarebbe bello poter leggere il dossier del processo al Tempio», mi disse una volta con aria di sfida un neotemplare. «Benissimo - gli risposi -, lo ordini al suo libraio o faccia una bella vacanza a Parigi e lì, alla sede de "Les Belles Lettres" in Boulevard Raspail, se lo compri. Fra l'altro, è un bel libro che costa piuttosto poco». Stupita incredulità del mio interlocutore. 

Quel libro edito a Parigi a cura del Lizerand nel 1923 e poi più volte riedito, invece, Barbara Frale - giovane ricercatrice dell'Università di Venezia - lo conosce al contrario perfettamente. E conosce tante altre cose. Finalmente, con il suo L'ultima battaglia dei Templari (Viella, pagine 338), abbiamo a disposizione anche in lingua italiana un lavoro attendibile sul processo e sulle ultime vicende che condussero, tra 1307 e 1314, allo scioglimento dell'Ordine templare e, nel 1314, al rogo per eresia di alcuni suoi alti dignitari. 

La fine del Tempio fu resa inevitabile da uno straordinario intrico di ragioni politiche ed economiche nelle quali grande parte ebbe anche una dimensione della vita associata ch'era allora al suo nascere, ma che si sarebbe affermata con sempre maggior perentorietà nei secoli a venire: l'opinione pubblica, la sua manipolazione, la 
propaganda. Anche in ciò le vicende del processo ai Templari sono il primo grande esempio di processo politico «moderno»; precedente per molti versi a quelli di Giovanna d'Arco e di Gilles de Rais, e in qualche modo sinistro «modello» - per il metodo con cui vennero montate e manipolate le prove - delle purghe staliniane. Anche questa triste modernità del processo ai Templari dev'essere forse tenuta in considerazione. 

Sotto il profilo della letteratura moderna, un paradossale e del resto noto destino caratterizza l'Ordine templare e il processo che condusse alla sua abilitazione. Molto vasta, da circa due secoli, è la produzione parastorica e pseudostorica che li riguarda. E che è tale da sorprendere, disorientare ma anche affascinare molti appartenenti al vasto pubblico dei fruitori della divulgazione, anche quando si tratta di cultori abbastanza colti e attenti di cose 
storiche. Al confronto, alquanto ristretto è il novero dei ricercatori seri in tali ambiti: tra i più giovani e attendibili a livello europeo, il nome di Barbara Frale va ormai inserito in un ristretto elenco che comprende forse due soli giovani studiosi italiani, Simonetta Cerrini e Francesco Tommasi, e un ricercatore non-professionista ma molto attento alla documentazione autentica, Fulvio Bramato. 

Sarebbe stato piuttosto difficile, prima di questo libro, supporre che fosse possibile dir qualcosa di nuovo riguardo al processo del 1307-1312. Barbara Frale ha tuttavia conseguito questo difficile traguardo poggiando su due solide basi: da una parte un attento e puntuale confronto con gli studi più recenti e attendibili, in particolare quelli del Barber, del Demurger e del Partner; dall'altra una rigorosa e sorvegliata scelta metodologica incentrata e sistematica escussione delle fonti primarie e sulla «archiviazione elettronica di tutte le deposizioni rilasciate dai Templari durante l'arco del processo», accompagnata da una classificazione delle informazioni «secondo lo stesso criterio che gli inquirenti di Clemente V usarono nell'inchiesta pontificia» il che ha consentito di rilevare una per una le oscillazioni, le reticenze, le contraddizioni nelle confessioni e nelle ritrattazioni e di far emergere quindi, in negativo, le strategie degli inquirenti. 

In sintesi, tutti i più recenti e attendibili studiosi del Tempio e della sua fine hanno finora concordato sulla sua sostanziale innocenza e sul fatto che l'Ordine cadde vittima di una macchinazione dei funzionari di Filippo IV - deciso a farlo condannare e a impadronirsi dei suoi beni -, mentre Clemente V dovette in ampia misura cedere a un ricatto e si fece comunque complice di una violenza e di una frode. L'attenta indagine della Frale giunge sostanzialmente ad analoghi risultati: ma ha il merito straordinario di articolarli meglio e di consentirci di seguire in modo più convincente le differenti fasi del dramma. Si chiarisce anzitutto che l'Ordine era da tempo oggetto di maldicenze e di sospetti ch'erano qualcosa di più che non malevole voci originate magari dai rovesci militari in Terrasanta e dalla fama di superbia e di avidità che circondava i "milites Templi". 

Si precisa poi che all'interno della stessa compagine templare era in atto dalla fine del XIII secolo un duro scontro che vedeva affrontati fautori di due diversi modi di concepire l'organizzazione di future crociate e i rapporti con l'altro Ordine religioso-militare, quello giovannita, a proposito della ripetutamente proposta tesi di una fusione con esso. Si dimostra che il processo fu eminentemente politico e che l'inquisizione vi giocò un ruolo funzionale alla volontà regia, in contrasto con la posizione di Clemente V. Si argomenta infine che i capi d'accusa contro i 
Templari e i rilievi a proposito delle cerimonie iniziatiche da loro praticate erano senza dubbio manipolati, ma che tuttavia poggiavano sull'effettiva esistenza di pratiche raccolte e ordinate in una sorta di «codice-ombra» con parecchie varianti seguito e praticato, se non sempre, quanto meno sovente. Ma la chiave di lettura che di quelle illecite pratiche - o della formulazione di esse - si fornisce poggia su due elementi esplicativi. Da una parte quello della «prova d'obbedienza», tanto più decisiva quanto più la si proponeva per mezzo di richieste, obbedire alle quali appariva ripugnante; dall'altra quello dello scherzo degli anziani nei confronti dei nuovi adepti. 

Si tratta di elementi che la Frale discute in modo molto convincente, e che errato sarebbe sottovalutare. Il primo di essi è importante sotto il profilo giuridico-comportamentale: da questo punto di vista la prassi templare fondata sull'obbedienza appare continuar quella strada aperta dal francescanesimo che sarà più tardi continuata dalla Compagnia di Gesù e che attraverso varie articolazioni passerà alla pratica militare, alle sette del XVIII-XIX secolo e sfocerà nei partiti politici, specie in quelli protagonisti dei grandi sistemi totalitari del Novecento. 

Il secondo è viceversa rilevante a livello antropologico, lo si riscontra in differenti «società chiuse» e l'autrice ha molte ragioni nell'avvicinarlo ai fenomeni di «nonnismo» ancora in uso negli eserciti del nostro tempo. Chi conosce la familiarità col Sacro propria del mondo medievale sa bene anche delle parodie liturgiche, dell'uso improprio di paramenti e di suppellettili, dell'ostentata empietà di certi atteggiamenti di solito collegati alle solennità religiose. A conoscenza di certe dicerie, forte della consapevolezza che vizi e peccati albergavano comunque nell'Ordine templare (non diversamente, del resto, che in altri Ordini religiosi) e ben sostenuto da una rete d'informatori e di provocatori, re Filippo riuscì a trasformare consuetudini ludiche, di solito mai neppure accompagnate da effettivi fatti di empietà, in prove schiaccianti di eresia dinanzi alle quali il Papa - che 
naturalmente non vi credeva, per quanto non mancasse chi gliele aveva confermate in modo apparentemente spontaneo - non poté che sciogliere l'Ordine: unico espediente, tra l'altro, che lo esimeva dal condannarlo. 

Barbara Frale col suo studio adempie alla condizione primaria cui deve rispondere una ricerca storica per essere considerata positiva: non chiude affatto i problemi; anzi, ne apre di nuovi. L'innocenza del Tempio viene qui ribadita: ma anche proposta in una diversa, meglio articolata prospettiva. Il discorso che dopo Barber, Demurger e Partner poteva considerarsi concluso torna invece ad imporsi alla nostra attenzione alla luce d'una nuova serie d'indizi e d'ipotesi.

    

  

©2006 Franco Cardini e «Avvenire».

    


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