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di ANGELO BASTA

 

«Mi hanno isolata,
per meglio sconfiggermi,
isolata dandomi in sposa […].
Ma siccome mi amano
io li tengo in prigione […].
Alla fine  è la prigioniera a decidere […]”

Kateb Yacine, Nedjma

      

L’informazione sul mondo islamico oggi è in gran parte intrisa di stereotipi e manipolazioni che tendono a darci immagini di arretratezza, inferiorità, di una cultura che andrebbe osservata con occhi più critici.

È più facile, infatti, mostrare musulmani che si flagellano in commemorazione di un martire, o la conseguenza di un attentato, piuttosto che qualche altra cosa.

È  più facile vedere foto o filmati di donne col velo anziché immagini di donne-regista, di donne-ingegnere, di donne-ministro.

Ma poi, che senso avrebbe mostrare immagini di donne musulmane senza velo? Una scrittrice egiziana, una ministra siriana, un’antropologa algerina potrebbero essere benissimo una greca, spagnola o siciliana, mentre una donna velata no.

Nel caso si volesse mostrare un valore positivo dell’Islàm, come la solidarietà al posto del fanatismo, come si potrebbe mandare in onda un musulmano che dà l’elemosina o una banca che non pretende interessi sui prestiti…

È  difficile, tuttavia, per il “lettore o telespettatore medio”, rendersi conto che non esiste un Islàm indifferenziato, ma tutta una gamma di interpretazioni della concezione islamica del mondo che vanno dal laico al religioso, dal tollerante al bigotto.

La causa è data certamente dalla mancanza di strumenti critici, così risulta estremamente difficile conoscere in maniera equilibrata un mondo, che tuttavia è a noi più vicino degli Stati Uniti.

Uno strumento critico, o meglio un contributo “umano” verso una conoscenza più critica nonché veritiera sulla cultura musulmana, lo ha avuto la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di i Foggia.

Infatti, durante l’anno accademico 2004-2005 la Facoltà ha accolto cinque studentesse kurde grazie ad un progetto internazionale che ha visto protagoniste l’Università foggiana e l’Unesco.

Così, durante il corso di Storia medievale si è “approfittato” della loro presenza per fare con le  dirette protagoniste delle interessanti considerazioni sulla condizione della donna nell’Islàm.

Inutile dire che si è soliti pensare che l’Islàm opprime la donna, ma sarebbe indicativo conoscere quanti sanno che in un paese di cultura musulmana le donne sono arrivate al diritto al voto prima che in Italia. Se da un lato (quello occidentale) vi è ormai la consapevolezza che la legge islamica assegna alla donna diritti che a noi appaiono dimezzati rispetto a quelli dell’uomo, dall’altro (quello orientale) troviamo la convinzione che l’avvento dell’Islàm ha portato con sé un miglioramento del suo status giuridico, con una regolamentazione della poligamia e il divieto di praticare quell’infanticidio femminile che era usanza diffusa nell’Arabia pre-islamica.

Tuttavia dalla ricerca svolta è emerso che anche tra i ricercatori orientali vi sono posizioni diverse in merito. Infatti alcuni sostengono che prima dell’Islàm la donna araba vivesse in una condizione migliore di quella delle donne appartenenti ad altre popolazioni, altri invece ritengono che in quel periodo alla donna araba non fosse riconosciuto alcun valore.

La discordanza tra le conclusioni è determinata dalle diverse tribù prese in considerazione, dalle regioni in cui tali tribù vivevano e dalla ricchezza o dalla povertà delle tribù stesse.

I ricercatori che hanno sostenuto la grande considerazione che la donna araba aveva nel periodo pre-islamico, hanno ricavato la loro teoria dallo studio di alcuni antichi poemi arabi, i quali lodavano ed erano orgogliosi delle donne e dedicavano loro parole ispirate e dolci poesie d’amore.

Inoltre dallo studio degli eventi storici di alcune tribù risulta che l’uomo arabo era molto legato alla sua donna e ne considerava la dignità e l’onore come la sua stessa dignità e il suo stesso onore. Infatti gli storici riportano notizie riguardanti guerre combattute per difender l’onore delle donne, e tra queste, la più importante è la battaglia di Quara combattuta da tre tribù arabe contro un re persiano al quale il capo di una tribù, al Noeman Ben al Monder, aveva rifiutato di dare in sposa sua figlia.

Altri storici riportano poi che alle donne arabe erano richiesti consigli anche quando bisognava prendere importanti decisioni. Le donne partecipavano alle guerre prendendosi cura dei feriti, incoraggiavano i loro uomini con poesie e li esortavano anche a vendicarsi delle offese o delle morti subite: negli annali si legge di una donna, Hind Bent Otba, che durante un combattimento raccolse la bandiera caduta a un soldato ucciso e la portò chiamando a raccolta le altre donne per sostenere e incoraggiare gli uomini a continuare e vincere la battaglia.

Spesso le tribù arabe avevano nomi di donne, considerate madri della stessa tribù, come ad esempio Nutria, Bigila, Muawia e Tahia.

Va aggiunto che nella società pre-islamica vi erano divinità femminili. Tra le più venerate dagli arabi figuravano tre dèe, al-Làt, al-Uzzà e Manàt. Al Làt doveva corrispondere, tra gli arabi ellenizzati, all’immagine di Atena o Minerva; viene citata da Erodoto come Aliat. Al-‘Uzzà, “la molto possente”: assomigliava, come personaggio femminile di eccezionale bellezza, all’immagine di Venere. Manàt era, secondo il parere della maggior parte degli studiosi, la dea del destino e della morte, equivalente alla babilonese Mamnatu.

Le donne inoltre potevano respingere o licenziare il proprio marito con un semplice gesto, esattamente come faranno più tardi nell’Islàm gli uomini con la formula mutàllaqa, “sei ripudiata”. Bastava infatti che la donna girasse la tenda comune in modo che l’ingresso venisse a trovarsi nella parte posteriore di essa: in tal modo si comunicava al marito che era ripudiato e non doveva più metter piede nella tenda.

Tuttavia, come detto in precedenza, vi sono ricercatori i quali sostengono che alla donna non era attribuito alcun valore, basando le loro teorie dallo studio di poesie ed eventi storici di alcune tribù arabe evidentemente diverse.

Presso queste tribù arabe la donna veniva considerata una persona debole che aveva bisogno dell’uomo per vivere. Questa dipendenza, questa condizione di inferiorità, era evidente alla morte dell’uomo. Quando infatti un uomo moriva, le mogli e le figlie non avevano diritto all’eredità ma addirittura le sue mogli diventavano eredità dei suoi figli, i quali potevano decidere se tenerle (escluso le madri) come loro serve, se darle in spose ad altri uomini, o sposarle essi stessi.

Insomma le donne erano considerate merce.

Ancora, in alcune tribù, quando nascevano delle bambine i padri le seppellivano vive, sia perché erano poveri e servivano uomini per le guerre, sia per evitare che, crescendo, venissero disonorate (qualora fossero state fatte prigioniere da una tribù nemica che aveva vinto una battaglia) e a causa di questo il disonore cadesse su tutta la tribù.

Con l’arrivo dell’Islàm la società araba cambia completamente. La distruzione delle divinità pagane e la sottomissione all’unico Dio imposta dall’Islàm segna il punto di congiunzione tra la società pre-islamica della giahilìa e l’epoca dell’Islàm, che cominciò ufficialmente con l’emigrazione del Profeta da Mecca e Medina, la higra (622), immediatamente successiva alla caduta delle dèe.

Per lo scrittore tunisino Yussuf Saddik la distruzione delle divinità femminili fu un assassinio simbolico della donna in quanto incarnazione della superiorità femminile, la fine del suo dominio. Tuttavia l’Islàm mantiene alcune tradizioni della società pre-islamica e ne condanna altre. Maometto in un suo discorso affermò: «Sono venuto a completare la moralità», testimoniando così la convinzione che anche nella società pre-islamica ci fossero elementi positivi e moralmente corretti da conservare.

Così, alcune tradizioni condannate dell’Islam sono quelle di seppellire le bambine appena nate, l’esclusione della donna dal diritto di ricevere qualsiasi cosa in eredità, l'esaltazione la bellezza fisica della donna nelle poesie.

D’altro canto l’Islàm non è contro la donna che lavora fuori casa.

L’Islàm ritiene la donna un elemento importante della società perché anch’essa come l’uomo può contribuire allo sviluppo della società. Inoltre essa ha il compito di curare la propria famiglia, di essere moglie e madre.

L’Islàm è accusato di essere responsabile del sottosviluppo della società, in particolare della donna. Secondo le studentesse kurde ciò non è vero, in quanto l’Islàm chiede a tutti gli uomini e tutte le donne di accrescere le proprie conoscenze sviluppando l’intelligenza e studiando tutto lo scibile umano.

Il concetto della donna schiava e ignorante non appartiene all’Islàm ma ad alcune tradizioni di antiche tribù che purtroppo ancora oggi sono conservate da una parte della società araba.

Le ragazze kurde, sia quelle col velo sia quelle col capo totalmente scoperto, hanno concluso affermando  che l’Islàm non ha negato, ma ha dato valore alla donna.

Tuttavia credo si possa affermare che guardare il mondo islamico con un occhio critico, con atteggiamento  disincantato, significa conoscere un mondo orientale molto simile nelle sue interne articolazioni e diversità al nostro Occidente. Ogni cultura, ogni civiltà ha al proprio interno aspetti complessi, diversi, problematici che sono alla base di ogni fenomeno di vita, di crescita, di sviluppo.

Del resto gettare nell’ombra mille aspetti di un’intera religione, di un’intera comunità, di un’intera cultura, semplicemente diverse, e continuare ad illuminarne invece gli aspetti più bui, presenti per altro in ogni civiltà, significa strumentalizzare l'"altro" per i propri interessi, significa continuare, ora come allora, a bandire nuove crociate.

 

PER APPROFONDIMENTI: Erdmute Heller - Hassouna Mosbahi, Dietro il Velo, Laterza, Roma-Bari 1996 (ediz. orig. Hinter den Schleiern des Islam, Munchen 1993).

  

©2005 Angelo Basta.

    


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