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di MASSIMO MONTANARI

  

  

Le culture alimentari tradizionali percepiscono l’alimento latte in stretto collegamento con l’idea di infanzia. Il latte è per definizione il cibo dei neonati, dunque è prima di tutto il latte umano, unanimemente riconosciuto come il migliore, il più nutriente, il più adatto anche per usi medicinali.

Il latte è cosa buona, fonte di vita e di salute. È - ritengono i medici antichi e medievali - una sorta di sangue imbiancato, purificato [1]. E il sangue è l’essenza stessa della vita. Non sorprende perciò che il latte trovi posto anche nella simbologia religiosa quale immagine della vita - appunto - e della salvezza interiore. Nei primi tempi del cristianesimo, il pasto sacro dei fedeli, che progressivamente si sarebbe orientato verso il consumo rituale di pane e vino, comprendeva talora il latte (associato al pane o al miele) in alternativa al vino[2]. Vino che, ad un certo punto, si sostituisce al latte nell’immaginario culturale e religioso, rilevandone in qualche modo le funzioni. Ciò accade in un momento ben preciso: là dove il latte termina di possedere una valenza nutritiva primaria, ossia nel passaggio dall’infanzia all’età adulta.

La profonda connessione tra il latte e l’infanzia, origine dei valori positivi che gli sono attribuiti, è anche il limite del suo ruolo e della sua immagine, che gli impedisce di essere assunto come valore alimentare - e culturale - totalmente positivo. Quale alimento per l’età adulta il latte è generalmente rifiutato, e ciò significa un atteggiamento di grande diffidenza verso ogni tipo di latte che non sia quello di donna e che venga proposto al di fuori del contesto nutrizionale infantile. Secondo i medici antichi, il latte animale non è alimento appropriato per l’uomo: Ippocrate e Galeno lo consigliano solo per uso medicinale, sottolineando i numerosi pericoli del latte sotto il profilo alimentare [3]. Tali giudizi erano determinati anche da motivi di carattere ambientale: la cultura greca e latina si sviluppano in un quadro geografico, quello mediterraneo, non certo favorevole al consumo di un prodotto delicato e deperibile come il latte. Ciò valeva in generale ma a maggior ragione nei climi più caldi, e non è sicuramente un caso che solo certe popolazioni del Nord vengano descritte dagli autori antichi, non senza stupore, come consumatori abituali di latte animale. “Mungi-cavalle” sono definiti da Erodoto gli Sciti, grandi consumatori di latte e latticini [4]. Analoghe valutazioni troviamo negli autori della tarda Antichità e del primo Medioevo, come Giordane, il quale a proposito dei Goti Minori scrive che conoscono, sì, grazie ai contatti con i popoli vicini, quella meravigliosa bevanda di civiltà che è il vino, ma ciononostante restano fedeli al latte, loro bevanda tradizionale [5].

Il consumo di latte in età adulta viene così individuato come segno alimentare della barbarie - una nozione, in fondo, molto vicina a quella di infanzia, trasportata dal piano biologico a quello socio-culturale. Il paradosso è che la capacità di consumare latte in età adulta è, fra le abitudini alimentari dell’uomo, una di quelle più fortemente connotate in senso ‘culturale’, rappresentando l’esito di un lungo e difficile adattamento, che più di altri ha forzato le attitudini naturali della specie e che rimane, ancora oggi, tutto sommato minoritario [6]. Sul piano simbolico, invece, l’immagine si rovescia: i bevitori di latte sono barbari e primitivi. Tale il giudizio degli scrittori antichi e medievali, che contrappongono le società agricole ‘evolute’ alle società pastorali ‘primitive’, i cibi elaborati e ‘inventati’ dall’uomo (come il pane o il vino) ai cibi forniti spontaneamente dalla natura (come la carne o il latte) [7].

  

Il latte di cui stiamo parlando è soprattutto quello di pecora. Infatti, mentre oggi è scontato identificare il latte animale soprattutto con quello di vacca, nell’Antichità e nel Medioevo il latte per eccellenza era quello di pecora (o di capra). Fino al tardo Medioevo e ai primi secoli dell’Età moderna l’allevamento bovino ebbe un ruolo piuttosto marginale; di gran lunga preponderante era la pastorizia di ‘bestie minute’, suini e caprovini [8]. Perciò Isidoro di Siviglia, nel VII secolo, introducendo il capitolo sugli animali nella sua monumentale enciclopedia etimologica, prospetta una distinzione preliminare fra due categorie di animali, «quelli che servono ad alleviare la fatica dell’uomo, come i bovini e gli equini, e quelli che servono a nutrirlo, come gli ovini e i suini» [9]. I bovini servono a tirare carri e aratri, non certo a produrre il latte.

Tale classificazione corrispondeva agli usi alimentari e si rifletteva nelle categorie dietetiche e gustative: il latte di pecora e di capra era ritenuto migliore sul duplice piano del sapore e delle virtù nutritive. «Il latte - scrive nel XV secolo l’umanista Bartolomeo Sacchi, detto Platina, riassumendo concetti e valutazioni ampiamente condivise - ha le stesse proprietà dell’animale da cui viene munto: si reputa ottimo quello di capra perché aiuta lo stomaco, elimina le occlusioni del fegato, lubrifica l’intestino; per secondo viene quello di pecora, per terzo quello di mucca  [10]. Resta comunque inteso che «l’uso eccessivo del latte non è consigliabile». Giudizio condiviso dal medico Pantaleone da Confienza, autore del più antico trattato conosciuto sul latte e i latticini, la Summa lacticiniorum, pubblicata nel 1459 [11]. «Il latte, scrive Pantaleone [12], è consigliabile esclusivamente alle persone che godono di perfetta salute, e con molte precauzioni: dovrà essere di bestia sana, di buona qualità e appena munto; lo si berrà in ogni caso a digiuno, ad almeno tre ore di distanza dai pasti, astenendosi poi dall’esercizio immediato di attività fisiche impegnative». Inoltre ci si dovrà guardare dal mescolare nel proprio stomaco latte e vino, bevande che la cultura tradizionale considera incompatibili, anche per i motivi simbolici che abbiamo visto.

Sarebbe tuttavia sbagliato ritenere che il latte non abbia avuto alcun ruolo nel regime alimentare degli uomini e delle donne del Medioevo. Al contrario, tale ruolo fu importante e talora decisivo sul piano nutrizionale. Pochi bevevano latte, ma l’uso di trasformarlo in formaggio era pressoché universale: ciò che, fra l’altro, costituiva un ottimo modo per provvedere alla sua conservazione nel tempo[13].

A dire il vero, anche nei confronti del formaggio la cultura medievale (come già quella antica) nutriva forti perplessità. I misteriosi meccanismi della coagulazione e della fermentazione erano visti con qualche sospetto dalla scienza medica, e i trattati di dietetica invariabilmente mostravano diffidenza verso il formaggio, sconsigliandone il consumo o ponendovi dei forti limiti, qualitativi e quantitativi. In questi termini si erano espresse le maggiori autorità scientifiche del mondo greco e latino e i grandi medici arabi che nel Medioevo ne avevano ripreso i dettami, trasmettendoli all’Occidente europeo. «Caseus est sanus quem dat avara manus», recitava un aforisma attribuito alla Scuola salernitana, divenuto quasi un luogo comune nella letteratura igienico-sanitaria del basso Medioevo presto [14]. Cioè: solo il formaggio mangiato a piccole dosi non fa male alla salute.

Soprattutto il formaggio stagionato era oggetto di tale valutazione negativa: il già citato Platina lo condanna poiché «è pesante da digerire, nutre mediocremente, non fa bene allo stomaco e all’intestino, genera bile, fa venire la gotta, dolore ai reni, renella e calcoli». Il fresco invece «nutre molto e in maniera efficace, calma l’infiammazione dello stomaco, giova agli ammalati di tisi» [15]. Giudizi come questo ritornano con insistenza e quasi come un luogo comune nella trattatistica medievale e moderna, legati non solo a pregiudizi di ordine teorico (i processi di fermentazione assumevano spesso, nella cultura antica e particolarmente in quella biblica, significati negativi legati alla corruzione e putrefazione della materia organica) ma anche a considerazioni di ordine pratico, dettate dalle caratteristiche estetiche, gustative, olfattive di un prodotto che non di rado doveva assumere - nonostante l’impiego massiccio del sale per favorirne la conservazione - un aspetto marcescente.

La dietetica medievale, fondata sulla teoria dei quattro “umori” (caldo, freddo, secco, umido) in base ai quali è possibile classificare gli alimenti con una varietà infinita di combinazioni e di “gradi”, si pone come obiettivo il raggiungimento di un regime equilibrato che contemperi gli eccessi mediante eccessi opposti, tenendo in conto non solo la qualità dei cibi ma anche le variabili ambientali (il luogo, il clima) e la natura del consumatore (stato di salute, tipo di vita e di lavoro, sesso, età, ...). In funzione di tale equilibrio vengono suggeriti abbinamenti, modalità di cottura, ordine di successione delle vivande.

Per quanto riguarda il formaggio, Platina sosteneva la necessità di mangiarlo alla fine del pasto, «perché sigilla la bocca dello stomaco e toglie la nausea provocata dai cibi grassi» [16]. Tale virtù ‘sigillatoria’ del formaggio, enunciata dal Regimen sanitatis della Scuola salernitana («si post sumatur, terminat ille dapes») [17] e ribadita dai dietologi per secoli e secoli, è certamente all’origine di usi alimentari conservatisi fino ai giorni nostri nonché di proverbi, ovunque diffusi, che non ritengono concluso il pasto «finché la bocca non sa di formaggio» [18] (in proposito è interessante osservare come le tradizioni proverbiali affondino spesso le radici in una cultura dietetica pre-moderna della quale non sono più presenti le coordinate scientifiche ma della quale rimangono, vivissime, le prescrizioni pratiche) [19]. Indicazioni molto dettagliate troviamo nella Summa di Pantaleone di Confienza.

Le indicazioni dei medici trovavano - nel caso del formaggio, come per ogni altro uso alimentare - immediata e diretta conferma negli usi suggeriti dai ricettari di cucina. Maestro Martino, il maggiore cuoco italiano del Quattrocento, del quale è stata messa in luce la profonda sintonia intellettuale con i circoli romani in cui operava il Platina [20], non manca di precisare che il “caso in patellecte” di cui fornisce la ricetta «si vol magnare dopo pasto et caldo caldo» [21].

Tutto ciò, naturalmente, riguardava solo la piccola schiera di quanti potevano permettersi di scegliere. Ogni riserva cade nei casi di necessità, quando è la fame a imporre le sue ragioni: «Pauperes [...] et quos ad quottidianam casei commestionem impellit necessitas - scrive, senza alcuna ironia, Pantaleone da Confienza, - regulis superioribus non astringuntur, cum cogantur et in principio et in medio ac fine comestionis ipsorum caseum manducare» [22].

Fermiamoci su questa connotazione ‘popolare’ del consumo di formaggio. Essa risaliva all’Antichità, come attestano le pagine di scrittori e agronomi, da Catone a Varrone, a Columella, a Plinio, a Virgilio. Nella maggior parte di questi testi l’ambito sociale di utilizzo dei latticini appare decisamente ‘povero’. Columella distingue: il formaggio «serve a nutrire i contadini» (agrestis saturat) e «a ornare le mense eleganti» [23]. Sulle tavole umili costituisce un piatto forte, una fonte primaria di sostentamento; sulle tavole ricche compare solo come ‘abbellimento’, ossia come ingrediente di vivande più elaborate.

Tale immagine in parte resta valida nel Medioevo, inquadrandosi, però, in un percorso di ‘nobilitazione’ del prodotto che alla fine porta a un rovesciamento, a una decisa valorizzazione del ruolo economico, alimentare e culturale del formaggio. Tale percorso, non privo di ambiguità, si snoda attorno al modello alimentare monastico, teoricamente minoritario ma, di fatto, capace di imporsi a tutto campo come quadro di riferimento ideale, di grande prestigio e di grande impatto nella definizione dei comportamenti collettivi e degli atteggiamenti mentali. Elemento essenziale del modello alimentare monastico [24] è la rinuncia, parziale o totale, al consumo di carne: proibita per principio ai monaci, sia pure con molte eccezioni, essa viene rimpiazzata da cibi sostitutivi quali il pesce, le uova o, appunto, il formaggio. Estendendosi ben oltre l’ambito monastico, tale genere di rinuncia viene imposto dalla normativa ecclesiastica all’intera società cristiana e finisce per coinvolgere - tra periodi di quaresima, vigilie e astinenze settimanali - gran parte dei giorni dell’anno: fino a un terzo e oltre, è stato calcolato[25]. Tali scelte e tali obblighi comportarono significativi aggiustamenti del regime alimentare e dello stesso ‘statuto sociale’ dei prodotti. Il formaggio, in particolare, se da un lato vide confermato e accentuato il suo statuto di alimento ‘povero’, sostitutivo di un altro - la carne - ritenuto ben altrimenti prestigioso e desiderabile, dall’altro venne, come si diceva, ‘nobilitato’, assunto a protagonista primario della dieta, fatto oggetto di attenzioni più mirate e, talora, di sperimentazioni e ricerche innovative. Quasi paradossalmente, la cultura della rinuncia diventava essa stessa generatrice di una nuova cultura gastronomica, di uno spirito curioso e creativo da cui presero avvio molte future acquisizioni del gusto.

«Sarebbe possibile citare qualche formaggio di pregio che non sia monastico nelle sue lontane origini?», si chiede Léo Moulin [26]. Sicuramente esagera, poiché quelle ‘origini’sono spesso nulla più di un mito: ma i miti sono essi stessi significativi di un clima culturale, di un sentire comune che identificava i centri monastici come luoghi di elaborazione della cultura gastronomica.

Peraltro, anche quando parliamo di ‘gastronomia monastica’ non possiamo dimenticare la centralità del mondo contadino nell’elaborazione e nella trasmissione di quella cultura. Se i formaggi ‘monastici’ vengono talora prodotti e, magari, ‘inventati’ all’interno del monastero, ciò avviene con il concorso decisivo dei rustici che lavorano al servizio dei monaci. Altre volte - e forse più spesso - i formaggi provengono dall’esterno, dalle fattorie che i monaci possiedono ma altri lavorano. Le rendite in natura, che i monasteri riscuotono dai loro affittuari, spesso comprendono quote di formaggi: il monastero di Santa Giulia di Brescia - ci informa un inventario redatto sul finire del IX secolo - riscuote cospicui canoni in formaggio dai contadini dislocati in vaste corti della Lombardia e dell’Emilia. Le richieste sono espresse talvolta in peso, con l’indicazione delle libbre di caseum da corrispondere, talvolta in numero di forme [27]. Analoga attenzione per i formaggi troviamo in un altro inventario monastico del IX secolo, quello dell’abbazia di San Colombano di Bobbio, sull’Appennino emiliano [28]. Dobbiamo figurarci un concorso di forze diverse, un fecondo incrocio tra la consolidata esperienza dei contadini-pastori e le interessate sollecitazioni dei proprietari a diversificare e movimentare quell’esperienza.

Il formaggio trova dunque nella cultura gastronomica medievale - a dispetto delle indicazioni dei medici - un grande rilancio d’immagine, una promozione sociale che lo renderà sempre più accettabile sulle tavole dei ricchi: nel XV secolo Pantaleone da Confienza potrà scrivere di aver conosciuto «reges, [...] duces plurimos, comites, marchiones, barones, milites, nobiles, mercatores» nutrirsene spesso e volentieri [29]. L’itinerario non cesserà di precisarsi in età rinascimentale e nei secoli moderni, quando appariranno anche opere letterarie e poetiche in lode del formaggio, come le celebri terzine del ferrarese Ercole Bentivoglio, nel XVI secolo [30]. La presenza di formaggi sulle tavole signorili è confermata, in questi secoli, dai testi di cucina, come quello di Cristoforo Messisbugo, cuoco alla corte estense di Ferrara, che elenca «butiro, ricotta, ricotta di butiro, cavi di latte, gioncata, panna di latte, mantighiglia; formaggio duro, grasso, tomini, pecorino, sardesco; marzolini, provature e ravogliuoli» fra le provvigioni indispensabili «per fare uno apparecchio generale per la venuta di ogni gran principe [...] o per qualunque altra cosa che possa accadere d’importanza» [31].

Le vicende del formaggio sono fra quelle che ci mostrano con maggiore evidenza l’assunzione a livello elitario di valori gastronomici tipici della cultura popolare. Un percorso di integrazione dal basso all’alto, non di rado affiancato da percorsi in senso inverso o forse, meglio, di reciprocità e circolarità [32].

  

Il formaggio si usava molto anche in cucina: come scrive Platina, «i cuochi adoperano il formaggio per la preparazione di molte vivande» [33]. L’uso è ampiamente testimoniato nei ricettari fin da quando, tra XIII e XIV secolo, essi fanno la prima comparsa nella documentazione italiana e di altri paesi europei.

Il formaggio fresco si mescolava alle uova, alla carne, a verdure ed erbe profumate, per confezionare ogni sorta di pasticci e di torte - forse i piatti più caratteristici della gastronomia medievale. Il ricettario trecentesco conservato in un codice miscellaneo presso la Biblioteca Universitaria di Bologna e conosciuto come “Anonimo toscano” - preso qui a solo titolo di esempio - prevede l’impiego del «cascio fresco» per la farcitura dei «crispelli di carne, o vero tortelli e ravioli», come pure per il ripieno della spalla di pecora, che dovrà comprendere «cascio fresco, bene pesto con ova, in bona quantità»; assieme a «carne battuta» esso entrerà nel «pastello romano», mentre la «torta parmesana» comprenderà, oltre al fresco, «alquanto di cascio grattato»; quest’ultimo entrerà anche nelle «ova piene» e, naturalmente, nelle «lasagne» [34]. In altri casi il formaggio è protagonista primario della vivanda e la qualifica anche nel nome: la «casciata» è fatta di «cascio fresco lavato e bene premuto, e spezzato minuto colle mani nel catino», mescolato poi con uova, erbe, lardo, pepe e sale e messo a cuocere in crosta; seguono il «coppo di latte caprino, o pecorino», la “ioncada», la “paniccia col latte» [35]. Gastronomia semplice, di origine presumibilmente povera, ma destinata alle classi ricche: nel nostro ricettario, rivolto come tutti gli altri al ceto dei signori o dell’alta borghesia cittadina, la cosa è esplicita: dopo la ricetta del «cascio arrostito», messo allo spiedo in un bastone sopra il fuoco e servito su una fetta di pane sottile, o direttamente sul tagliere di pasta dura, l’estensore del testo ingiunge: «e porta al Signore» [36].

Anche il formaggio stagionato entrava nelle preparazioni di cucina, come abbiamo appena visto nelle ricette dell’Anonimo toscano. Mentre il fresco veniva pestato, il secco si grattugiava, come chiarisce il ricettario di Maestro Martino a proposito della torta di farro: «pigliarai una libra di cascio frescho, et meza libra di bon cascio vecchio, facendo pistare l’uno, et l’altro grattare como s’accostuma di fare» [37]. Soprattutto nelle ricette di torte, salate e dolci, i due tipi di «cascio», alternati o mescolati a seconda dei casi, appaiono quale ingrediente base della vivanda [38]. Essi compaiono anche nelle frittelle [39], nelle frittate [40], nelle uova ripiene [41] e in una quantità di altre preparazioni.

Tra i formaggi da grattugiare, già nel Medioevo si conquistò un primato indiscutibile il Parmigiano (ma allora erano altrettanto celebri il piacentino e il lodigiano) [42]. Il successo di questo tipo di formaggio, che già nel Trecento troviamo esportato fuori d’Italia [43], è legato anche all’affermarsi, dal Duecento in poi, di un manufatto alimentare che con esso si sposa particolarmente bene: la pasta. Al Parmigiano, con ogni probabilità, allude già Salimbene da Parma nella sua Cronaca (XIII secolo), quando descrive frate Giovanni da Ravenna come gran mangiatore di lasagne al formaggio: «Numquam vidi hominem, qui ita libenter lagana cum caseo comederet sicut ipse» [44]. E Boccaccio, come è ampiamente noto, si sofferma a descrivere come una delle attrattive principali dell’utopico Paese di Bengodi la «montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi» [45].

L’uso di spolverizzare il formaggio sulla pasta, mescolato con burro e spezie dolci, è attestato da allora in poi regolarmente nella trattatistica e nella letteratura, nei resoconti cronachistici di banchetti e nelle prescrizioni dei testi di cucina. Maestro Martino lo vuole sui ravioli, sui «maccaroni siciliani», sui vermicelli, sulle lasagne, e anche su minestre liquide come i manfrigoli [46]. Una novella di Celio Malespini, sullo scorcio del XVI secolo, mette in scena un gruppo di gentiluomini veneziani che gustano maccheroni provenienti da Messina conditi «con più di venticinque libbre di cacio Parmigiano, e sei, od otto caciocavalli, e infinite specierie, zucchero, cannella, e tanto burro che vi nuotavano dentro» [47]. Lussi certo non consentiti ai poveri, che si limitavano a proiettarli nel sogno di Bengodi, il paese felice di boccacciana memoria. Molti lo chiamavano Paese di Cuccagna e forse alcuni ci credevano davvero: «Se sono partiti con tute le sue robe et famiglie - racconta il cronista modenese Tommasino de’ Bianchi, a proposito di certi contadini che fuggivano oltre il Po in cerca di lavoro - et sono andati a stare in Lombardia [...] perché dicono che dànno i gnocchi bene informagiati con spetie et butero...» [48].

Burro, spezie (e tra queste, principalmente la cannella), zucchero, formaggio: questo rimase fino all’Ottocento - cioè fino al nuovo fortunato sposalizio con la salsa di pomodoro - il condimento abituale dei piatti di pasta. Ma neppure il pomodoro riuscirà a scalzare completamente il formaggio: il napoletano Ippolito Cavalcanti, che negli anni Trenta del XIX secolo fornisce la prima ricetta di maccheroni al sugo di pomodoro, prevede che questo venga aggiunto in un secondo momento, dopo che i maccheroni, appena scolati, sono stati ben informaggiati: «mescolavi formaggio invecchiato e provolone; e quant’altre sorti di formaggio vi aggiungi in più, più saporiti diventano» [49].

Sul finire del Medioevo, la tradizionale superiorità del formaggio pecorino sul vaccino comincia lentamente a entrare in crisi. «Attualmente - scrive Platina a metà del XV secolo - due sono le varietà di formaggio che si contendono il primato: il marzolino, come lo chiamano i Toscani, che si fa in Toscana nel mese di marzo; e il Parmigiano delle regioni cisalpine, che si può chiamare anche maggengo dal mese di maggio» [50]. Diversità di tempi che nasconde, in effetti, una ben più profonda opposizione - curiosamente non sottolineata dall’autore - tra formaggio di pecora e formaggio di vacca. Proprio la crescente fortuna del Parmigiano è espressione di una cultura che si sta diversificando, di una realtà produttiva che in alcune regioni italiane - «cisalpine» le chiama Platina - sta assumendo tale forza da “contendere il primato” al tradizionale formaggio di pecora. Il dato è generale nell’Europa continentale del tardo Medioevo e della prima Età moderna; in Italia ne saranno protagonisti, a iniziare dal Quattrocento, i prati irrigui della pianura padana e gli alti pascoli delle valli alpine [51].

Il quadro delle specialità regionali pertanto si diversifica e si arricchisce. Nel Cinquecento Ortensio Landi propone una sorta di “itinerario gastronomico per l’Italia” che tocca i «cacicavallucci freschi» di Sorrento, i «ravagiuoli» di Siena, i «marzolini» di Firenze, le ricotte di Pisa, il «cacio piacentino» che ricorda di aver mangiato, a Piacenza, assieme a certe mele dette «calte» e ad un’uva chiamata «diola», per ritrovarsi «consolato come se mangiato avessi d’un perfettissimo fagiano». Tra i formaggi padani è celebrato anche «il cacio di Malengo e della valle del Bitto» e un’ultima citazione riguarda i «cavi di latte» (panna montata) di Venezia [52].

I formaggi vaccini hanno un posto di grande rilievo nella già citata Summa lacticiniorum di Pantaleone di Confienza, il quale, con intenti che oggi definiremmo promozionali, mira soprattutto a esaltare la gastronomia padana e in particolare piemontese-sabauda (i formaggi dell’Italia meridionale e insulare, assai pregiati e ampiamente commercializzati a quel tempo [53], non vengono da lui nemmeno ricordati). Ma il fatto stesso che tale prospettiva sia ora possibile appare significativo della svolta avvenuta nel XV secolo. Come già Platina, Pantaleone individua come migliori formaggi italiani il «marcelinus» ossia «marzolino» o «fiorentino» (così chiamato poiché «terretoriis Florentinorum in Tuscana et Romandiola componitur») e il «piacentino», detto anche «parmigiano» (così senz’altro lo identificava Platina) «quia etiam Parme consimiles fiunt, non multum distantes in bonitate»; anche nelle zone di Milano, di Pavia, di Novara e di Vercelli «da alcuni anni in qua» si è cominciato a produrne. Il primo è fatto col latte di pecora «licet aliqui etiam permiseant de vacino»; il secondo col latte di vacca [54]. Soprattutto quest’ultimo, nei secoli a venire, avrebbe travalicato i confini dell’Italia diventando uno dei punti forti dell’immagine gastronomica del nostro Paese.   

    


1 «Tutti i medici convengono nell’opinione che il latte [...] generi molto sangue - quasi fosse un sangue spremuto dalle mammelle» (B. Platina, Il piacere onesto e la buona salute, a cura di E. Faccioli, Torino, 1985, pp. 49-50). Cfr. P. Camporesi, Il formaggio maledetto, in Id., Le officine dei sensi, Milano, 1985, pp. 47-77, a p. 70.

2 C. Vogel, Symboles cultuels chrétiens. Les aliments sacrés: poisson et refrigeria, in Simboli e simbologia nell’alto Medioevo, Spoleto, 1976, I, pp. 197-252.

3 I. Naso, Formaggi nel Medioevo. La “Summa lacticiniorum” di Pantaleone da Confienza, Torino, Il Segnalibro, 1990, p. 67.

4 Camporesi, Il formaggio maledetto cit., p. 59.

5 Jordanes, Getica, LI, 267. Cfr. M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari, 1993, p. 15.

6 Cfr. M. Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Torino, 1990, pp. 128-152 (Lattofili e lattofobi).

7 Montanari, La fame e l’abbondanza cit., pp. 12-19.

8 Ivi, pp. 223 ss.

9 Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XII, I. Cfr. M. Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma-Bari, 1988, p. 41.

10 Platina, Il piacere onesto e la buona salute cit., p. 50 (anche le citazioni che seguono). Il titolo originale dell’opera, che viene qui citata nella traduzione italiana di Emilio Faccioli, è De honesta voluptate et valetudine. La prima edizione a stampa è forse del 1474.

11 Panthaleonis de Conflentia, Summa lacticiniorum, in I. Naso, Formaggi del Medioevo cit., pp. 122-123 (una traduzione italiana del testo è stata curata da Emilio Faccioli: Pantaleone da Confienza, Trattato dei latticini, Milano 1990). Cfr. P. Camporesi, Certosini e marzolini. L’iter casearium di Pantaleone da Confienza nell’Europa dei latticini, in Id., La miniera del mondo. Artieri inventori impostori, Milano 1990, pp. 89-117.

12 Naso, Formaggi del Medioevo cit., p. 66, per quanto segue.

13 Per l’importanza decisiva delle tecniche di conservazione nei sistemi alimentari tradizionali cfr. Montanari, La fame e l’abbondanza cit., pp. 201-202.  

14 Naso, Formaggi del Medioevo cit., p. 72.  

15 Platina, Il piacere onesto e la buona salute cit., p. 51 (anche le citazioni che seguono).  

16 Ivi.  

17 Regimen Sanitatis Salerni (Flos medicinae), XXXVII, in Medicina medievale, a cura di L. Firpo, Torino, 1971, p. 94.  

18 Una raccolta di proverbi italiani riguardanti le pratiche alimentari è stata fatta da F. Cunsolo, La gastronomia nei proberbi, Milano, 1970.

19 J. L. Flandrin, Condimenti, cucina e dietetica tra XIV e XVI secolo, in Storia dell’alimentazione, a cura di J. L. Flandrin e M. Montanari, Roma-Bari, 1997, pp. 381-395, alle pp. 392-394.

20 Sui controversi rapporti tra Platina e Maestro Martino vedi B. Laurioux, I libri di cucina italiani alla fine del Medioevo: un nuovo bilancio, in «Archivio Storico Italiano», CLIV, 1966, pp. 33-58, a pp. 41 ss.; inoltre C. Benporat, Cucina italiana del Quattrocento, Firenze 1996.

21 Maestro Martino, Libro de arte coquinaria, ed. E. Faccioli, in L’arte della cucina in Italia cit., p. 186.

22 Naso, Formaggi del Medioevo cit., pp. 140-141.

23 Lucio Giunio Moderato Columella, L’arte dell'agricoltura, a cura di C. Carena (con traduzione di R. Calzecchi Onesti), Torino, 1977, p. 498 (VII, 2, 1).

24 Su cui vedi Montanari, Alimentazione e cultura cit., pp. 63 ss.

25 Cfr. Montanari, La fame e l’abbondanza cit., pp. 98-103.

26 L. Moulin, La vita quotidiana dei monaci nel Medioevo, Milano, 1988, p. 70.

27 Montanari, L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, Napoli, 1979, pp. 248-249.

28 Ivi.

29 Naso, Formaggi del Medioevo cit., p. 77.

30 E. Bentivoglio, Le satire et altre rime piacevoli, Venezia, 1557, c. 16r. Cfr. Camporesi, Certosini e marzolini cit., pp. 95-97.

31 Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivanda, Ferrara, 1549. Cito ancora dal volume L’arte della cucina in Italia, p. 290.

32 Sull’argomento vedi M. Montanari, Cucina povera, cucina ricca, in «Quaderni medievali», 52, 2001, pp. 95-105.

33 Platina, Il piacere onesto e la buona salute cit., p. 50. 

34 [Anonimo toscano] Libro della cocina, in L’arte della cucina cit., pp. 58, 59, 60, 61, 64, 65. 

35 Ivi, pp. 62, 64, 65, 66.  

36 Ivi, pp. 66-67.

37 Maestro Martino, Libro de arte coquinaria cit., pp. 175-176. 

38 Ivi, pp. 172 ss.

39 Ivi, p. 187: «Habi de bono caso frescho, et un poco di bon caso vecchio...» (ricetta delle «frictelle de fior de sambuco»).

40 Ivi, p. 192. 

41 Ivi, pp. 193-194.

42 Cfr. Naso, Formaggi del Medioevo cit., pp. 47-48.

43 Ivi, p. 47.

44 Cfr. L. Messedaglia, Leggendo la Cronica di frate Salimbene da Parma. Note per la storia della vita e del costume nel secolo XIII, in «Atti dell’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti», CIII, 2, 1943-44, pp. 351-426, alle pp. 384-385.

45 Decameron, VIII, 3.

46 Maestro Martino, Libro de arte coquinaria cit., pp. 157, 158, 160.

47 C. Malespini, Novelle, a cura di E. Allodoli, Lanciano, 1915, nov. VII, p. 64.

48 Cfr. P. Camporesi, Il pane selvaggio, Bologna, 1980, p. 102.

49 I. Cavalcanti, Cucina teorico-pratica, Napoli, 1839 (prima ed. 1837). Vedi il brano in L’arte della cucina cit., p. 809.

50 Platina, Il piacere onesto e la buona salute cit., p. 51.

51 Cfr. Naso, Formaggi del Medioevo cit., p. 46. In certe zone, come il Parmense e il Ferrarese, furono anche introdotte nuove razze.

52 Vedi il testo del Landi in L’arte della cucina cit., pp. 277-281.

53 Naso, Formaggi del Medioevo cit., pp. 45-46 (e nota 2 a p. 59).  

54 Pantaleone da Confienza, II, 1-2 (in Naso, Formaggi del Medioevo cit., pp. 114-115). A questi due ‘campioni’, la cui eccellenza era da tutti ammessa, Pantaleone ne aggiunge (per evidenti motivi di campanile) un terzo: le robiole delle Langhe, parvi casei di una libbra o poco più, confezionati di norma con latte ovino, anche se alcuni vi aggiungono del latte di vacca o di capra; bona copia di essi si fa nella vicina Lomellina (ivi, II, 3, pp. 115-116).

  

  

©2005 Massimo Montanari; l'articolo è stato pubblicato nel sito Musei del cibo, ed è qui ripresentato con il consenso dell'autore.

  


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