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di Raffaele Licinio

Dal volume ‘Suavis terra, inexpugnabile castrum’. L'Alta Terra di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angioina, a c. di Fulvio Delle Donne [Testis Temporum. Fonti e Studi sul Medioevo dell’Italia Centrale e Meridionale, 3], Nuovi Segnali, Arce (FR) 2007.

Resti del castello di Rocca d'Arce


    

Scriveva Fulvio Delle Donne nella sua Prefazione al volume Ianua Regni: il ruolo di Arce e del castello di Rocca d’Arce nella conquista di Enrico VI di Svevia (2006), richiamando il pensiero di un noto storico dell’arte e studioso di cultura dei primi del Novecento, Aby Warburg, che se è vero che «il buon Dio si nasconde nei particolari, anche il dettaglio, considerato trascurabile se osservato da una prospettiva di maggiore ampiezza, può costituire una significativa tessera, necessaria a ricomporre un più vasto mosaico». Dal particolare al generale, il percorso d’indagine al centro del Convegno svoltosi nel 2005 ad Arce – le cui relazioni sono raccolte nel primo volume della collana “Testis Temporum. Fonti e Studi sul Medioevo dell’Italia Centrale e Meridionale”, diretta dallo stesso Delle Donne, edito appunto nel 2006 – ha saputo consegnarci alcune prime conclusioni capaci di illuminare non semplicemente la storia dei territori di Arce, Rocca d’Arce e Colfelice, ma l’intera Alta Terra di Lavoro e di conseguenza, anche per la importante posizione strategica di quest’ultima, l’intero Regno meridionale.

Ora che appare questo nuovo volume di Atti, che comprende le relazioni presentate al successivo convegno (Suavis terra, inexpugnabile castrum, Colfelice, 22-23 luglio 2006), possiamo misurare con maggiore profondità il percorso compiuto. E ribadire innanzi tutto, come non a caso ha voluto sottolineare Massimo Miglio aprendo la prima giornata di quei lavori, che per ampiezza dei temi analizzati, per sicurezza dell’impianto metodologico, per le fonti di vario tipo utilizzate, parlare in questo caso di ricerche di tipo localistico è senza dubbio riduttivo e fuorviante, quasi che si possa studiare un insieme senza conoscerne le singole componenti: per usare una sua felice espressione, «in questa manifestazione “microcosmo” e “macrocosmo” convivono: l’uno dà senso e dà luce all’altro».

In sostanza, si può a ragione sostenere che l’orizzonte che qui abbiamo di fronte e che appare sotteso alle singole relazioni di questo volume è un vero e proprio sistema, il sistema-Regno, formato da elementi che si intrecciano e si definiscono in termini specifici, originali e dinamici, nel tempo come nello spazio. Ed è appunto il sistema-Regno nei suoi distintivi caratteri culturali – sia nel tempo, la prima metà del secolo XIII e poi la fase del “cambio dinastico”, sia nello spazio, l’Alta Terra di Lavoro – che si può cogliere sullo sfondo nel contributo di Marino Zabbia e in quello di Fulvio Delle Donne, il primo impegnato a far parlare e confrontare le fonti cronachistiche, il secondo capace di dar voce, con il rigore analitico e lo spessore culturale che gli sono propri, alla produzione retorico-epistolare di letterati noti e meno conosciuti. Così come, attraverso il concreto articolarsi di un suo territorio omogeneo e strategicamente rilevante, è il sistema-Regno che si intravvede nelle relazioni di Sabrina Pietrobono, dedicata all’analisi di dati, anche inediti, relativi alla topografia dei luoghi e alla viabilità nell’Aquinate, e di Carlo Ebanista, incentrata sulla storia della torre arcese detta di S. Eleuterio (o di Campolato), di cui è fornita un’analisi stratigrafica che, sulla base delle metodologie proprie dell’archeologia dell’architettura, si occupa per la prima volta dell’intero complesso.

Arce, la torre detta di Sant'Eleuterio

Le conclusioni cui giunge Ebanista, sorrette da una mole considerevole di dati sempre sottoposti ad acribia critica, hanno il merito di far giustizia, finalmente, di stereotipi e luoghi comuni di lunga data, che su quella torre e sul recinto fortificato che la circonda hanno aggiunto al danno del degrado materiale la beffa del disconoscimento identitario. Allo studioso dell’incastellamento, esse forniranno spunti per ulteriori riflessioni su un tema, le forme e i caratteri dell’incastellamento nel Regno, su cui pure non poco si è scritto e dibattuto.

Con S. Eleuterio di Arce, fortificazione posta sulla sponda sinistra del fiume Liri, a segnare il confine tra Regno e Patrimonio di San Pietro, siamo in un arco cronologico compreso sostanzialmente tra fine del XIII e pieno XV secolo. In quali termini e sulla base di quali dinamiche si definisce in quel periodo il rapporto tra quella torre prima, l’intero complesso più tardi, e le altre fortificazioni del territorio, prima fra tutte la rocca di Arce? Possiamo parlare di una forma particolare, “di confine”, dell’incastellamento? Senza entrare a fondo nella questione, che merita senza dubbio un esame puntuale e particolareggiato, basti qui suggerire che occorrerebbe porre l’accento, in prima istanza, sul significato di “confine territoriale”, un concetto che non va certamente definito secondo parametri moderni, ma che comunque trova nell’indubbio carattere di baluardo del territorio dell’Alta Terra di Lavoro contro invasori e incursori provenienti dal Nord, nell’età del Regno, un primo punto di riferimento. Da chiarire, se mai, accettando la definizione di “incastellamento di confine”, sono le funzioni che quest’ultimo è chiamato a svolgere o di cui comunque si riveste: strategico-militari e difensive, certamente, ma solo militari e di controllo del territorio, o anche, e in quale misura, simboliche e rappresentative, di sviluppo colturale, di comunicazione, di “propaganda politica”?

E in questo “incastellamento di confine”, quali relazioni e quali dinamiche insediative intercorrono tra le rocche, i castra, le torri, gli abitati fortificati, le mura, e tra l’insieme di queste strutture e i poteri e i ceti non solo locali? Sono definibili, e sulla base di quali fattori, i “punti forti”, le strutture fortificate di primo piano, le strutture di semplice avvistamento, le strutture secondarie e di supporto? E queste caratteristiche, queste diverse e in qualche misura mutevoli “gerarchie castellari”, come mutano, in seguito a quali fenomeni e in conseguenza delle scelte di quali forze e interessi? Quando lo svevo Enrico VI, nel 1191, decise di entrare nel regno, si preoccupò in primo luogo di conquistare con la forza la munitissima rocca di Arce: a quel punto, lo ricordava Fulvio Delle Donne nella sua relazione del 2005 citando un passo degli anonimi Annales Casinenses, molte fortificazioni della zona gli si consegnarono senza combattere, «unde multae aliae munitiones stupificatae se dicto imperatori reddiderunt». La rocca di Arce, all’epoca «inexpugnabile castrum», è un “punto forte” del sistema castellare di confine: tuttavia, paradossalmente, può esserne il “punto debole”, come si è visto. In circostanze solo militari? E a quali tensioni e contraddizioni, tanto nel rapporto con le comunità locali e i suoi poteri, quanto nelle relazioni tra centro e periferia del Regno, è soggetto un sistema di quel genere? Il discorso, evidentemente, va ripreso e approfondito: ancora una volta, è il sistema-Regno che ne verrà precisato.

Ancora molte domande, certo; ma anche qualche risposta concreta. A partire dalla capacità di un programma di ricerche storiche e archeologiche che poteva apparire inizialmente astratto e ambizioso (ma l’ambizione per fortuna è ancora viva), di tradursi in termini di valorizzazione e fruizione pubblica dei tanti “beni culturali” che spesseggiano nel territorio. L’avvio di un progetto di recupero del complesso di S. Eleuterio ne è un esempio illuminante. Non si tratta solo di un estemporaneo impegno degli amministratori locali: è invece il segnale di una consapevolezza culturale nuova e matura, che mostra oggi di saper leggere il territorio stesso, nella sua interezza, come bene culturale e sociale, e la cultura come occasione irrinunciabile di sviluppo territoriale.

Se oggi questa consapevolezza ha assunto dimensioni quasi di massa, tanto da chiedere di concretizzarsi anche nella formazione di un Centro Studi (che potrebbe a ragione contare sulla collaborazione di analoghe strutture, primo fra tutti il Centro di Studi Normanno-Svevi dell’Università di Bari), lo si deve all’impegno e all’intelligenza di molti: di Marco D’Emilia, presidente dell’associazione culturale arcese “Nuovi Segnali”, da anni generosamente impegnato, con il contributo di numerosi soci, nella difficile arte di rendere visibile e fruibile l’intrigante complessità della memoria storica (le diverse edizioni delle rievocazioni storico-spettacolari “In Castro Archis”, ne sono diretto testimone, sono state sempre coronate da successo); di sindaci e assessori di lungimirante sensibilità; di tanti ricercatori e studiosi locali non afflitti dal virus del “patrio localismo”; e dello stesso Fulvio Delle Donne, al quale non manca il coraggio di misurare nel confronto con istituzioni e occasioni culturali i risultati delle sue ricerche specialistiche.

Da tempo, il viaggiatore che giunga in questo territorio non può fare a meno di notare, con stupore e fors’anche disappunto, la presenza invasiva di antenne televisive a lunga portata sui resti della secolare fortificazione di Rocca d’Arce, visiva rappresentazione del dominio del presente sul passato. In realtà, il passato non ha mai smesso di trasmettere; siamo noi, piuttosto, a sintonizzarci oggi sui suoi canali in numero sempre crescente, ben oltre i “confinia regni”, ben oltre la “suavis terra” e il suo “inexpugnabile castrum”: eccolo, un altro grande risultato dei “piccoli” convegni arcesi.

  

   

©2007 Raffaele Licinio; testo pubblicato nel volume Suavis terra, inexpugnabile castrum’. L'Alta Terra di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angioina, a c. di Fulvio Delle Donne, Arce 2007.

   


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