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di VITO BIANCHI

Le fortificazioni di Carcassonne

    

A prestar fede alle Grandes Chroniques de France (la cui prima redazione in francese risalirebbe al 1274), re Filippo II Augusto (1180-1223) era persuaso che i suoi antenati avessero molto perduto per non aver abbastanza speso. Al passaggio fra XII e XIII secolo, in tempi di lotte con la nobiltà feudo-signorile e di guerre coi rivali Inglesi, le spese, per la corte capetingia, dovevano consistere essenzialmente nell’erigere fortificazioni. Torrioni, fortezze: apparati che, insomma, consentissero un controllo pieno del regno, tanto in funzione di difesa dalle invasioni, quanto sul piano amministrativo. A tutela dei propri domini, Filippo Augusto aveva non a caso concepito una serie di prevosture che venivano sorvegliate dai castelli regi. L’amministrazione di questi distretti era demandata alla figura del balivo o siniscalco, che a livello periferico rappresentava l’autorità del monarca nel campo militare, finanziario e giudiziario. Del resto “incastellare”, moltiplicare i castelli a presidio e garanzia di paesi e distretti territoriali era, ormai, per molti sovrani europei, una necessità ineludibile.

Non a caso, Jacques Le Goff ha ribadito come uno degli aspetti fondamentali nella storia europea del Duecento sia da riscontrare nella «irresistibile ascesa delle monarchie e dello stato che esse costituiscono». In Francia, Inghilterra e nella Penisola Iberica, il XIII secolo segna il rafforzamento e l’assestamento del potere monarchico, secondo modalità che, sebbene differenti, presentano tratti comuni: l’espansione territoriale, innanzitutto, e poi l’incremento della potestas pubblica a detrimento di quella privata. Fu infatti allora che le monarchie cercarono di ricondurre sotto l’egida regale le signorie locali, impegnandosi ad ampliare i propri possedimenti col ricorso a guerre intensive. L’instaurazione di una rinnovata autorità monarchica e lo sviluppo della centralizzazione statale richiesero peraltro delle riforme amministrative che, in parte, sconvolsero gli assetti socio-politici preesistenti, provocando talora dei fenomeni di conflittualità fra i ceti eminenti. Per consolidare le conquiste, regolare la burocrazia regnicola e manifestare, anche visivamente, l’affermazione della potenza monarchica, sorsero così delle maglie castellane che finirono per estendersi a diverse province d’Europa.

    

COSTRUZIONI A LA PAGE

In Francia, il dinamismo politico di Filippo Augusto portò a un fiorire di castelli contraddistinti da una coerenza architettonica che ricorreva a schemi innovativi. Oltretutto, il ritorno a un uso più largo della pietra favoriva le sperimentazioni edilizie e l’adozione di modelli costruttivi più moderni. Ne derivò una regolarizzazione nella geometria delle cinte murarie, inframmezzate da torri per lo più circolari. Gli accessi castellani vennero a essere sempre più spesso dotati di rinforzi turriti, e si generalizzò l’utilizzo di saracinesche, piombatoie e saettiere. Soprattutto, ogni buon castello venne dotato di una “torre maestra”, il più delle volte rotonda e imponente. La tour maitresse diverrà una sorta di moda: persino edifici più vecchi, come i fortilizi di Gisors e Chinon, si ritroveranno rinforzati dall’aggiunta di un possente torrione. Progressivamente, le architetture elaborate sotto Filippo Augusto verranno perfezionate coi successori, i quali porteranno a compimento il processo di affermazione della dinastia capetingia, e ne rinsalderanno le conquiste: le fortificazioni di Carcassonne, Aigues Mortes, Puylaurens si distinguono per l’accentuazione del bugnato, Angers ha torrioni monumentali, mentre a Provins e Chateau-Tierry si affinano i meccanismi difensivi delle porte e la predisposizione delle feritoie verticali. I congegni di riparo e di difesa piombante si fanno in breve più sofisticati, e l’ingegno degli architetti militari si sbizzarrisce nella creazione di apparecchiature sempre più progredite.

Più d’uno studioso ha affermato che il rinnovamento dell’architettura castellana fosse figlio delle Crociate, e della conoscenza di una più raffinata poliorcetica avvenuta in Terrasanta tramite il confronto con le tradizioni araba e bizantina, che meglio di altre avrebbero serbato e trasmesso al Medioevo i saperi dell’antichità. La rilettura dei trattati militari romani (come il De re militari di Vegezio) e la dimestichezza con tecnologie di provenienza orientale avrebbero fatto il resto. Ma un peso specifico dovettero avere anche le molteplici sperimentazioni effettuate dai Normanni nel conquistare il Mezzogiorni italico, insieme alle esperienze maturate dalle Repubbliche Marinare in vari punti del Mediterraneo e alle vicende belliche che, nell’Italia del XII secolo, avevano contrapposto gli eserciti imperiali ai Comuni, in una sequela di assedi, battaglie e spaventose metodiche ossidionali, di fronte alle quali era necessario escogitare sistemi difensivi sempre più efficaci.

   

INTERESSI PRIVATI

Dall’effervescenza architettonica del periodo non furono esenti i re plantageneti, che nel contendere ai Capetingi porzioni di suolo francese rialzarono splendidi castelli a Couldray-Salbart, a Villandraut, a Roquetaillade e a Budos. Oltremanica, la pianificazione di un’impressionante rete di fortezze contrassegnò il regno di Edoardo I (1272-1307): deciso ad assoggettare il Galles, il figlio di Enrico III chiamò alla propria corte uno fra i più celebrati architetti dell’epoca, quel mastro James di St. George che aveva già dato prova della sua eccellenza al servizio dei conti di Savoia (progettando fra l’altro il castello di St. Georges d’Esperanche, vicino Lione). La conquista delle contrade gallesi venne scandita dal più grande programma di incastellamento che un re britannico abbia mai messo a punto. La moltitudine di castelli edoardiani scaturiva anche dalle rinnovate entrate fiscali, e dunque dalla disponibilità economica di cui il regno d’Inghilterra poté godere dal 1265: in quell’anno, infatti, la battaglia di Eversham aveva risolto a favore della Corona le discordie intestine che, sin dall’inizio del Duecento, coinvolgevano monarchia, baroni dell’alta aristocrazia, piccola nobiltà rurale (gentry) e borghesia mercantile di città del calibro di Londra.

Il castello inglese di Dover

In una società tanto variegata, le aspirazioni alla supremazia si traducevano sovente nell’erezione di manieri, deputati solitamente a salvaguardare i singoli interessi dei signori. In linea di massima i castelli, regi o signorili che fossero, occupavano posizioni strategiche se a prevalere era il loro ruolo militare: per cui la confluenza o gli estuari dei fiumi rappresentavano sovente gli snodi più idonei da munire. La paura di un’offensiva da parte della Francia spinse inoltre a fortificare le sponde meridionali dell’Inghilterra: Dover, con le sue recinzioni realizzate attorno a un ridotto, si mostrava inespugnabile agli occhi dei naviganti. E se nel XIV secolo Queenborough fu l’unico castello reale di nuova fondazione, bisogna pure ricordare che le somme necessarie alla ricostruzione di Windsor dovettero rivelarsi ben più cospicue per Edoardo III (1327-1377).

    

CROCIATE D’EUROPA

Anche nella Penisola Iberica le esigenze dettate dal conflitto fra regni cristiani e potentati islamici imposero un aggiornamento continuo degli organismi di fortificazione. Le rocche di fattura musulmana avevano raggiunto già a ridosso del Mille dimensioni e qualità tecniche sorprendenti. Fra XII e XIII secolo, esse sfruttavano ormai alla perfezione le caratteristiche morfologiche del terreno, e spesso prevedevano, a brevi intervalli, delle torri di fiancheggiamento rettangolari che ritmavano la cinta muraria. Non di rado, nell’andirivieni di conquiste e riconquiste, accadeva che alcuni castelli islamici venissero espugnati da eserciti nemici (il nucleo di Zorita de los Canes fu effettivamente ricostruito alla fine del XII secolo sulle rovine di un fortilizio musulmano): e allora, l’avvicendamento “cristiano” si esprimeva nell’aggiunta di una torre del homenaje, la “torre dell’omaggio”, corrispettivo di ciò che era la torre maestra in Francia e Inghilterra.

Di un simile fenomeno è testimone il castello di Banos, tolto ai Mori nel 1212. In quello stesso anno, nella battaglia di Las Navas de Tolosa, Alfonso VIII di Castiglia, assieme ai re di Navarra e Aragona, inflisse una sconfitta decisiva agli Almohadi (la dinastia islamica che dall’Africa settentrionale aveva esteso la sua egemonia al di là dello Stretto di Gibilterra). L’asprezza dello scontro nelle regioni iberiche s’era d’altronde acuita all’indomani della caduta di Gerusalemme nelle mani del Saladino, nel 1187: l’ipotesi di poter recuperare in Europa quanto era stato perso in Palestina si connotò pertanto di un’aura crociata, richiamando a combattere contro gli “infedeli” spagnoli schiere di sacerdoti e cavalieri sopraggiungenti dal resto del continente. Naturalmente, costoro erano mossi non solo dal fervore religioso, ma anche dalla certezza di potersi arricchire incamerando prede favolose e terre da colonizzare.

Il castello spagnolo di Coca

LO STILE MUDEJAR

La Meseta, l’altopiano che occupa il centro della Penisola Iberica, era dominato da una superficie uniforme che, a tratti, si sollevava a offrire appoggi ideali per castelli e città. Per lunghi anni, il cuore della Spagna dovette costituire uno sconfinato teatro di guerra, un enorme spazio frontaliero da attraversare, in un senso e nell’altro, per scorrerie e rapine. Contingenti musulmani non smettevano di compiere sortite verso nord. A loro volta, manipoli cristiani si dedicavano alla pratica delle cabalgadas, organizzate per razziare bestiame, per procacciarsi schiavi e strappare ricchi bottini alle rigogliose contrade andaluse. Lo stesso monarca castigliano pianificava spedizioni che nelle fertili campagne dell’Andalusia si prefiggevano di rubare, uccidere, distruggere. In tal caso, l’esercito regio annoverava la mesnada (soldati vincolati al re dal vassallaggio), truppe di nobili, vescovi, Ordini militari e talora le milizie di qualche emiro alleato. In questo ping-pong di reciproci saccheggi, i castelli erano ovviamente strumenti imprescindibili, poiché assicuravano le difese, consentivano il presidio dei territori e servivano da trampolino di lancio per le incursioni.

Di pari passo con l’avanzata cristiana, diminuivano le aree che i musulmani avevano messo a coltura coi loro superbi impianti d’irrigazione, e progrediva la pastorizia, più elementare e foriera di profitti immediati. Nel faccia a faccia fra due mondi, la simbiosi non tardò a produrre in architettura uno stile misto, il mudejar, un po’ gotico e un po’ islamico, esemplificato nel castello di Coca (XII-XIII secolo) e reiterato nell’Alcàzar di Segovia, che di soprannome fa gran buque, “grossa nave”, per l’aspetto conferitogli dall’osmosi dei dettami arabo-ispanici e franco-gotici. Ad ogni buon conto, la Reconquista giovò al rafforzamento del regno di Castiglia, che progressivamente occupò nel XIII secolo tutta la parte centrale della Spagna. Era, questo, un territorio caratterizzato dal latifondo, dalle grandi proprietà signorili, laiche ed ecclesiastiche, che avevano approfittato dello scarso popolamento delle aree rurali per radicarvi un proprio personale potere. In più d’una circostanza, il ceto nobiliare entrò perciò in urto con la propensione monarchica a conferire al regno un ordinamento amministrativo e giuridico omogeneo: forme d’equilibrio e vicendevole controllo furono conseguite a malapena con la convocazione di cortes, i “parlamenti” atti a dirimere le questioni politiche.

   

STATUS SYMBOL

Un po’ diversa era la situazione in Germania. Qui, sebbene a contendersi il trono fossero rimaste prevalentemente le dinastie di Svevia (gli Hohenstaufen) e di Baviera (i Welfen), nei fatti l’alta nobiltà godeva di ampie prerogative, che consentivano larghi margini di autonomia. Lussuosi castelli furono perciò l’emblema dell’imperatore germanico non meno che dei principi locali, impegnati a rivaleggiare col sovrano nell’auto-rappresentazione e nell’auto-celebrazione. Ciascun castello era l’espressione di un potere finanziario e politico, l’immagine di aspirazioni più o meno palesi, la manifestazione di una caratura sociale ed economica. Nemmeno la piccola nobiltà era disposta a rinunciare ai propri privilegi: e l’infittirsi di castelli, specie in Alsazia, palesò concretamente l’ascesa di una compagine socio-politica tenace e ostinata. Allorché il potere centrale esercitava scarsa influenza, era persino possibile che i castelli signorili sorgessero a fianco di preesistenti villaggi: e non per favorire un processo insediativo, bensì per spadroneggiare sulle comunità (come attesterebbe la serie di fortezze di Windstein) con gli introiti prelevati da cascine, villaggi e vie di comunicazione. Così, quando nel 1220 preparò la partenza per il Regno di Sicilia, Federico II non poté che stringere coi principi tedeschi un accordo che, in cambio della fedeltà, concedeva all’aristocrazia l’esercizio delle tipiche attribuzioni regie: battere moneta, esigere dazi e innalzare fortificazioni.

   

NEL NOME DELL’ARMONIA

Diametralmente opposto fu l’atteggiamento dell’imperatore svevo nell’Italia meridionale, in cui allignavano i mai sopiti impulsi indipendentisti di baroni, cittadine e gruppi saraceni arroccati sui rilievi siculi. Per riaffermare i diritti imperiali, Federico II riorganizzò su basi più salde il modello governativo tramandatogli dai Normanni, puntando su una burocrazia onnipresente e scrupolosa, su un regime fiscale cronometrico e su un’economia di stampo monopolistico, funzionale agli interessi della Corona. I castelli, ovviamente, furono lo strumento per realizzare il suo disegno. Castelli da costruire, da modificare, o anche da abbattere: fin dalle Assise di Capua del 1220 lo Svevo aveva annesso al demanio regio tutte le fortificazioni che potevano assicurargli una migliore gestione del regno, e aveva di converso stabilito di smantellare le opere di difesa, urbane e no, erette nell’anarchia seguita alla morte di re Guglielmo I, nel 1189.

La stabilità monarchica passava dal detenere più castelli, e dal toglierne agli altri: un concetto insistentemente sottolineato nelle Constitutiones Melfitanae del 1231, specie con le disposizioni De novis aedificis e De prohibita in terra demanii constructione castrorum. A livello architettonico, parecchi fra i castelli federiciani esibirono le più recenti acquisizioni in fatto di armonie geometriche: partecipe delle dinamiche culturali del Mediterraneo, il Suditalia condivideva l’interesse per la scienza araba dei numeri, rielaborata nelle teorie di Leonardo Fibonacci e applicata alle architetture castellane. Fu così che Castel del Monte, Castel Ursino a Catania, il castello di Augusta o quello di Prato si risolsero nelle perfette simmetrie di spazi dipanati attorno a una corte centrale. A Lucera, si elevò su tre livelli un castello che, dall’impianto quadrato del pianterreno, si mutava in ottagono al piano superiore. Saranno gli Angioini, padroni del Meridione dal 1266-1268, a inglobare la reggia lucerina in un circuito murario di circa 900 metri, realizzato in laterizi: cosa piuttosto desueta, in un Mezzogiorno in cui a imperare era stata (e sarà) quasi sempre la pietra.

Napoli, Castel Nuovo

SULLE CENERI DEI COMUNI

Agli Angiò è legata la figura di Pierre d’Angicourt e di altri architetti (il lorenese Jean de Toul, il piccardo Pierre de Chaule, i vari Baucelin de Linais, Charles de Chapot o Stefano d’Orléans) artefici dei castelli che la casata angioina dislocherà sulle coste (a supporto dei propositi d’espansione nei Balcani) e nell’entroterra (per fronteggiare le ingerenze aragonesi all’indomani dei Vespri di Sicilia). In alcuni casi si ristrutturò, come a Barletta e Manfredonia; in altri si edificò dalle fondamenta, come a Mola e Villanova. Senza dire della pratica di confiscare, smembrare le vecchie fortezze regie e infeudare a favore dei barones ultramontani, ai quali venne concesso di costruirsi nuove fortificazioni o di servirsi dei castelli demaniali. Appannaggio dei re angioini era a Napoli Castel Nuovo (attualmente conservato nelle fattezze conferitegli dall’architetto catalano Guillén Sagrera fra il 1443 e il 1458, su invito di Alfonso d’Aragona), una reggia che fino ai Borboni sarà la residenza dei regnanti del Sud. Nel Nord della Penisola Italiana, il XIII secolo vide invece la crisi delle istituzioni comunali e l’affermarsi delle signorie cittadine.

Conquistato il comando, i signori issatisi sulle ceneri dei Comuni ebbero l’esigenza di corroborare la propria autorità. Gli emblemi del governo non furono più gli stessi, e al palatium communis, ubicato nel cuore della città, si giustappose la sagoma di un castello cittadino, a garanzia dell’autocrazia e dell’incolumità del despota. L’automazione del sistema di dominio personale generò una sfilza di signorie e relativi manieri, che oltre a insistere sui contadi vennero il più delle volte addossati alle cinte urbane. Borghi e città andavano tutti aggiogati con la sferza di un castello, nel solco di un programma pressoché scientifico. Gradualmente, l’annessione dei centri minori alle entità più potenti condusse alla formazione di Stati regionali, il cui consolidamento si accompagnò alla installazione di scacchieri fortificati per la difesa e il controllo di territori sempre più vasti. Anche stavolta, il predominio si estrinsecò non solo nell’elevazione di fortezze, ma anche nel “decastellamento” di molte aree da sottrarre a piccoli signori e all’altrui suscettività espansionistica.

   

PER LA GLORIA DEL PAPA

Nello stesso Stato Pontificio le fortezze urbane furono concepite non solo per la protezione da attacchi esterni, ma anche per il controllo delle città contro le spinte autonomistiche delle autorità comunali e contro i tentativi di monopolizzare il potere da parte di qualche signorotto locale. Preoccupata di rinsaldare le prerogative papali di fronte alle tendenze centrifughe e particolaristiche, fra XIII e XIV secolo la Chiesa provvide al restauro o alla costruzione di castelli. La graduale “riconquista” territoriale ebbe il suo esecutore principe nel cardinale Egidio Albornoz. Alla metà del Trecento, da legato papale e vicario generale, il “creatore della monarchia pontificia” introdusse nel territori della Santa Sede le conoscenze castellari apprese alla corte dei re di Castiglia. Con l’ausilio di esperti quali Matteo di Giovannello (detto il Gattapone) vennero perciò eretti edifici squadrati e di nitida verticalità. I castelli erano deputati a presidiare le province e, insieme, a fungere da possibili residenze per il papa (con la sua corte itinerante, al pari di qualsiasi altro dinasta), per i suoi rappresentanti e i suoi amministratori. Accanto alle fortezze delle località secondarie, furono soprattutto città come Bologna, Ancona o Perugia, in quanto capoluoghi regionali, a ospitare solenni rocche papali. A Roma, infine, il patrimonio di San Pietro poté definitivamente valersi delle possenti fortificazioni di Castel Sant’Angelo: da essere di proprietà degli Orsini, l’antico mausoleo dell’imperatore Adriano passò alla Camera apostolica nel 1367. Fra Tevere e Vaticano, il grande cilindro turriforme conferiva sicurezza alla dirigenza ecclesiastica, incuteva timore nella popolazione e comunicava alla Città Eterna tutta la potenza del papa.

  

    

©2007 Vito Bianchi

  


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