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di ANDREA MONETI

  

  

GLI ANTEFATTI

La battaglia di Campaldino che si combattè in quel 11 giugno 1289, giorno di San Barnaba, è stata una delle principali battaglie all’epoca dei Comuni nell’Italia Centro-settentrionale, forse l’episodio definitivo che ha dato il via alla egemonia economico-politica di Firenze nelle vicende toscane. Ma per capire i motivi che portarono a questo evento bellico così importante, è bene tornare indietro negli anni e capire quali furono gli antefatti e le circostanze che lo produssero e cosa volesse dire, allora, essere un guelfo od un ghibellino.

Nei secoli XIII-XIV, la vita ad Arezzo e a Firenze, come quella di tante altre città italiane, era contrassegnata da aspre lotte intestine, iniziate forse fin dalla prima metà del 1100, tra le grandi famiglie nobiliari. All'interno delle mura cittadine, come a Siena, a Lucca, a Pisa, e così via, le fazioni, senza un attimo di tregua, si resero sempre protagoniste di continui scontri e violenze, volte all'eliminazione e alla cacciata dalla città della parte avversa. La tradizione storica fa risalire la nascita dei partiti Guelfi e Ghibellini alla discesa di Federico Barbarossa e il loro nome derivava dalle fazioni in cui si era divisa la Germania dopo la morte di Enrico V, quando, la dieta germanica non riuscendo a trovare un accordo per il nome del successore, si formarono due partiti composti dai grandi feudatari: uno che parteggiava per la famiglia Salica, dominatrice della Franconia, altri per la famiglia di Aldorf, che comandava nella Baviera. Nel conflitto che seguì, i sostenitori degli Svevi furono detti Ghibellini (dal castello di Weibling appartenente al duca di Svevia Federico di Hohenstaufen), mentre gli avversari furono chiamati Guelfi (dato che i duchi di Baviera erano discendenti dalla casata di un certo Welf vissuto nell'XI secolo).

Le fazioni guelfe e ghibelline italiane del XIII secolo lottavano però per questioni di potere locale e spesso i gruppi contrapposti si professavano di parte guelfa o ghibellina con il solo scopo di ottenere appoggi o favori da parte del pontefice, o degli Angioini di Napoli, suoi alleati, oppure dall'Imperatore, dagli Svevi o dagli Aragonesi. Il ghibellismo toscano consistette principalmente in una o più coalizioni di città e di grandi feudatari allo scopo di contrastare l’espansione e gli interessi economico-politici di Firenze e di Carlo I d’Angiò, chiamato in Italia da Urbano IV nel 1262 (una costante della politica del Papato fu la promozione di alleanze contro l’Imperatore e i suoi principali rappresentati nella penisola) per mettere fine al potere dello svevo Manfredi sull’Italia meridionale. Già a partire dalla seconda metà del XII secolo, in un’alternanza di pause e riprese, assistiamo in tutta la Toscana a conflitti con forme di coalizione di città contro città; in particolare Firenze e Siena ambivano a guadagnare una funzione dominante in tutta la regione e gli altri Comuni toscani tendevano ad allearsi o con o contro l’una o l’altra di queste due città. Nonostante i continui capovolgimenti politici e militari che si susseguirono nel corso del XIII secolo, si può generalizzare che Prato e Lucca gravitavano nella sfera di influenza guelfa fiorentina, mentre Pistoia e Pisa stavano dalla parte di Siena, tradizionalmente ghibellina. Arezzo fu un po’ un caso a sé poiché pur essendo una città di consuetudine ghibellina, ebbe con Siena quasi sempre rapporti bellicosi.

In tutte queste città, centri più o meno importanti, le famiglie principali, in competizione tra loro, si appoggiavano all’una o all’altra fazione per ottenere il predominio politico sulla città e furono causa di una sequenza continua di violenti conflitti interni: alternativamente, ora i guelfi ora i ghibellini divenivano padroni della città o fuorusciti pieni di rancori e desiderosi di vendetta. E agli appartenenti della parte sconfitta non restava altro che la prospettiva dell’esilio, della confisca dei beni o la perdita di ogni diritto politico. Bisogna però stare attenti a non generalizzare la divisione politica in ghibellini e guelfi come in casate nobiliari e consorterie, le prime, di antica origine e le seconde con la nobiltà cittadina più recente e legata a quelle classi sociali prevalentemente mercantili che proprio allora stavano acquistando un maggior peso politico all'interno dei Comuni, una sorta di scontro sociale e di classe tra i fautori delle famiglie patrizie e i ceti popolari; la borghesia locale, infatti, non aveva ancora un peso politico tale da poter contrastare apertamente gli interessi dei nobili.

Come conseguenza del forte e stabile dominio della parte guelfa, a differenza delle altre città toscane, Firenze poteva permettersi di intervenire in aiuto di una fazione alleata poiché conosceva una forte stabilità al suo interno, e fu proprio per questo che le fu possibile iniziare una politica di espansione territoriale ed egemonica nei confronti dei Comuni vicini (sappiamo, ad esempio, che nel 1251 i Fiorentini intervennero appoggiando gli esuli guelfi aretini contro il governo ghibellino di Arezzo che nel 1254 riuscirono a rientrare nella loro città, con il supporto delle milizie fiorentine capeggiate da Guido Guerra Guidi). Questa stabilità fu proprio quello che invece mancò allo schieramento ghibellino; nei momenti immediatamente successivi alla battaglia di Montaperti, uno dei più grandi scontri militari combattuti in Toscana (4 settembre 1260), quando la vittoria ghibellina avrebbe potuto affossare definitivamente la città fiorentina (solo da parte guelfa si contarono più di quattromila morti), se le forze nemiche di Firenze avessero saputo trovare un catalizzatore politico unitario, a ben poco sarebbe valso la difesa strenua della città gigliata di Farinata degli Uberti nel celebre convegno di Empoli. Firenze riuscì invece a sopravvivere e già sotto il governo ghibellino, instaurato in città all'indomani di Montaperti, iniziò la propria riscossa (la rivincita morale e militare la ottenne pochi anni dopo, nel 1269, con la battaglia di Colle Valdelsa, con una pesante sconfitta per l'esercito senese).

Firenze influenzò la politica interna delle altre città toscane anche per i rivolgimenti interni a cui si assistette nell’ultimo quarto di secolo, quando i ceti urbani emergenti cominciarono ad organizzarsi minacciando direttamente quel dominio cittadino che le famiglie nobiliari avevano esercitato per decenni. La borghesia fiorentina, con i suoi mercanti, che acquisivano un’influenza sempre più importante nella condotta politica cittadina, era ormai divenuta una forza politica ed economica consistente e premeva sempre di più per ottenere una maggiore partecipazione al governo cittadino, che all'opposto, fin dalla sua origine, aveva mantenuto un aspetto fortemente oligarchico. Questa situazione si protrasse fino al 1282 quando a Firenze venne istituito il magistrato delle Arti o dei Priori, istituzione che permise alla borghesia fiorentina di accedere direttamente alle leve del potere cittadino.

Gli effetti di questa riforma popolare si fecero sentire anche nella vicina Arezzo, dove le corporazioni si impadronirono, per la prima volta, del potere cittadino e posero alla guida del Comune, similmente a quanto era accaduto a Firenze, una sorta di podestà popolare, il Priore delle Arti, allontanando dalle leve del potere tutte le grandi famiglie, sia guelfe che ghibelline. Priore delle Arti fu nominato Guelfo di Lucca, acceso esponente del guelfismo. Negli anni compresi tra il 1260 e l’anno della battaglia di Campaldino, stava, però, emergendo ad Arezzo una nuova figura politica, una delle maggiori del Duecento aretino: quella del vescovo Guglielmino della nobile famiglia degli Ubertini, unita da parentela ed in stretta consorteria alla famiglia dei Pazzi di Valdarno, che dette vita, tra alti e bassi, ad una vera e propria signoria vescovile. Alleatosi con i magnati fuoriusciti ed estromessi per la prima volta dal potere, in breve la situazione sfociò in un vero e proprio conflitto tra le grandi casate, per una volta compatte e concordi, contro i ceti popolari e il Comune aretino.

Dopo una prima fase in cui lo scontro si rivelò favorevole alle milizie cittadine, che avevano inutilmente posto l'assedio al castello di Civitella in Val di Chiana, possedimento dello stesso Guglielmino degli Ubertini, le famiglie magnatizie ottennero vittorie decisive. Troppo grande era, infatti, la disparità delle forze in campo e le bande militari al soldo dei nobili, sia di parte guelfa che ghibellina, unite sotto il comando di Rinaldo Bostoli e Tarlato Tarlati, rispettivamente capi dei Guelfi e dei Ghibellini aretini, ben più avvezze all'arte della guerra, esercitarono una pressione militare schiacciante, schiacciando nel 1287 le ultime difese del Comune dei Priori. La vendetta del vescovo Guglielmino e dei nobili fu feroce, come sempre accade in una lotta intestina.

Il vescovo Guglielmino era ormai divenuto il vero signore di Arezzo. E la sua posizione si era rafforzata anche per un serie di avvenimenti tutti favorevoli alla fazione ghibellina che erano accaduti in quegli anni, come la morte di Carlo d’Angiò, avvenuta nel 1286, e la prigionia del suo successore Carlo II, sconfitto nella sanguinosa battaglia navale che ebbe luogo in Sicilia nell’anno successivo per opera degli Aragonesi, intervenuti nell’isola per approfittare della favorevole situazione che era venuta a crearsi dopo la famosa rivolta dei “Vespri siciliani”. Effetto di questi eventi fu la ripresa delle iniziative ghibelline in tutta la regione, con Arezzo e Pisa in prima fila. In particolare, Arezzo, che divenne un punto di riferimento di tutti gli esponenti ghibellini non solo toscani, ma anche umbri e romagnoli, dopo che, con un ennesimo colpo di mano, le forze ghibelline, tradendo i patti, cacciarono la fazione avversaria dalla città.

A questo punto lo scontro frontale con Firenze si era reso inevitabile. Per tutti gli anni Ottanta del Duecento, Firenze aveva condotto una politica che mirava all’egemonizzazione del contado e delle altre città toscane, utilizzando come pretesto l'arma ideologica del guelfismo. Alleata di Carlo II d'Angiò, aveva ridotto notevolmente la concorrenza economica e politica di Siena, mentre Prato, Pistoia, San Miniato, San Gimignano e Colle Valdelsa concorrevano con lei e con l'alleata Lucca per indebolire Pisa, città che, assieme ad Arezzo, nonostante il duro colpo subito alla Meloria nel 1284, teneva ancora alta la bandiera ghibellina. Gli interessi economici e politici del Comune aretino contrastavano, però, anche con gli interessi di Siena, che in quel periodo era guidata da un governo di stampo guelfo e non tardò a trovare un'intesa militare con la nemica Firenze per ridimensionare Arezzo e spartirsi con il potente alleato le sue zone d'influenza.

Firenze costituì una lega guelfa assieme ad altri centri, tra i quali spiccava Siena, accogliendo, ovviamente i fuorusciti aretini di parte guelfa, desiderosi di rientrare vittoriosi in Arezzo e di vendicarsi dei torti subiti. Il vescovo Guglielmino, ben conscio della forza militare messa in atto dai fiorentini, cercò di risolvere i contrasti per vie diplomatiche, facendo tutto il possibile per evitare la guerra. In città però il partito degli interventisti era il più forte. Il tergiversare del vescovo Ubertini venne visto con sospetto, e saputo che questi aveva ricevuto una proposta, recapitategliela tramite Marsilio de’ Vecchi, di vendere i castelli di sua proprietà a Firenze stessa, in cambio di una rendita di 3000 fiorini e scongiurare, così, lo scontro bellico, i capi ghibellini lo accusarono di tradimento costringendolo, dietro minaccia di morte, a schierarsi apertamente contro Firenze.

 

LA BATTAGLIA

La guerra cominciò pochi mesi dopo con una serie di scorrerie effettuate da ambo le parti in lotta, sia nel territori aretino, che in quello senese e fiorentino. Nella tarda primavera del 1288 (il 31 maggio) i Fiorentini ed i Senesi, radunato un forte esercito, si mossero alla volta di Arezzo attraverso il Valdarno, giungendo sotto le mura della città. Ma dato che le loro forze non erano sufficienti  ad occuparla, levarono il campo verso la fine di giugno, non dopo aver dileggiato gli assediati con un palio intorno alle mura cittadine. Commiserò, però, il grave errore di dividersi: i Fiorentini ripresero la via del Valdarno, mentre i Senesi quella della Valdichiana. Capita in anticipo la mossa dei nemici, gli Aretini uscirono dalla città e raggiunsero i Senesi, meno numerosi dei Fiorentini, nella vicina Pieve al Toppo. Piombarono su di loro di sorpresa e impreparati a quell’attacco, i Senesi subirono una grossa sconfitta militare lasciando sul campo numerosi morti e molti furono i prigionieri, condotti ad Arezzo.

Ai primi del 1289 gli Aretini con il loro podestà, Guido Novello dei conti Guidi, passarono decisamente al contrattacco razziando il territorio senese fin quasi davanti le porte di Siena e attaccando poi il Fiorentino attraverso l'Alto Valdarno, fino a San Donato in Collina in vista delle mura fiorentine. Un parlamento delle città guelfe, convocato ad Empoli, decise la guerra contro Arezzo. I Fiorentini iniziarono subito ad ammassare armi e vettovaglie, istituendo, tra l'altro un'apposita imposta per far fronte alle diverse spese militari. Durante un animato dibattito tenuto nel battistero di San Giovanni, si discusse quale via prendere per attaccare gli Aretini, optando alla fine per la via che, tramite il Passo della Consuma, metteva rapidamente in comunicazione Firenze con il Casentino.

All'inizio di giugno l'esercito fiorentino, al comando del giovane aristocratico Amerigo di Narbona, condottiero inviato in aiuto ai Fiorenti da Carlo II d'Angiò, finalmente liberato e rientrato nel regno, prese la via per Arezzo. Si trattava di un esercito imponente che comprendeva nelle sue fila, oltre ai Fiorentini, contingenti guelfi delle città di Prato, Pistoia, Lucca, Bologna, San Miniato e di Romagna e i fuoriusciti guelfi aretini capeggiati da Rinaldo Bostoli. Pare che complessivamente arrivasse a contare fino a diecimila fanti e 1900 cavalieri (di cui 300 direttamente assoldati, cioè mercenari, dal comune fiorentino e altri 500 assoldati dalla lega guelfa, mercenari soprattutto provenzali e francesi, prevalentemente giunti dai territori angioini dell’Italia meridionale; erano presenti comunque anche Lombardi, Catalani, Spagnoli e Tedeschi). A questa campagna militare parteciparono alcuni tra i più famosi personaggi fiorentini e toscani: Dante Alighieri, Corso Donati, capitano dei Pistoiesi, Vieri de' Cerchi, gli Squarcialupi e i Colligiani, nobili della Valdelsa.

L'esercito aretino che andò incontro al nemico era meno numeroso, ma composto anch'esso da milizie provenienti da altre città ghibelline delle Marche, della Romagna e di Orvieto. In totale contava circa ottomila fanti e 800 cavalieri. Tra le sue fila, come nell’esercito avversario, c'erano numerosi condottieri di valore, sia della nobiltà aretina che di fuori, come Buonconte da Montefeltro, principale rappresentante della famiglia nobile di Urbino, Guglielmino dei Pazzi e il già citato conte Guido Novello, allora podestà di Arezzo, il conte di Lavagna e i fuoriusciti fiorentini delle famiglie degli Uberti, dei Lamberti e degli Scolari.

Da entrambe le parti, la cavalleria (i milites) era formata in parte da forze feudo-signorili, in parte da cittadini abbienti, che grazie al loro elevato censo erano tenuti a combattere a cavallo o comunque a finanziare un cavaliere pesantemente armato, e in parte da mercenari. La fanteria era costituita dai ceti meno abbienti e si divideva essenzialmente in tre corpi, tutti dotati di armamenti leggeri e poco costosi: i “pedoni” propriamente detti, armati di lunga lancia e protetti da scudo, copricapo in ferro, armi difensive e lamine metalliche o cuoio cotto a protezione del torace; i “pavesari”, la cui specialità era quella di maneggiare grandi scudi rettangolari in legno o in vimini intrecciati coperti in cuoio dipinto, dietro i quali si riparavano pedoni, arcieri e balestrieri; infine si avevano i “pivieri”, costituito dal contado e dai ceti urbani più umili.

Paolo Uccello, La battaglia di Campaldino

 

La battaglia decisiva, una delle più grandi di tutto il Medioevo italiano, avvenne l'11 giugno del 1289, in un caldo ed afoso sabato di fine primavera, sulla piana di Campaldino, vicino al convento francescano di Certomondo, presso il castello di Poppi, nella zona delimitata dal fiume Arno e dal torrente Solano alla sua sinistra (per chi osserva da Poppi), dal torrente Roiesine, dalle pendici e rilievi dei colli che salgono sulla destra verso l’Appennino e, a settentrione, dal territorio di Porrena e Borgo alla Collina. Numerose sono le testimonianze tramandateci dagli storici dell'epoca, tra le quali particolarmente interessante e suggestiva è la versione scritta dallo stesso Dante nel V canto del Purgatorio della sua Divina Commedia. Ed è proprio grazie alla bellissima e struggente storia di Buonconte da Montefeltro, se la battaglia di Campaldino viene ricordata un po' da tutti fin dai banchi di scuola.

Nessuno saprà mai quanto Dante sia rimasto segnato, per tutta la vita, da questa cruenta esperienza quando, allora venticinquenne, prese parte alla battaglia tra i feditori, i cavalieri di prima linea (lui stesso ci narra che durante lo scontro provò «temenza molta»). Nell'episodio di Buonconte, con la gola forata per un colpo ricevuto in battaglia, che faticosamente si trascina fin all'Archiano, è possibile avvertire ancora quella terribile atmosfera carica di sudore, grida, sangue, odio e paura che caratterizzano la giornata di Campaldino. La terribile tempesta che travolse le spoglie del malcapitato cavaliere ghibellino, disperdendole, sono il ricordo di grosse nubi dense d'afa che, alla fine della giornata, resero il cielo sopra la piana di Campaldino nero come la pece, scaricando sui miseri resti una violenta ed improvvisa pioggia estiva, quasi a voler purificare il campo di battaglia e le spoglie ormai prive di vita e a raffreddare l'ebbrezza del sangue.

A Campaldino, come a Montaperti o a Pieve al Toppo, si combattè con odio, con rancore: ciascuno dei due eserciti era pieno di fuorusciti, che combattevano contro la fazione che li aveva cacciati, che aveva demolito le loro dimore e confiscato i loro beni. Lo scontro di Campaldino mise a confronto anche due atteggiamenti strategico-militari differenti. Messer Barone de' Mangiadori da San Miniato, il comandante delle milizie a cavallo fiorentine, rivolse ai suoi queste parole: «Signori, le guerre di Toscana si soglìano vincere per bene assalire; e non duravano, e pochi uomini vi moriano, ché non era in uso l'ucciderli. Ora é mutato modo, e vinconsi per stare ben fermi....». Barone aveva capito, probabilmente dopo Montaperti, che le guerre comunali avevano definitivamente perduto il loro carattere cavalleresco, che produceva scontri confinati nei tempi e nelle conseguenze, tutte guerre stagionali tipiche del costume feudale. Con i Comuni le guerre invece non si limitavano semplicemente a battere in campo aperto il nemico, lasciato tranquillamente in fuga per saccheggiarne l'accampamento abbandonato o per richiedere i riscatti dei suoi prigionieri, ma lo scopo principale era quello di ridurre in ginocchio e fiaccare per sempre gli avversari che ostacolavano la libera circolazione delle merci e la sicurezza del contado.

Gli Aretini sapevano bene che si trovavano in forte inferiorità numerica, ma nonostante ciò si prepararono allo scontro. Lo storico Giovanni Villani ci narra che «richiesono di battaglia i Fiorentini non temendo perché i Fiorentini fossero due cotanto di loro, ma dispregiandoli, dicendo che si lisciavano come donne e pettinavano le zazzere....». Prima di muovere battaglia, il vescovo aretino inviò il guanto di sfida ad Amerigo di Narbona e scambiò la sua armatura e le sue insegne con quele del nipote Guglielmo de’ Pazzi e dodici nobili aretini, definiti “paladini”, vennero scelti tra i 150 feditori per le imprese più rischiose. Comunque sia lo stesso Guglielmo de' Pazzi e Buonconte di Montefeltro, vista l'inferiorità dello schieramento aretino, consigliarono il vescovo Guglielmino di non attaccare e attendere prudentemente l’oste nemico, ma questi, fiero, rispose dando del vigliacco a Buonconte, che, a sua volta, lo invitò, sprezzante, a seguirlo in battaglia dove la mischia sarebbe stata più dura.

I guelfi si disposero con un avamposto di 150 o 170 “feditori”, cavalieri così denominati poiché avevano il compito di “fedire” le fila nemiche, protetti ai lati da reparti di “pavesari”, fanti armati, per difesa, di grandi scudi rettangolari e piantabili a terra per mezzo di sostegni, da fanti di lancia lunga e da balestrieri. Subito dietro si trovava il grosso della cavalleria, difesa, a sua volta, sul tergo e sulle ali, da una seconda linea di fanti. In terza linea era stato ammassato il “carreggio” delle salmerie che, coi suoi pesanti veicoli disposti a quadrato, serviva da piazzaforte di fortuna per “rattenere la schiera grossa”. Gli stessi addetti ai servizi potevano formare una riserva complementare. Fuori dalla schiera grossa, probabilmente sulla sinistra dell’esercito guelfo, là dove il piano comincia a salire, venne posta la riserva di 200 cavalieri, sotto la responsabilità di messer Corso Donati, con il momento di intervenire al momento opportuno.

I ghibellini, legati forse ad una tradizione militare troppo offensiva ed intimamente feudale, coscenti del proprio valore, formarono un nutrito reparto di feditori, circa 300 uomini a cavallo, seguiti da una seconda schiera di 350 cavalieri di immediato rincalzo. I fanti si trovavano in seconda linea e sulle ali ddelle colonne d’attacco. Sulla destra dello schieramento ghibellino trovava posto la riserva di 150 cavalli agli ordini del potestà Guido Novello.

Dei due schieramenti, quello guelfo con i fianchi accuratamente protetti, con un numero esiguo di feditori, con il carreggio posto a difesa dietro il grosso dell’esercito, rivelava non solo un atteggiamento difensivo, ma anche il calcolo di attrarre il nemico in una situazione da sfruttare immediatamente. I ghibellini, con una massa d’urto doppia degli avversari, composta da circa 650 cavalieri in totale, che aveva lo scopo di scompaginare e frantumare la prima linea nemica, basavano la loro strategia su una tattica puramente offensiva, fin troppo temeraria, confidando, forse, anche sulla conformazione del terreno che, all’epoca, doveva essere quasi spoglio di alberi, coltivato a biada, e che bene si prestava alle evoluzioni della sua cavalleria.

Furono i feditori aretini a muovere all'attacco e al grido di guerra «San Donato!» si lanciarono all’attacco, urtando con tale impeto i feditori avversari che ricacciarono immediatamente sulla seconda schiera guelfa che, a sua volta, indietreggiò appoggiandosi al centro del grosso della fanteria. Anche se la manovra guelfa prevedeva questo impetuoso assalto per operare successivamente l’accerchiamento della cavalleria nemica, i ghibellini si erano incuneati così in profondità compromettendo quasi i piani degli avversari. A ruota giunse l’attacco della seconda linea di cavalleria ghibellina che, eccetto la riserva di Guido Novello, si gettò nella mischia ormai furiosa.

Grande fu la confusione che venne a crearsi tra le fila fiorentine che, nonostante, l’intervento dei pavesari e dei balestrieri non riuscivano a chiudere a tenaglia la cavalleria avversaria. Nel frattempo si erano lanciati in battaglia anche i fanti e i balestrieri ghibellini. La mossa che risolse la battaglia fu la decisione autonoma ed indisciplinata di messer Corso Donati. A capo di 150 cavalieri lucchesi e pistoiesi, posti sul campo come riserva da impiegare solo in caso di estrema necessità e per coprire un’eventuale ritirata, visti i suoi in difficoltà, dette l'ordine di attaccare, cogliendo in questo modo di sorpresa gli Aretini, proprio quando la fanteria ghibelina stava entrando nella mischia. Questa, ancora in movimento e non ordinata, non protetta dai palvesi e sottoposta al tiro micidiale delle balestre fiorentine, subì l’attacco del contingente di cavalleria di Corso che chiuse in una tenaglia le file aretine. Da entrambe le parti si combatté con rabbia e valore. I fanti aretini mostrarono un indomito coraggio e cercarono di ovviare alla situazione di inferiorità buttandosi sotto le pance dei cavalli avversari sventrandoli o tagliando le cinghie per far cadere i cavalieri fiorentini.

Quando il fronte aretino si ruppe, disperso in una fuga disperata, privo com’era di difesa e di cavalleria, Guido Novello non intervenne con la sua riserva e, vista la rotta delle forze ghibelline, si ritirò senza partecipare alla battaglia, portando il contingente ad Arezzo per organizzare la difesa della città. Ormai la battaglia era perduta. I vincitori incalzavano e il campo di battaglia si trasformò in un massacro dei vinti da parte dei pedoni e della gente del contado; forse i capi guelfi tentarono di fermare il macello dei superstiti e dei feriti avversari, ma la situazione sfuggì loro di mano.

Nella Cronica delle cose occorrente ai tempi suoi di Dino Compagni, famoso storico fiorentino, redatta tra il 1310 e il 1312, c'è una bellissima pagina che descrive la giornata campale di Campaldino, dove è interessante notare come lo stesso Compagni, fiorentino, riconosca al nemico di aver combattuto valorosamente:

«Mossono le insegne al giorno ordinato i Fiorentini, per andare in terra di nimici: e passarono per Casentino per mala via; ove, se avessano trovati i nimici avrebbero ricevuto assi danno: ma non volle Dio. E giunsano presso Bibbiena, a uno luogo si chiama Campaldino, dove erano i nimici: e qui si fermarono e feciano una schiera. I capitani della guerra misono i feditori alla fronte della schiera e i palvesi (ovvero gli scudi), col campo bianco e giglio vermiglio, furono attelati dinanzi. Allora il vescovo [di Arezzo], che aveva corta vista, qui domandò: “Quelle, che mura sono?”. Fu risposto: “i palvesi di nimici”. Messer barone de' Mangiadori da San Miniato, franco et esperto cavaliere in fatti d'arme, rannati gli uomini d'arme disse loro: “Signori le guerre di Toscana si sogliono vincere per bene assalire; e non duravano, e pochi uomini vi moriano, che non era in uso l'ucciderli. Ora é mutato modo, e voncosi per stare bene fermi. Il perché io vi consiglio che voi siate forti, e lasciateli assalire”. E così disponsano di fare. Gli Aretini assalirono il campo [al grido di viva San Donato] sì vigorosamente e con tanta forza, che la schiera de' Fiorentini forte rinculò. La battaglia fu molto aspra e dura: cavalieri novelli vi s'erano fatti dall'una parte e dall'altra. Messer Corso Donati con la brigata pistoiese fedì i nimici per costa (di fianco). Le quadrella pioevano: gli Aretini n'aevano poche, et erano fediti per costa onde erano scoperti: l'aria era coperta di nuvoli, la polvere era grandissima. I pedoni degli Aretini si metteano carpone sotto i ventri de' cavalli con le coltella in mano, e sbudellavanli: e de' loro feditori trascorsono tanto [cioè si fecero talmente avanti], che nel mezzo della schiera furono morti molti di ciascuna parte. Molti quel dì, che erano stimati di grande prodezza furono vili: e molti di cui non si parlava, furono stimati. Assai pregio ebbe il balio del capitano. Fu fedito Messer Bindo del Bastiera Tosinghi; e così tornò a Firenze, ma fra pochi dì morì. Dalla parte de' i nimici fu morto il vescovo, e Messer Guglielmo de' Pazzi, franco cavalier, Bonconte e Laccio da Montefeltri e altri valenti uomini. Il conte Guido [Guido Novello dei Conti Guidi] non aspettò il fine, ma sanza dare colpo di spada si partì. Molto bene provò [diede buona prova di sé] Vieri de' Cerchi et uno suo figliuolo cavaliere alla costa di sé. Furono rotti gli Aretini, non per viltà né per poca prodezza, ma per lo soperchio de' nimici. Furono messi in caccia, uccidendoli: i soldati fiorentini che erano usi alle sconfitte, gli ammazzavano; i villani non avevano pietà. Messer Talano Adimari e i suoi si trovarono presto a loro stanza: molti popolani di Firenze, che aveano cavallate, stettero fermi: molti niente seppono, se non quando i nimici furono rotti. Non corsano ad Arezzo con la vittoria che si sperava, con poca fatica l'arebbon avuta. Al capitano e a giovani cavalieri, che avean bisogno di riposo, parve avere assai fatto di vincere, sanza perseguitarli. Più insegne ebbono di loro nimici, e molti prigioni, e molti n'uccisono; che ne fu doma per tutta Toscana. Fu la detta rotta a dì 11 di giugno, il dì di San Barnaba, in un luogo che si chiama Campaldino presso a Poppi”.

 

Complessivamente gli Aretini persero tra i 1300 e i 1800 uomini e subirono 2000 prigionieri: quasi la metà dei suoi effettivi. Tranne Guido Novello, accusato di vigliaccheria per non aver attaccato l'esercito nemico sui fianchi mentre era in atto lo sfondamento al centro delle fila aretine, in pratica tutti i principali rappresentanti della fazione ghibellina trovarono la morte in battaglia. Tra i caduti ci fu lo stesso vescovo Ubertini che cadde combattendo nonostante i suoi settant'anni. Il suo elmo e la sua spada vennero portati a Firenze come trofei di guerra ed appesi alla chiesa di S. Giovanni, dove vi rimasero per oltre quattro secoli. Non sappiamo di preciso dove venne seppellito il suo cadavere; pare che venne sepolto segretamente di notte dai monaci di Certomondo nel loro convento. Cadde lo stesso Buonconte di Montefeltro, la cui sepoltura è rimasta per sempre ignota.

Arezzo ormai si trovava alla completa mercé del nemico, priva della sua guida politica e con la milizia comunale distrutta. Per sua fortuna i Fiorentini non approfittarono della situazione perdendo del tempo prezioso per assediare il munito fortilizio di Bibbiena, permettendo, così, agli Aretini di organizzare una disperata difesa. La città riuscì a resistere tenacemente all'assedio dei Fiorentini che, arrivati fin sotto le mura, avevano distrutto tutto ciò che era possibile lungo la strada che dal Casentino conduceva al contado aretino. Alla resistenza cittadina parteciparono i soldati che erano riusciti a riparare in città dopo la battaglia, vecchi, donne e bambini, tutti ben consapevoli di ciò che sarebbe accaduto se la città fosse caduta.

La difesa di Arezzo durò per oltre 3 settimane, dal 31 giugno al 23 luglio, giorno in cui i Fiorentini, stanchi e desiderosi di festeggiare la vittoria, tornarono alla propria città. Prima di levare il campo, i Fiorentini fecero correre un palio attorno alle mura e, tramite dei mangani, scaraventarono in città addirittura degli asini sul capo di uno dei quali era stata posta una mitra vescovile per schernire il vescovo Guglielmino degli Ubertini, caduto in battaglia. Si fecero feste in tutta Firenze per lungo tempo e nell'entusiasmo scatenatosi dominante era l'idea che la disfatta di Montaperti, ferita morale ancora aperta, fosse stata vendicata completamente. Le autorità fiorentine prescrissero che da allora in poi ogni 11 giugno, giorno consacrato a San Barnaba si corresse un palio a piedi dedicato al santo stesso, fino ad allora abbastanza sconosciuto; a lui venne dedicata anche una chiesa in una strada che si chiamò poi via Guelfa. Dopo Campaldino, Firenze si avviò ad essere quello che poi di fatti divenne nel secolo successivo.

   

 

©2004 Andrea Moneti

   


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