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di FELICE MORETTI

    

    

Nell’attenzione rivolta da qualche decennio agli animali, i medievisti hanno giocato il ruolo principale, e per diverse ragioni; essi hanno infatti contribuito a far cadere le barriere tra settori di indagine che godevano prima di ampia autonomia.

Il nuovo modo di fare ricerca ha permesso l’incrocio di informazioni ricavate da categorie documentarie differenti, di arricchire le problematiche e di avviare contatti con specialisti di altri settori della scienza. Ma la ragione principale di questi contatti la si trova negli stessi documenti medievali particolarmente ricchi di informazioni sull’animale e sulle relazioni con la società degli uomini.

Su qualunque terreno d’indagine si muova, lo storico del Medioevo non può non incontrare l’animale. La diversità dei servizi che esso rende all’uomo è ampiamente nota, tanto che l’occidente medievale, più che qualunque altra epoca della storia, lo ha così intensamente pensato, osservato, richiamato e messo in scena. L’animale è ovunque presente, nella filosofia e nella teologia, nelle scienze e nelle arti, così come nella vita quotidiana del povero villano o del potente sovrano. Esso serve da guida, da compagno e da divertimento, beneficiando di una particolare attenzione perché è sentito più vicino all’uomo delle altre componenti della biocenosi, sia nei suoi aspetti negativi, come incarnazione delle forze del male e sede di impurità, sia in quelli positivi, come anello tra l’uomo e il divino, tra l’uomo e il  soprannaturale.

Segno dell’uno o dell’altro aspetto, l’animale, comunque, occupa un posto privilegiato nel pensiero e nella natura ed esprime l’essenzialità dell’ uomo nelle sue contraddizioni, con la differenza che, mentre per i personaggi umani c’è bisogno di una storia o, perlomeno, della descrizione delle loro persone, atte a caratterizzarli come tipi, con le figure animali, invece,basta solo la menzione del nome della loro specie.Il lupo, la volpe o il leone ci appaiono subito nella loro figura e nella tipicità della loro specie in cui si individuano-senza la necessità della descriptio personae - le qualità morali [1].

D’altronde, l’importanza della produzione epica medievale degli animali, che si protrasse ben oltre i limiti del Medioevo, sta proprio nel fatto che queste figure fanno apparire la natura umana nelle sue costanti qualità e affetti. Ma nelle favole esopiche e nell’epopea degli animali, il cui racconto si sviluppa come satira, ciò che interessa non è la vita degli animali nella natura, ma sono le naturae et mores hominum che vengono scoperte  e che, nello stesso tempo, pongono problemi alla ricezione cristiana di questa eredità classica e quindi all’indottrinamento cristiano dei laici con il predominio dell’allegoria religiosa, anche se questa, in quanto tale, non assicura il riso o il comico. Tuttavia, se prendiamo favole come La scimmia con gli occhiali, La rana e il bue, o la favola contenuta nell’appendix dell’Aesopus di Gualtiero Anglico, il De muribus concilium contra catum [2] e molte altre, ecco che ci sentiamo  disposti a ridere, perché in queste figure animali ci è facile riconoscere gli uomini con tutti i loro difetti.

L’epica, si sa, ha la sua ragion d’essere proprio perché si fonda su azioni e discorsi umani e l’epica sugli animali raggiunse la sua più  matura evoluzione nel XII secolo, traendo linfa dall’antica tradizione favolistica che aveva fatto agire e parlare gli animali come gli uomini. Ma, l’aver posto le favole esopiche al servizio dell’istruzione cristiana, comportò difficoltà che il pio autore della raccolta del Romulus Nilantinus pensò di risolvere attribuendo ad Esopo l’intento cristiano («ostendi vias malorum, confirmavi vias bonorum»), ritenendo di riconoscere in lui la saggezza quando distingue tra gli «humiles atque sapientes» e i «malivolos et insipientes» [3].

Il predomino dell’allegoria religiosa non fu, comunque, mai assoluto e fu interrotto dalla poesia mondana tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, trovandosi a coesistere con un altro genere concorrente come l’exemplum che godeva di ottima reputazione letteraria già nella tradizione antica. Chiari segni di questa evoluzione si colgono già nella prima età carolingia nella quale antichi nuclei favolistici sulla regalità del leone e la sua malattia erano stati rivestiti di elementi narrativi che traevano spunto da rivalità di corte forse della cerchia di Carlo Magno.  Alcuino di York, dotto di questa corte, scrisse un componimento poetico che aveva come protagonisti il gallo e il lupo che, persuaso ad esibire la sua voce melodiosa, aprì la bocca per dar prova della sua bravura e lasciò stupidamente fuggire il gallo [4].

Ma è solo più tardi, nel secolo XI, che la storia contemporanea e i suoi personaggi si inseriscono a pieno titolo nella satira con invettive contro questo o quel prepotente che, con la sua tracotanza, rende difficile la vita dei deboli e degli indifesi. Un chiaro esempio viene offerto da un poeta, originario dell’alta Lorena, che narra di un vitellino fuggito dal suo gregge e finito prigioniero di un lupo. L’Ecbasis cuiusdam captivi per tropologiam [5] è un componimento satirico dell’anonimo poeta lorenese che presenta il Lupo come l’abate di un monastero, avido e prepotente come i suoi vassali Lontra e Riccio.Esso non vuol rappresentare altro che la contraddizione esistente tra il ruolo dell’abate, uomo di Dio e il suo reale comportamento avido e tracotante che si fa gioco dei poteri spirituali di cui è stato investito, fino a quando le fiere dei Vosgi, con la Volpe in qualità di Spiritus rector, liberano il vitellino ed uccidono il Lupo con soddisfazione e divertimento di un pubblico monastico.

Attacchi ad abati, chierici e vescovi delle province ecclesiastiche di Colonia e Reims, presentati anch’essi come lupi, si leggono in un altro componimento epico, scritto nel 1148-1149 col titolo di Ysengrinus da un chierico di Gand dal nome incerto (forse Nivardo o Balduino o Simone) [6]. Caratterizzato da voracità e stoltezza, Ysengrinus deve passare attraverso dodici avventure una più disastrosa dell’altra, per  cadere sempre nelle trappole che gli vengono tese dal suo furbo avversario, la Volpe Reinardo.

Sullo sfondo di queste avventure o disavventure sono la saggezza e la stoltezza a tenere le fila della narrazione; i  protagonisti cambiano in continuazione in un miscuglio di favole e farse animalesche, mettendo in evidenza aspetti ludici, burleschi, folcloristici che fanno da sfondo a realtà più complesse che investono la società vista in chiave critica dalla parte dei poveri. La critica sociale, tuttavia, si tiene lontana dallo stimolare un cristiano amore verso il prossimo, ma si adagia su contingenze materialistiche con attacchi ad abati, chierici e vescovi, presentati come lupi. In questi attacchi irriverenti si manifesta, di conseguenza, anche l’attacco alle istituzioni della Chiesa stessa e ai suoi valori in una abbondanza di casi comici, tanto che «difficilmente nell’alto Medioevo l’opposizione intellettuale si è espressa altrove in modo più raffinato e privo di scrupoli» [7].

La satira che investe dalle fondamenta il chiuso mondo feudale ed ecclesiastico si alimenta e si rafforza con la messa in scena di animali come l’asino, con lo stereotipo della stupidità.  E’ un attacco indiretto contro gli ordini sociali ed ecclesiastici che il monaco Nigello di Canterbury mette in evidenza nel suo Speculum stultorum, composto intorno al 1180, nel quale viene descritto l’asino Brunello che intraprende un lungo viaggio alla volta di Salerno per ottenere una coda più lunga. Nella sua aspirazione è racchiusa l’allegoria del monaco smanioso di assurgere a ruoli più alti nella gerarchia e di ottenere prebende più lucrose fuori dalle mura del monastero in cui è costretto a vivere ed operare.

Brunello, si sa, perde anche la sua corta coda, morsa dai cani dopo essere stato preso in giro dai medici di Salerno. Trasferitosi a Parigi, perde anni inutili in quella Università dove non capisce nulla e ci rimette anche le orecchie tagliate nella stalla dal suo padrone. Qui la satira coinvolge non solo il mondo monastico, ma anche i medici, il clero regolare e tutti quelli che pretendono di sapere [8].

Quella di Brunello, così come altre favole di animali, offrirono un alto contributo alla cultura letteraria medievale e costituirono un patrimonio comune prima che la cultura moderna imparasse a disprezzare la loro saggezza semplice e pratica, a relegare in un angolo Fedro, il testo delle cui favole esopiche fu alla base dell’intera tradizione della narrativa medievale di animali. Lo stesso Quintiliano raccomandava la favolistica esopica come materiale per esercizi scolastici che, nel Medioevo, fu per gli studenti il testo base per la lettura del latino.  Altrettanto importante risultò il ruolo di testo scolastico della raccolta del favolista greco Babrio, che Aviano tradusse in versi elegiaci.

Se la raccolta di Aviano circolò nella forma originale per tutto il Medioevo, pur se sottoposta a tentativi di “ringiovanirne” il testo con riscritture, delle favole di Fedro fu fatta una traduzione in prosa che è nota col titolo di Romulus [9].

   

Favolistica animale ed exemplum

La narrazione della favolistica animale conobbe nel XIII secolo un successo che andava di pari passo con quello della predicazione mendicante, anzi ne fu il midollo spinale nella elaborazione di raccolte di exempla con cui i predicatori riempivano prediche e sermoni. Jean Welter coglieva nella sua importante opera il senso più profondo del loro uso: «I maestri del pensiero di quest’epoca, oratori, mistici, professori, avevano l’abitudine di illustrare e di abbellire i loro insegnamenti con curiosi aneddoti e descrizioni che, nel linguaggio del tempo, venivano chiamati ‘exempla’» [10], il cui carattere ludico e didattico è evidenziato e sfruttato: «Ce qui prouve que l’Eglise est attentive aux “faiblesses” de l’auditoire et sait s’y adapter» [11].

La tradizione della favolistica animale nei sermoni è rappresentata soprattutto dall’opera di Oddone di Cheriton e Giacomo da Vitry.  Oddone compose una raccolta di favole di animali ad uso di manuale per i chierici, pubblicata dall’Hervieux col titolo di Fabulae [12].

Nel Medioevo tutte le persone colte leggevano queste fabulae e gli incolti potevano ascoltarle dalle labbra dei predicatori [13] con i quali si stabiliva una inconscia complicità che coniugava il piacere ludico della favola con la morale da essa generata.  Ognuno poteva riconoscersi in questo o in quell’animale, riflettersi nei caratteri positivi o negativi, subirne una lezione morale e di comportamento perché ricordava l’uomo ed i suoi comportamenti. Le favole di animali, come i proverbi, avevano la funzione di repertorio comune di immagini e formule linguistiche cui attingere nell’elaborazione mentale dell’esperienza quotidiana.

La favola animale non aveva solo la funzione di dilettare, ma anche la libertà di poter dire quello che non si poteva dire o sarebbe stato troppo pericoloso dire, perché «dirlo in parabola o meglio in apologo per bocca di esseri di questa terra ma non umani, colorirlo di un sorriso sapienzale bilicato fra amarezza e bonarietà, fra realismo e speranza, questi sono stati lungo i millenni la funzione e lo spirito della favola esopica: dalle misteriose radici antropologiche e dagli incunaboli asiatici al novellare dello zio Remo per i poveri schiavi negri del secolo scorso e al parlare per allusioni contro le dittature del nostro, fino poi a certe visualizzazioni di Walt Disney» [14].

è fra Duecento e Quattrocento - osserva Vittore Branca- cioè nel momento d’esplosione della civiltà italiana che la favola esopica assume caratterizzazioni particolari che investono non solo il potere secolare e quello della Chiesa, ma la società tutta che fibrilla di mercanti «facitori e sfacitori di Re e di Papi». è il tempo in cui anche i francescani e i domenicani diventano protagonisti di una nuova catechizzazione delle masse e promotori della nuova cultura laica e borghese in volgare, e vittime essi stessi della satira, del sarcasmo, dell’allusione condite dello spirito di Esopo e dei suoi animali. «Proprio allora gli Esopi in volgare –dal Veneto alla Toscana e all’Italia mediana- riflettono vivacemente quelle due realtà sociali dominanti, mercantesca e fratesco-mendicante» [15], e arricchiscono i contenuti della predicazione mendicante che farà degli animali la punta di diamante atta a rivoluzionare, con l’exemplum tratto dal mondo animale, un modus vivendi fino ad allora attanagliato dalla paura dell’inferno e del diavolo.

La tradizione della favola esopica funse da supporto all’exemplum fino a fondersi con essa e a dar vita alla fioritura della predicazione volgare che, col sermo humilis, si impadroniva della piazza e delle masse che vi accorrevano come ad uno spettacolo divertente [16], laddove i fatti di uno erano affari di tutti, laddove i mercanti ragionavano dei loro affari, prima di averli a ragionar con Dio, laddove i diavoli venivano mandati al diavolo.

La messa in scena di animali negli apologhi esemplari, con riferimenti all’attività mercantesca, si carica fra Duecento e Quattrocento di responsabilità nei confronti di quelle categorie di piccoli e grandi imprenditori che dominano il mercato e il mondo economico. è il momento dell’epopea «in nome del guadagno», anche scellerato, quello dell’usura; ad esso deve necessariamente affiancarsi il momento dell’epopea «in nome di Dio». Il soccorso giunge con gli apologhi esemplari come quello del nibbio che poiché «menò la sua vita nel mondo con sciellerate operazioni, assalito di grave infermità, quasi in caso di morte, pregava piatosamente la madre… temendo di ricievere gravissime pene… E dicieva facesse limosine e faciesse  dire messe e altre orazioni a spirituali persone, acciò che la sua peccatrice anima trovasse misericordia dopo alla sua morte» [17]. Questa moralità pratica che prorompe dalla predicazione popolaresca in volgare dei frati mendicanti, con riferimenti alla vita mercantesca, è fitta nei sermoni ed esempi di Giordano da Pisa, di Jacopo Passavanti, di Bernardino da Siena.  Il loro linguaggio, così lontano dalle cervellotiche sequenze bibliche e scolastiche, si caratterizza in modo originale, con una forza comunicativa immediata, scaturita dalla forma dialogata e sceneggiata delle favole esopiche in cui gli animali vestono spesso gli abiti frateschi e agiscono e parlano come religiosi degli ordini mendicanti. Così uno scrittore dell’ambiente domenicano rivela le lodi «al savio conoscimento di madonna la rondine… dell’ ordine de’ frati predicatori (e loro abito porta)», contro la faziosità del «corbo che è frata agostino» e dell’«avoltore che porta abito de’ frati minori» [18].

è comunque e soprattutto la società mercantesca ed i suoi rappresentanti ad essere oggetto di bersaglio del sarcasmo e della satira animalesca fino a rappresentazioni umoristiche. Così l’asino è associato al presuntuoso trafficante che vuol imitare il «nobile mercatante» allo stesso modo con cui pretende con i suoi vezzi pesanti di imitare il grazioso cagnolino; i lupi, che tentano di ingannare con vanterie, sono «li falsi mercatanti» i quali adornano la loro persona di belli vestimenti e parlano alte parole e di grandi traffici di mercatantia e di lealtà, e adornano i loro fondachi e botteghe con false e aparenti mercatantie, acciò che in tale maniera possino ingannare i semplici» [19]. Ma il lupo, l’asino, il pavone e la ranocchia,che calcano la scena, non sono solo simboli astratti di vizi o virtù , ma uomini del loro tempo, personaggi con i loro odi, i loro amori e le loro passioni, che trafficano e commerciano, che comunicano e trasformano l’apologo in novella.

Per il successo della favola non fu determinante solo il volgare [20], ma anche la diversificazione del catalogo fedriano un po’ stereotipato. Per cui il lupo non è sempre crudele e avido, l’asino non sempre stupido, la scimmia non è caratterizzata sempre nella sua malignità e adulazione.  I requisiti biologici e naturali degli animali subiscono mutazioni quando assumono ruoli diversi da quelli fissati dalla biologia naturale con conseguenti atteggiamenti ed azioni del tutto nuovi e rivoluzionari rispetto allo stereotipo. E’ naturale, pertanto, che questi capovolgimenti fanno agire gli animali in modo del tutto innaturale provocando il lettore al piacere e al divertimento, soprattutto quando le loro azioni si svolgono sul palcoscenico della quotidiana umanità e moralità.  E’ la morale quindi che prende il sopravvento sulla favola vera e propria, mentre la figura del favolista sbiadisce e si immiserisce sempre più [21]. Da questa realtà animale capovolta prende consistenza e si realizza compiutamente nella letteratura e nelle arti figurative il tema del mondo alla rovescia [22]. Per cui, gli uccelli si riuniscono in «consiglio e parlamento»; lo sparviere non usa «mangiare in terra senza tovaglia a modo di poltrone»; il leone disperato «dandosi delle mani nel petto e nella faccia, gitta via il cappuccio e’ guanti»; la battaglia fra animali e uccelli si svolge come fra «guelfi e ghibellini» [23].

     

I processi agli animali fra feste e giochi

La visione letteraria del mondo animale è solo uno degli aspetti caratterizzanti il rapporto tra quel mondo e l’uomo che, dell’animale, ne fa uso e consumo a suo piacimento, a secondo dell’estro poetico o letterario. è come se l’uomo si ingegnasse a plasmare l’animale conferendogli in modo arbitrario connotazioni che nulla hanno a che fare con la sua natura o, al limite, ad eliminarlo perché possa essere lui e solo lui al centro dell’universo; ma anche come se, al tempo stesso, egli restasse affascinato dal regno animale al quale appartiene e in cui si ritrova volente o nolente. Allora, i rapporti si fanno molteplici, complessi e ambigui dal momento che la vita animale viene necessariamente rappresentata in termini di relazioni sociali simili a quelle della società umana.  Per cui è spesso molto difficile per l’uomo distinguersi totalmente dall’animale che egli antropormofizza attribuendogli ruoli e responsabilità nell’economia umana. Qui voglio riferirmi ai reali processi giudiziari e successive condanne a morte agli animali colpevoli di certi tipi di reato, ben documentati e conservati negli archivi giudiziari della fine del Medioevo in Francia. Michel Pastoureau , infatti, ha descritto il reale processo ad una scrofa di circa tre anni in un paese della Normandia agli inizi del 1386 [24]. L’animale, sul cui corpo fu infilato un abito da uomo, fu trascinato da una giumenta nella piazza di un castello dov’era stata allestita una impalcatura sulla quale la povera bestia fu mutilata nelle cosce e nel grugno dal macellaio-boia. All’esecuzione della scrofa delinquente, che ha diritto di essere iscritta come attività giocosa in quanto catalogabile ad una festa, assisteva una folla eterogenea di abitanti del villaggio e di paesani della campagna circostante accorsi per godersi lo spettacolo, così come si divertivano a Roma i popolani durante le feste del Testaccio con le corse dei porci attaccati .Vi era anche il viceconte di Falaise in veste di giudice reale del processo. Dopo la mutilazione, la scrofa fu imbacuccata con una specie di maschera dalla figura umana e appesa a testa in giù ad una forca. Lì fu lasciata morire. Lo spettacolo continuò con la simulazione dello strozzamento della bestia. Alla fine, trascinata su un graticcio in piazza, percorsa più volte dalla giumenta, i resti dell’animale furono bruciati su un rogo. A ricordo di quella esecuzione e su istanza del viceconte di Falaise, fu eseguita una grande pittura sul muro  della chiesa della Santa Trinità, laddove era possibile ancora vederla fino agli inizi del secolo XIX, come una delle testimonianze, assieme ai margini miniati dei codici, delle origini del fumetto [25], la cui narrazione figurativa per scene successive si diffonde attorno all’anno mille, anche se può vantare ascendenze nell’antico Egitto, dove sui papiri fanno scena, in sequenze fumettistiche, giochi di animali.

è importante notare  come nel processo alla scrofa e nella relativa condanna a morte ricorrano momenti ed elementi in stretta associazione con la sfera ludica, a cominciare dal travestimento forzato della bestia in sembianze umane.  Il tutto dà luogo ad un gioco carnacialesco in cui sono ravvisabili tutti gli ingredienti del divertimento, del riso e del gioco.

Qui ci troviamo di fronte ad uno sfogo psichico dell’immaginario collettivo radicato nella quotidianeità, che emerge nel contesto realistico del momento processuale che, si badi, non viene vissuto dalla collettività come un evento imprevisto ed incosciente, ma come momento naturale e necessario, benché sorprendente, della vita quotidiana [26], come scarico di pulsioni di violenza che coinvolge tutti in una serie di riti di passaggio.

«La vita medievale – scrive Joan Huizinga – è piena di gioco, di vivace, brioso gioco popolare, pieno di elementi pagani che hanno perduto il loro senso sacrale e si sono convertiti in puro scherzo; di pomposo e maestoso gioco cavalleresco; del gioco raffinato dell’amore cortese, e ancora di molte altre forme di gioco» [27]. La disposizione ludica ha grandissima influenza sullo spirito medievale anche in campi ed attività non strettamente imparentati col gioco come nell’amministrazione e nell’esecuzione della giustizia con tutto il suo strano rituale adottato come, ad esempio, nei processi agli animali. Nel processo alla scrofa, e nella successiva condanna a morte, gli uomini, impegnati in un gioco cosciente di morte ad addobbare la bestia, sentono tutta la responsabilità del loro ruolo destinato, in nome della coscienza collettiva, ad eseguire la sentenza di morte nel tripudio generale. Nessun riferimento al dolore traspare dagli atti del processo. Eppure la scrofa incapace di commettere azioni malvagie perché priva di anima razionale e quindi di libero arbitrio come tutti gli animali, si è resa colpevole agli occhi della giustizia della morte di un bambino di tre anni lasciato incustodito nella culla. Né per questo è stato adottato alcun provvedimento nei confronti del padre, il vero colpevole per mancata sorveglianza. L’attenzione è tutta per il giudice, per il procuratore che ha difeso la scrofa e per il rituale carnacialesco che, fra gioco e tripudio ha portato la bestia al patibolo.

Processi ed esecuzioni di tal genere si sono susseguiti in Francia dal 1266 fino al 1586 e, a secondo degli animali e alle loro colpe, la competenza al giudizio poteva essere di pertinenza dell’autorità giudiziaria laica od ecclesiastica. La Chiesa interveniva nei processi contro la stregoneria, contro gli animali della sua corte e contro i crimini di bestialità. Nei confronti degli insetti o degli animali di piccola taglia che devastavano i raccolti, la Chiesa faceva ricorso all’esorcismo e all’anatema con un rituale di “giochi” raccapriccianti [28]. Il processo criminale poteva aver luogo anche in assenza della bestia che, qualora non catturabile o non identificabile, veniva sostituita con un’altra della stessa specie che, imprigionata e giudicata, veniva poi condannata in piazza, ma non giustiziata.  Al suo posto, sulla forca, veniva impiccato un manichino a sua immagine e somiglianza, con la partecipazione giocosa del popolo.

Estrema importanza assume la testimonianza di Giordano da Pisa sul processo e condanna a morte degli animali, perché, ragione vuole, che qualora un leone o un lupo uccida un uomo, non pecca e, pertanto, non è passibile della pena di morte; le loro azioni non sono determinate dalla volontà, ma dalla natura. In Francia, invece, si impiccano i lupi quando uccidono una persona. Tale condanna serve come ammonizione per gli uomini che si macchiano di delitti orrendi [29].

    

Il gioco degli animali nelle fonti medievali

Il rapporto fra gli uomini e gli animali è un rapporto primordiale, che ha condizionato e caratterizzato tutta la storia dell’umanità a partire da Noè e la sua arca, ma che nel corso dei secoli si è anche profondamente modificato, trasformato nei contraddittori aspetti dell’età tecnologica che, oltre a sostituire mezzi meccanici agli animali, fa strage di essi.  A questo punto, viene spontaneo un altro confronto più duro e più atroce: quello stabilito da Canetti, da Adorno, da Levi, da Isaac B. Singer che, sopravissuto ai campi di concentramento, ebbe a scrivere in Nemici di non sopportare più di mangiare carne: «Lo stesso Dio mangia la carne, la carne degli uomini.  Se tu avessi visto quello che ho visto io, avresti capito che a Dio piacciono i mattatoi… Quello che i nazisti hanno fatto agli Ebrei, l’uomo lo fa tutti i giorni agli animali». Ciononostante, il rapporto resta strettissimo, soprattutto quando si parla di Medioevo, di un mondo cioè «in cui l’animale alimento, energia, difesa, materiale, compagno, svago, entra in ogni piega, in ogni risvolto di ogni giornata. Entra, vorrei dire, dovunque» [30], anche con la forza del simbolo, come insegna del potere di imperatori e sovrani che si muovevano, come Federico II, con tutto il serraglio, della cui collezione è ancora oggi memoria nelle pagine di cronisti come Salimbene da Parma o Matteo Paris [31].

Come insegna del potere, come svago e come interlocutore dell’imperatore troviamo un pappagallo, che, ospite fisso alla corte di Costantinopoli, nell’886, durante un banchetto,amava ripetere: «Ahi, ahi, Leone signore» [32].

Come il pappagallo interloquisce senza essere interpellato, mettendosi in confidenza con l’imperatore con una espressione giocosa che sa dove andare a parare, anche altri animali cercano il gioco senza essere invitati e senza che nessuno abbia insegnato loro a giocare. «Il gioco – osserva Huizinga – è più antico della cultura, perché il concetto di cultura, per quanto possa essere definito insufficientemente, presuppone in ogni modo convivenza umana, e gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a giocare. Gli animali giocano proprio come gli uomini; tutte le caratteristiche fondamentali del gioco sono realizzate in quello degli animali» [33]. Anche in quello degli insetti. Ne dà testimonianza Notkero Balbulo quando racconta di un ragno appeso ad un filo che gioca a punzecchiare il chierico proprio quando sta recitando l’ufficio divino in presenza di Carlo Magno che sembra divertirsi [34]; o quando la donnola, in preda all’eccitazione del gioco, cade nel liquido da bere o finisce nella farina [35].

Gli animali, dunque, sanno giocare, ma sono essi a scegliere come giocare, con chi giocare, quando giocare: perciò sono già qualche cosa di più che meccanismi e, pertanto, è il loro istinto che li dirige ad impadronirsi del gioco e ad operare tipi di selezione ludica, pur se il più delle volte, più che protagonisti del gioco, sono vittime dello stesso. Il gioco infatti è tale quando presuppone la partecipazione raziocinante o istintintuale dei soggetti che vi prendono parte; in caso contrario, esso entrerebbe a far parte di un autocompiacimento ludico spesso carico di gratuito sadismo che non ha nulla a che spartire né col comico, né col riso, anche se il comico e il riso hanno in sé un rapporto di natura secondaria col gioco.

Quale partecipazione ludica può esercitare, ad esempio, il gioco di quel fanciullo che – come racconta Eadmero di Canterbury si divertiva a tormentare un uccellino alla cui zampa aveva legato un filo che allentava e ritirava a suo piacimento?. In quel gioco ci sono tutti gli elementi di un autocompiacimento sadico nei confronti del povero animale a cui viene concesso la libertà del volo in un tempo e in uno spazio ristretti, commisurati dalla lunghezza del filo legato alla zampa, che viene allentato e poi subito ritirato. Solo l’intervento provvidenziale di un monaco che spezza il filo  e libera al volo l’uccello, conferisce alla scena uno spazio di gioco serio e necessario alla funzione di lezione morale perché «allo stesso modo e con mezzi simili il diavolo gioca con gli uomini che, impigliati nei suo lacci, li trascina al peccato» [36].

Anche il gioco fra animali e uomini o fra animali e animali diventa quindi occasione di ammaestramenti morali. Le strade del catechismo della paura e della persuasione possono essere le più disparate. Eadmero di Canterbury ci racconta ancora di una lepre che, inseguita dai cani, trovò rifugio fra le zampe di un cavallo montato da un monaco. La scena provocò ilarità fra i soldati lì presenti che videro nella fuga ed inseguimento degli animali un non so che di comico e di giocoso. Ma il pio monaco commosso, piangendo disse loro: «Ridete pure! La povera bestiola non ha invece motivo di ridere né di essere lieta se , inseguita com’è da ogni parte, ha trovato rifugio presso di me, chiedendo a modo suo di essere aiutata. Questo suo modo di comportarsi è del tutto simile a quello dell’uomo quando è in punto di morte. Infatti, nel momento in cui l’anima abbandona il corpo, allora i suoi nemici, vale a dire gli spiriti maligni, si fanno improvvisamente e minacciosamente avanti»[37].

In un esempio di Giordano da Pisa si legge della volpe e dell’usignolo il cui canto melodioso sedusse a tal punto la volpe da tesserne le lodi.  Il piccolo uccello, sentitosi lodare, di ramo in ramo discese dall’albero fino a trovarsi a tiro di zampa della volpe che l’azzannò portandoselo in bocca.

Ma la preda si rivelò inappetibile in quanto priva di carne e ricca solo di piume. Credendo di essere stata beffata, la volpe disse: «Hai visto come m’ingannavo sul conto dell’usignolo, credendolo bene in carne! Hai visto che gran cosa sembrava all’apparenza, e non è altro invece che solo piume! Altrettanto avviene di quanti si preoccupano solo dei beni terreni che, stringi stringi, non sono altro che piume»[38].

Tra questa favola e l’insegnamento morale che ne consegue v’è spazio sufficiente al momento ludico che si coglie nella discesa di ramo in ramo dell’usignolo e nell’attesa, a pie’ dell’albero, della volpe pronta ad uncinarlo e a stringerlo in bocca. è in quel gesto che si consuma il momento più alto del gioco fino a stemperarsi nella più cocente delusione.

Accanto a queste occasioni ludiche nel mondo animale, se ne possono cogliere, in gran quantità, altre con o senza intenti didascalici pur se inseriti in contesti agiografici.

Tommaso di Cantimpré, sulla base delle sue conoscenze naturalistiche, compose nella seconda metà del XIII secolo il Bonum universale de apibus, una delle prime raccolte di exempla del Medioevo, destinata ai suoi confratelli domenicani. In questa opera il simbolismo medievale sulle api e la loro organizzazione raggiunge l’espressione più sistematica e complessa; ne esalta le proprietà e ne celebra l’elogio [39], come a voler tracciare un programma di vita religiosa e spirituale, riflettente l’ideale religioso domenicano.

Le proprietà delle api descritte nell’opera sono sviluppate in senso didattico e morale così come le leggiamo nella laus apium dell’Exultet di Bari dell’ area beneventana, e nella tradizione dell’Exultet franco-romano con sottili venature virgiliane [40].

Dalla Historia naturalis di Plinio,Tommaso di Cantimpré riprende, nel secondo libro del Bonum universale de apibus, 26 delle 58 proprietà proposte: tra queste, la caccia ai calabroni oziosi. Dall’Hexaemeron di Ambrogio riprende la proprietà relativa al volo delle api che sciamano sui fiori per assaporarne gli odori [41]. Altre proprietà delle api non sono rintracciabili in fonti letterarie di autori antichi, anche se un piccolo gruppo pare che tragga la sua origine da un exemplum del Bonum universale, quello cioè relativo al canto delle api attorno ad un’ostia [42].

Il canto, quindi, il volo alla ricerca dei fiori, la caccia ai calabroni fanno parte della natura giocosa delle api: tutte proprietà evidenziate da Tommaso di Cantimpré nel IX libro del suo Liber de natura rerum,laddove nella descrizione della quarantaseiesima proprietà, fa esplicito riferimento al ludus alacris iuventutis delle api [43] che richiama la bella immagine ludica di Virgilio: «Ma quando incerti volano e pel cielo scherzano sciami trascurando i favi e freddo il tetto abbandonando, a’ vaghi umori vieterai l’ inutil gioco» [44]. E qui il gioco – secondo l’ intuizione di Huizinga – si fa elemento creatore della cultura. Si fa arte. Si fa poesia,che abbiamo imparato a cogliere anche nelle similitudini del poema epico: nei versi, ad esempio, delle Argonautiche di Apollonio Rodio quando fa danzare e giocare i delfini attorno ad una nave che avanza e «ora si mostrano davanti, ora di dietro, ora di fianco, motivo di gioia per i marinai»; o nell’ Achilleide di Stazio, là dove le colombe in volo si fanno compagno un uccello forestiero e «fra gli applausi gioiose lo circondano e nei loro alti nidi lo conducono» [45].

      

Dalla poesia al riso

La storiella narrata, invece, da Jacopo da Varazze ha come protagonisti Maometto e la colomba. Questa era stata allevata da un chierico della curia romana che, deluso da speranze di carriera, sentendosi tradito, si portò oltremare dove, accolto da Maometto, gli promise di metterlo a capo del suo popolo.  In questo suo proposito si servì dell’aiuto di una colomba che era stata addestrata ad un insolito gioco: quello cioè di posarsi sulle spalle di Maometto e di depositare briciole di grano nelle sue orecchie per poi riprenderle con il suo becco al momento segnalato. Perciò, il chierico, chiamato a raduno il popolo, gli promise che avrebbe avuto come capo colui che lo Spirito Santo, disceso in terra sotto forma di colomba, avrebbe indicato. Lasciata pertanto libera la colomba addestrata, questa si posò sulla spalla di Maometto inserendo il becco nel suo orecchio. Il popolo ebbe prova della discesa dello Spirito Santo «e a tal modo Macometo ingannò li Saraceni, li quali, accostati a’llui, acquistorno el regno di Persia e tutte le parte dell’orientale impero, insino all’Alexandria» [46].

Il richiamo comico della storiella costituisce uno degli elementi di un materiale abbastanza ampio non solo per le numerose occasioni di edificazione ,ma anche per una straordinaria pluralità di lettura e di utilizzabilità della Legenda Aurea.

Altro indirizzo e altro spessore è stato dato invece al comico e al gioco animale da Salimbene da Parma. La sua Cronica, in cui rivive lo spirito della nuova civiltà italiana, pur infarcita di trattatelli religiosi e citazioni bibliche, ha un contenuto mondano, pieno di scandali e di aneddoti, di storielle che Salimbene presenta come exempla,dove gli animali, quando vi compaiono, non sono modelli di comportamento o di virtù. Si prenda, ad esempio, la graziosa e gustosa scenetta del corvo parlante di Gregorio di Monte Longo,che si diverte a prendere in giro i pellegrini svegliandoli nottetempo per sollecitarli a correre in riva al Po per attendere lì, invano, di imbarcarsi per le destinazioni volute; o quando lo stesso corvo si prende gioco di un povero mendicante cieco a cui tortura con il becco il calcagno e le tibie ogni qualvolta lo vede mendicare a piedi nudi in riva al Po.  Il gioco crudele dura fino al giorno in cui il mendicante cieco, scocciato, assesta al corvo giocherellone un bel colpo di bastone, fracassandogli l’ala [47]. Qui  il gioco non vuole altri protagonisti compartecipi, siano essi uomini o individui di altre specie animali. L’immagine del corvo la  ritroviamo, ma con funzioni totalmente diverse, nei sermoni e negli exempla di predicatori eccellenti come S. Antonio di Padova, Etienne de Bourbon, Luca da Bitonto e, più tardi, in quelli di S. Bernardino da Siena e Bernardino da Feltre. Il suo verso, simbolo di un pericoloso rinvio del momento del pentimento e della penitenza, perché associato al latino cras (domani), si prestò ad un gioco linguistico nelle prediche di S. Bernardino.

Il riferimento di questi e altri predicatori ad opere di autori altomedievali davano nuovo vigore ai loro sermoni che attingevano spesso dalle Vite dei santi e dai Padri cristiani nei cui  racconti di miracoli spira spesso un innegabile elemento ludico.

Nella vita Colmani si legge, ad esempio, che il santo aveva al suo servizio tre animali: un gallo, un topo ed una mosca.  Il gallo svegliava col suo canto Colmano nell’ora in cui era solito recitare l’ufficio; il topo gli mordicchiava l’orecchio per sollecitarlo ad alzarsi; la mosca si posava sulla pagina del libro per rimanervi fino al ritorno del santo.

Confidenza, familiarità e complicità di ruoli danno della scena uno schema folclorico in cui il gioco fra Colmano e i suoi tre piccoli amici acquista una certa rilevanza dovuta, in particolare, da quel mordicchiare l’orecchio, che manifesta una sorta di comunione gioiosa e giocosa fra l’uomo e il mondo animale tutto. Uno degli esempi più vistosi di questo rapporto nell’agiografia altomedievale lo troviamo nella vita Columbani laddove si legge che il santo quando si ritirava nel suo eremo per dedicarsi al digiuno, era solito chiamare le fiere, le bestie e gli uccelli che immediatamente accorrevano al suo comando e che egli accarezzava con dolci movimenti della mano, cosicché le fiere e gli uccelli esultavano con letizia e gioia grandi, come quando i cagnolini si strofinano al loro padrone. (Chagnoaldus) affermava ancora che lo aveva visto spesso far venire dalle cime degli alberi quell’animaletto chiamato scoiattolo (exquirius) e che, prendendolo in mano, lo faceva salire sulle spalle, lasciandolo entrare ed uscire dalla sua manica [48].

Tali atteggiamenti e rapporti, che precorrono quelli francescani, sono da considerarsi del tutto leggendari, redatti fra X e XI secolo, per personaggi del V e VI secolo, altrimenti biograficamente sconosciuti; tuttavia di estrema importanza sia per originalità narrativa, ludica e didattica, sia perché affermano chiaramente un principio universale di rispetto che si manifesta  verso tutto il mondo animale.

Di originalità ludica si può infatti parlare quando si prende in esame la favola riportata dal giudeo convertito aragonese Pietro d’Alfonso vissuto nel XII secolo. Egli racconta di un uccellino che, posato su un albero, cantava piacevolmente. Un tale che stanco lì riposava, sentito quella dolce melodia catturò l’uccellino con un laccio. «Per quale motivo – disse ti sei affaticato per catturarmi? E che cosa speri di ottenere con la mia cattura?”. Il mio solo desiderio – rispose l’uomo – è quello di sentire i tuoi canti”. L’uccellino allora: “per nessun motivo io canterò, per nessuna preghiera e a nessun prezzo”.  E quello:”Se tu non canterai, io ti mangerò”. Rispose l’uccello: “E in che maniera tu mi mangerai? Se mi mangerai cotto nell’acqua, a che ti gioverà un uccello così piccolo? E per di più, la carne sarà aspra. Se mi arrostirai, diventerò ancora più piccolo; ma se tu mi lascerai andare ci guadagnerai molto”. “In che modo?” rispose l’uomo. “Io, disse l’uccellino, ti darò tre buoni consigli che valgono un prezzo di gran lunga superiore a quello delle carni di tre vitelli”. Quegli allora, fiducioso della promessa, lasciò andare l’uccellino che, ormai libero, disse: “La prima promessa è di non credere a tutto ciò che si dice; la seconda, sii certo di quello che sarà tuo; la terza, non lamentarti di quello che hai perso. Dopo aver così parlato, l’uccellino volò sull’albero e con dolce canto così iniziò: “Benedetto il Signore che ha reso inaccessibile la vista dei tuoi occhi e ti ha privato del senno, perché se tu avessi indagato nelle pieghe delle mie viscere, avresti trovato una pietra preziosa del peso di un’oncia”. A queste parole, quel tale cominciò a piangere percuotendosi il petto con le mani perché si era fidato delle parole dell’uccellino, che gli disse : “Hai subito dimenticato il senso delle parole che io ti dissi. Non ti ho forse detto di non credere a tutto quello che ti dicono?  Come fai a pensare che in me ci sia una pietra preziosa del peso di un’oncia se io tutta intera non peso tanto?. E non ti ho forse detto di non addolorarti delle cose perdute? Per quale motivo te la prendi per la pietra preziosa che è in me? Detto ciò, volò via dal contadino deriso, verso gli uccelli del bosco» [49].

La ludicità di questa favola che si configura ora come exemplum, ora come storiella da narrare per il semplice diletto dello scrittore e del lettore, ora come apologo di stampo moralistico, sta tutta nel rapporto dialogico fra l’uccellino e il contadino. Tutta la pagina è di oggettiva bellezza letteraria e si inserisce nel tema più vistoso e più caro a tutti gli zoofili, dell’animale catturato o braccato dai cacciatori . La differenza  in questa favola sta nel ribaltamento dei ruoli. Qui non è più il santo che salva l’uccellino, (tema molto caro all’agiografia altomedievale), ma è lo stesso uccellino che in un astuto gioco di parole e fidando solo nelle sue forze, salva se stesso gabbando il contadino: «Quomodo credis quod in me sit hjacinctus qui sit ponderis unius unciae, cum ego tota non sum tanti ponderis?». Qui, l’aspetto ludico diventa protagonista fra le più pedestri norme di buon senso e massime di vita utilitarie, la moneta spicciola della cosiddetta  saggezza popolare ridotta a proverbio che noi ritroviamo in La Fontaine , dotato di fine intuito psicologico, indagatore esperto dell’individuo.

Cinquecento anni prima di La Fontaine, Pietro d’Alfonso si diverte ai tiri matricolati della volpe, quella furbina, che riesce a trarsi d’ impaccio lasciando il lupo, più tardo di lei d’intelligenza, in un bel guaio in cui l’ha cacciato la sua avidità di mangiare quel bel formaggio che era invece la luna. Pietro d’Alfonso racconta di un aratore che, spazientito dalla indolenza dei buoi, imprecò contro di essi perché il lupo li divorasse (Lupi vos comedant). Un lupo, che bazzicava nelle vicinanze, avvicinatosi all’aratore, pretese la consegna dei buoi promessi. Al suo rifiuto, giustificato dal fatto che le imprecazioni  non erano state sancite da un giuramento, si addivenne alla fine di andare in giudizio. Strada facendo, incontrarono una volpe alla quale, riferito il fatto,  non ritenne in alcun modo giustificato il ricorso in giudizio. Pretese, anzi, di risolvere la questione con un accordo a cui aderirono sia l’aratore che il lupo. Dal primo, però, pretese ed ottenne una gallina per sé e l’altra per sua moglie; all’altro promise che in caso di rinuncia al suo diritto sui buoi e alla conseguente consegna di essi all’aratore,  avrebbe avuto in cambio una pezza di formaggio grande quanto uno scudo. Il lupo fu d’accordo. I buoi furono restituiti all’aratore e quello seguì la volpe in un luogo dove, essa riferì, era possibile scegliere pezze di formaggio di qualunque grandezza. Il lupo e la volpe fecero assieme molta strada fino a giungere, a notte inoltrata, vicino ad un pozzo profondo nella cui profondità si rifletteva nell’acqua l’immagine della luna quasi piena. Il lupo fu invitato dalla volpe a scendere nel pozzo: “Questo è il formaggio che ti ho promesso, scendi e mangiane a piacimento”. “Scendi prima tu”ripose il lupo.” E se da sola non potrai portarlo su, io ti aiuterò da qui”. All’imboccatura del pozzo vi era una corda alle cui estremità erano appesi due orcioli in uno dei quali entrò la volpe che si lasciò portare nel fondo, mentre il lupo, affacciato all’ imboccatura, le chiedeva perché mai tardasse a risalire con il formaggio. “Non posso - rispose la volpe - perché il peso e la grandezza non me lo consentono;entra tu invece nell’altro orciolo e vieni giù come mi hai promesso”. Il lupo allora, entrato nell’orciolo, raggiunse subito il fondo per il suo peso eccessivo, mentre la volpe, che era più leggera, guadagnò subito l’imboccatura del pozzo, abbandonando l’altro nel fondo, che così fu privato e dei buoi e del formaggio [50].

Gli attori che recitano la loro parte in questo grande gioco scenico non sono solo personaggi come il lupo, la volpe e l’aratore. Altri elementi, e non di importanza secondaria, contribuiscono a rendere viva, dinamica e giocosa tutta la scena: le movenze, gli atteggiamenti, le abitudini caratteristiche dei soggetti animali,  colte alla perfezione e combinate ad aspetti della natura e a quelli materiali: alla luna che si riflette a forma di grande cacio nel fondo del pozzo, alla corda e ai due orcioli che salgono e scendono dal pozzo in un gioco di vita e di morte: «…cui super puteum stanti formam lunae semiplenae in ima putei radiantis ostendit et inquit:Hic est caseus quem tibi promisi, descende si placet, et comede…Et hoc dicto viderunt cordam pendentem in puteo in cuius caput erat urceola ligata et in alio capite cordae altera urceola, et pendebant tali ingenio quod una surgente altera descendebat…».

Mi piace ribadire con l’Ortalli che nel mondo animale dell’alto o basso Medioevo ciò che vale sempre è la continuità e la normalità del rapporto con l’uomo. Accanto ai confronti e agli scontri ci sono anche legami e vincoli strettissimi, talvolta impensabili: momenti confidenziali che spesso nell’animale assumono ruoli inusuali come, ad esempio, quello di punto di riferimento climatico.

In Pietro d’Alfonso si legge di un servo, Maimondo che, in preda alla pigrizia più sfrenata, scocciato dall’ordine del suo padrone, non volle scomodarsi dal suo letto e andare alla porta per vedere se pioveva o meno. Chiamò allora a sé il cane che faceva la guardia fuori dalla porta, gli palpò le zampe, e trovandole asciutte, gridò al suo padrone: «Signore, non piove». Ancora una volta il padrone chiamò di notte il suo servo perché controllasse se la casa andasse a fuoco. Quegli, allora, chiamato accanto a sé il gatto, lo accarezzò per rendersi conto se il suo pelo fosse caldo o meno. Trovandolo freddo, rispose: «No» [51]. è pur vero che qui ci troviamo in un contesto favolistico, ciò tuttavia non esclude che le giocose scenette su riferite non corrispondessero alla realtà di una vita ordinaria, fatta di confidenza con la natura animale: con il cane qui jacebat extra januam e a cui il servo palpavit pedes eius; con il gatto, quando lo stesso servo, vocato murilego, temptavit si calidus esset an non et, cum invenisset eum frigidum ait: non.

      

Giochi di bestialità

Vi sono giochi e giochi. Se quelli sopra descritti sono, tutto sommato, ingenui, ve ne sono altri di ben diversa natura. Sono quei giochi di bestialità intrattenuti con animali a portata di mano di ampie fasce sociali dagli infimi gradini: il cavallo, la pecora, il cane, il bue, il somaro, il gatto, l’oca, con i quali si sbizzarriva la fantasia sessuale. Sappiamo come poi la scure dei repressivi precetti ecclesiastici, che noi conosciamo dalla lettura delle disposizioni dei Penitenziali di Beda, di Egberto, di Burcardo di Worms, di Teodoro e di altri, si sia abbattuta su tali tipi di crimini giocosi. è la stessa terminologia dei Penitenziali a chiamare in causa l’animale nella distinzione del tipo di coito: quello anale(terga o in tergo) e quello retro-vaginale, che si praticano « quomodo de animalibus». Il testo di Burcardo non lascia dubbi ad interpretazioni: «Concubisti cum uxore tua vel cum alia aliqua retro, canino more?» [52].

Così, al vizio individuato nella naturale posizione animale (quomodo de animalibus) viene poi chiamato in causa il cane, la cui lussuria si manifesta nei modi più curiosi. Già la tradizione antica, greca ed ebraica faceva espliciti riferimenti ai rischi della convivenza delle donne con i cani, specie se vedove e se disponibili all’adulterio. Né era ritenuto eccezionale - come ricorda Eliano nel De natura animalium - il processo di adulterio nel quale un cane era stato citato in giudizio [53].

Tali processi e relative esecuzioni capitali - come detto in precedenza - non sono da ritenersi inverosimili se, a distanza di secoli, in piena età moderna, un documento del 1682 ci riporta le fasi di un processo contro una donna ed il suo cane accusati di bestialità e impiccati assieme a Tyburn.

Ciò che caratterizza i libri penitenziali è la grande diversità di animali che compaiono per questo tipo di trastulli [54] e la durezza delle pene comminate. «Qualora il diavolo dovesse indurre qualcuno al coito con bestie-scrive Egberto - questi, dopo la confessione, dovrà digiunare per quindici anni a pane ed acqua e per tre quaresime consecutive: una, prima di Pasqua, l’altra, dopo Pentecoste, e la terza prima di Natale. Inoltre, dovrà digiunare nei giorni di mercoledì e venerdì per tutto il tempo che vivrà [55].

Il Penitenziale di Egberto non contempla solo questo tipo di pene applicate a vizi di giocosità bestiale, ma vieta anche l’esercizio della caccia per chierici, sacerdoti, presbiteri e vescovi,in quanto abitudine sconveniente per uomini di Chiesa e connessa in qualche modo alla sessualità irregolare.In sostanza, nessuna concessione veniva fatta al sano momento ludico a queste categorie di uomini.Era insomma disdicevole per un uomo di Chiesa essere homo ludens. L’inottemperanza a questo divieto avrebbe comportato l’astinenza obbligatoria da certi alimenti come la carne [56].

I momenti di ludica debolezza venivano pagati a caro prezzo. La severità e la serietà dei Penitenziali erano indiscutibili. Il gioco bestiale veniva tenuto lontano dalla serietà o, perlomeno, il tentativo andava in quella direzione perché la “serietà” - osserva Huizinga - cerca di escludere il gioco, ma il “gioco” può includere benissimo la serietà [57]. Né, credo, ci possano essere dubbi sulla serietà del gioco bestiale. è Burcardo di Worms a ricordacelo quando scrive: «Hai fatto quello che alcune donne hanno abitudine di fare, e cioè, prendono un pesce vivo e se lo introducono nel sesso fino a che esso non muoia; poi dopo averlo cotto o arrostito, lo danno a mangiare ai mariti ut plus in amore earum inardescant [58]. Il pesce, strumento di un gioco serio in una pratica seria ,come tante altre che si leggono nei Penitenziali, spiegano l’estrema miseria sessuale in essi attestata ed evidenziano con crudezza i rimedi a cui l’uomo ricorreva per placare i morsi della carne.

Ma per il pesce, strumento passivo di pratiche giocose e bestiali, non ci sono tribunali, né giudici,né esecuzioni capitali come per il porco o per il cane, colpevole, questo, di accoppiamento innaturale.Di pratiche contro natura riferisce Bodin quando accusava Cornelio Agrippa di  accarezzare tanto il suo cane, da portarselo a letto dopo aver ripudiato la moglie [59]. Questo accadeva proprio negli anni di Paolo Veronese che, d’accordo con Girolamo Cardano (1501-1576) e Konrad Gessner (1516-1565), insisteva nel dire che sarebbe stato più naturale che la giocosa lussuria canina avesse trovato sfogo nell’accoppiamento del cane con la scimmia per avere un tipo di cane più adatto al gioco e allo spettacolo.

     

Simia ludens

La scimmia sin dall’ età romana non ha mai goduto di buona reputazione, e nella prima età cristiana è diventata immagine del diavolo, come ce la raffigura il Phisiologus, un testo alessandrino del II secolo. Come tale è caratterizzata da una gestualità tanto scomposta che, come è noto, nelle rappresentazioni medievali, ben quattro attori dovevano impegnarsi a recitare la parte del demonio che la scimmia incarnava: da qui, l’espressione italiana “fare il diavolo a quattro”. Nella decorazione dei capitelli che adornano le colonne nella cripta della cattedrale di Bitonto o nei capitelli a stampella del matroneo della stessa cattedrale, anche le scimmie si danno il cambio nei cantonali degli abachi. La connotazione di negatività è palese nel collegamento a temi di lussuria, di avarizia, e comunque al vizio e al diavolo connotato dalle code.

Considerata uno degli animali più sfrenati nella perversità giocosa, Alessandro Neckam ha fatto della scimmia la compagna dell’istrione, addestrata a cavalcare i cani [60]. Jean Wirth ha dimostrato in un suo studio sulla iconografia di manoscritti miniati del XIII secolo, come la scimmia sia stata messa in scena in circa un quarto di circostanze di attività ludiche [61].

Per talune attività ben individuate, le scimmie sono attori privilegiati sulla scena iconografica e letteraria del XIII secolo. Basti pensare al rapporto fra scimmia e clero e alla trasformazione della bestia ora in vescovo, ora in cardinale e ora persino in papa. Frequente è  l’interazione della scimmia con il clero davanti al quale essa si prosterna mostrandogli il didietro per la benedizione.

L’intrusione della scimmia nel mondo dell’umano non si limita solo alla sfera ecclesiastica e alla parodistica imitazione dei suoi rappresentati in chiave ludico blasfema (il vescovo Desiderio di Cahors disdegnava fra tutti gli animali ludici da divertimento, specialmente la scimmia ammaestrata dall’ istrione «…non simus iocum non histrio mimum…excitabat»).

La scimmia ha anche un interesse per quelle attività che implicano il sapere libresco, la medicina, la scuola, la preghiera, il canto. Sandra Pietrini ci informa che in un foglio del Roman d’Alexandre, seduta su un tralcio ornamentale del margine di un manoscritto della Bodlejan Lybrary di Oxford, una scimmia con tratti umani suona un osso mandibolare e spalanca la bocca per cantare.  In un bassorilievo della cattedrale di Norwich, una scimmia vestita da giullare suona un animale a mo’di cornamusa. La scena è osservata da un’altra scimmia e da un cane che sghignazza con un’arpa fra le zampe [62]. Su manoscritti miniati francesi della fine del XIII secolo, studiati dal Wirth, su 100 medici intenti ad esaminare le urine, ben 39 sono scimmie, così come numerose sono quelle miniature che le raffigurano in veste di scolari e maestri.

Fra miniatore e scimmia pare intrecciarsi una complicità ludica che, il più delle volte, sfocia in una blasfemia di immagini che non sa dove andare a parare.

Quale significato o quale lezione morale può suggerire la defecazione di una scimmia su un’ostia consacrata o in un calice per la consacrazione eucaristica? [63]. Lo scopo può essere solo ed esclusivamente decorativo? E perché quelle decorazioni? Forse per dilettare un tipo di lettore, quello aristocratico, assimilato alla scimmia e appena in grado di leggere? Una satira violenta verso quella categoria di uomini che passa il suo tempo ad imitare i gesti dell’uomo di chiesa, a ripetere le sue preghiere in latino senza comprenderle? A comportarsi insomma come la scimmia miniata sulle pagine manoscritte da lui sfogliate e a trastullarsi né più e né meno come quella bestia nell’impotenza di un volo del pensiero? Tutti e due sono incapaci di volare. E la scimmia, si sa, prova rabbia e frustrazione nel non poter imitare il volo degli uccelli. Hildegarde di Bingen osserva che «quando la scimmia vede l’uccello volare, si solleva sulle zampe e saltella tentando il volo, e poiché non vi riesce, subito si arrabbia» [64]. La sua frustrata aspirazione per la caccia agli uccelli, è ulteriormente mortificata dall’impotenza di levarsi in volo; i suoi saltelli esprimono esultanza solo nel periodo della luna nuova, nel vano tentativo di poter giocare con essa [65].

I rapporti fra scimmia ed uccelli sono ricchi di allusioni sessuali. La scimmia, che nel Medioevo era considerata una metafora della sollecitazione sessuale, ha una predilezione per il gioco di caccia agli uccelli, in particolare per quelli di piccola taglia. Spesso, invece, è vittima di quelli più grandi, soprattutto degli uccelli trampolieri che conficcano i loro lunghi becchi nel suo ano [66].

L’osservazione scientifica, comunque, classifica la scimmia come animale naturalmente portato ai movimenti frenetici e al gioco: anche nei momenti di pausa e di riposo, quando gioca a spidocchiarsi o va a caccia di pidocchi tra la folta peluria dei suoi compagni.

Anche la letteratura esemplare è ricca di storielle in cui viene evidenziata la natura giocosa della scimmia. Etienne de Bourbon in un exemplum ce la presenta legata con una catena alla finestra di un ricco chierico mentre sfila per strada una processione, seguita anche da una donna vecchia con la testa acconciata da una parrucca a cui la scimmia, smaniosa di metterla in ridicolo davanti a tutti, scendendo lungo la catena, strappa con gesto improvviso, capigliatura e copricapo. Risalendo poi precipitosamente lungo la stessa catena mostra a tutti la sua preda in una risata generale.

In questo exemplum ci sono tutti gli elementi del gioco e del suo successo: gli attori, il pubblico e gli strumenti accessori ma indispensabili, la parrucca e la catenella. Né vengono messi in secondo piano i movimenti frenetici della scimmia che dà rapidità all’azione scenica: «Subito descendens per cathenulam per quam ligata erat super caput eius, et rapiens subito crines alienos insitos cum ornamento capitis, reascendit per dictam cathenulam, ommes ad risum provocans ostendendo de finestra suam predam» [67]. Ancora aspetti giocosi, con relativa comicità seria riferiti alla scimmia che, com’è noto, è l’immagine del diavolo in tutti i bestiari medievali [68], vengono evidenziati in un altro exemplum di Giacomo da Vitry, canonico agostiniano, grande predicatore e vescovo di Acri in Palestina nel 1214. Questi racconta di un uomo di S. Giovanni d’Acri che, partito in pellegrinaggio per S. Giacomo di Compostela, si era arricchito vendendo ai pellegrini vino adulterato, frodando inoltre sulla quantità venduta. Trovandosi in viaggio su una nave, una scimmia che aveva visto l’uomo contare il denaro, gli strappò di mano la borsa e fuggì arrampicandosi sulla sommità dell’albero di quella nave. Lì, la scimmia tirò fuori il denaro dalla borsa, lo annusò pezzo per pezzo, ne scartò una certa quantità che le sembrava puzzasse e lo buttò in mare. Nella borsa rimise la quantità di denaro restante. Alcuni marinai recuperarono la borsa consegnandola al mercante ladro il quale si accorse subito, che del denaro guadagnato vendendo vino, non rimase alcun pezzo. Tutto il mal guadagno era finito in mare con soddisfazione di altri pellegrini che interpretarono il gesto della scimmia come un miracolo di S.Giacomo il quale mai avrebbe voluto che il denaro così mal guadagnato fosse speso al suo servizio [69].

Tutti i gesti della scimmia, dallo strappo della borsa, allo scarto del denaro puzzolente, fino al suo lancio in mare , evidenziano la dinamicità giocosa della bestia che ha come pubblico curioso e divertito i pellegrini: il tutto in una cornice allegorica o tropologica tipica delle moralizzazioni dei bestiari.

Il pubblico ride dell’animale perché ricorda l’uomo ed i suoi comportamenti. Gli animali, invece, non ridono; sono solo procacciatori del riso e comicamente passivi. Tuttavia, se la comicità nell’ambito della vita spirituale è possibile soltanto per l’uomo, essa lo è anche nelle manifestazioni di vita emozionale e volitiva nel mondo degli animali. Così, se un cane enorme e forte si dà alla fuga di fronte ad un gatto piccolo ma animoso che gli si rivolta contro perché molestato, fa ridere, dal momento che ricorda una situazione possibile anche fra gli uomini. «Certo – osserva Propp – l’animale può darsi all’allegria e alla gioia, può persino mostrare la sua allegria in maniera abbastanza impetuosa, ma non può ridere. Per mettersi a ridere bisogna saper vedere il ridicolo. Di tutto questo gli animali non sono capaci» [70], men che meno i gatti dei quali, soprattutto nell’alto Medioevo, poco si è scritto e poco si è detto.

      


Note

   

1 H.R. Jauss, Alterità e modernità della letteratura medievale, Torino 1989, 65-125.  

2 La storiella fu pubblicata da L. Hervieux, Les Fabulistes latins, Paris 1894, II, 368-369.  Diversa per intenti moralistici ed esemplari è la favola di Piovano Arlotto, D’uno grande consiglio che feciono i topi con le gatte, che trova origine da una espressione proverbiale; cfr. A. Bisanti, La tradizione favolistica mediolatina nella letteratura italiana dei secoli XIV e XV, in Schede medievali 24-25, 1993, 34-51, qui 49-50.  

3 Cfr. Jauss, Alterità e modernità, cit., 47-48.

4 Cfr. De gallo, M.G.H., Poetae Latini Aevi Carolini, I, Berlin 1881 (rist. 1964), 262.  

5 K. Strecker, M.G.H., Script. Rerum Germ., XXIV, Hannover 1935.  

6 J. Mann (a cura di), Ysengrinus. Text with Translation, Commentary and an Introduction, Koln 1987.  

7 La citazione è in D. Schaller, La poesia epica, in Lo spazio letterario del Medioevo. 1. Il Medioevo latino, vol. I, La produzione del testo, t. II, Roma 1993, 9-42, qui 37.  

8 Nigel de Longchamps, Speculum stultorum, ed. J. H. Mozley - R.R. Raymo, Berkeley 1960; Schaller, La poesia epica cit., 38.  Sulla satira monastica, J. Mann, La poesia satirica e goliardica, in Lo spazio letterario del Medioevo cit.,  73-109, qui 104-109.  

9 Il titolo di Romulus è dato dal fatto che la versione in prosa è preceduta da una epistola che appare scritta da un certo Romulus al figlio Tiberinus.  Sulla fortuna della favolistica in età medievale, si veda J. Mann, La favolistica, in Lo spazio letterario del Medioevo cit. 171-195; F. Bertini, Gli animali nella favolistica medievale, dal Romulus al secolo XII, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto Medioevo, XXXI, Spoleto 1985, II, 1031-1051.  

10 J.T. Welter, L’exemplum dans la littérature religieuse et didactique du Moyen Age, Paris-Toulouse 1927 (rist. anast. , Genève 1973), 1-2.  

11 Sull’argomento esiste una abbondante bibliografia, mi limito a Le rire du prédicateur. Récits facétieux du Moyen Age.  Textes traduits par A. Lecoy de la Marche.  Présentation, notes et annexes par J.Berlioz, Turnhout 1992 ; J.Horowitz et S.Menache, L’Humour en chaire.  Le rire dans l’Eglise médiévale, Paris 1994 ; J.Le Goff, Le temps de l’exemplum, in Le temps chrétien de la fin de l’antiquitè au Moyen Age (III-XIII siécle), Paris 1984, 541-576 ; J.Berlioz, Le récite efficace :l’exemplum au service de la prédication (XIII-XIV siècle), in Rhétorique et histoire. L’exemplum et le modéle de comportement dans le discours antique et médiévale.  Mélanges de l’Ecole Française de Rome, Moyen Age-Temps Modernes, XCII (1980), 113-146 ; C.Delcorno, Pour une histoire de l’exemplum en Italie, in Les exempla médiévaux. Nouvelles perspectives, sous la direction de J.Berlioz et M.A.Polo de Beaulieu, Paris 1998, 147-176.  

12 L. Hervieux, Les Fabulistes latins depuis le siècle d’Auguste jusqu’à la fin du moyen age, t. IV.  Eudes de Cheriton et ses dérivés, Paris 1896, 173-248.  Su questo testo si veda J. Berlioz et M.A. Polo de Beaulieu, Les exempla médiévaux.  Introduction à la recherche, suivie des tables critiques de l’Index exemplorum, de Fr. C. Tubach,  Carcassonne 1992, 153-163.  Sull’opera di Giacomo da Vitry, si veda T.F. Crane (a cura di), The Exempla or Illustrative Stories from the Sermones Vulgares of Jacques de Vitry, London 1890; G.Frenken, Die Exempla des Jacob von Vitry.  Ein Beirtrag zur Geschichte der Erzahlungsliteratur des Mittelalters, Munchen 1914.  

13 La predicazione dei frati dalla metà del ’200 alla fine del ’ 300, Spoleto 1995 ; C. Delcorno, La predicazione, in Lo spazio letterario del Medioevo. 2. Il Medioevo volgare, vol. II, La circolazione del testo, Roma 2002, 405-431; R. Rusconi , La predicazione: parole in chiesa, parole in piazza, in Lo spazio letterario del Medioevo. 1. Il Medioevo latino, vol. II, La circolazione del testo, Roma 1994, 571-603.

14 V. Branca (a cura di), Esopo Toscano dei frati e dei mercatanti trecenteschi, Venezia 1989, 9.  

15 Branca (a cura di), Esopo toscano cit., 10-11.  

16 F. Moretti, La ragione del sorriso e del riso nel Medioevo, Bari 2001.  

17 Branca (a cura di), Esopo toscano cit. , n. XIX, Del nibbio che ‘nfermò e della madre, 122-124.Le morali di ogni favola della redazione toscana dipendono da un testo veneto scoperto de Vittore Branca nel British Museum di Londra durante una ricerca sui volgarizzamenti esopici italiani del secolo XIV ; si veda V. Branca , Un Esopo volgare veneto. Miscellanea di scritti di Bibliografia ed erudizione in memoria di Luigi Ferrari , Firenze 1952, 105-115. I volgarizzamenti del testo veneto, pur attraverso rielaborazioni e notevoli rimaneggiamenti, dipendono dalla redazione latina in distici attribuita a Walter d’Inghilterra, precettore di Guglielmo il Buono di Sicilia e arcivescovo di Palermo, che avrebbe composto la fortunata silloge intorno al 1170-1180, attingendo dai primi tre libri del Romulus almeno 58 delle sue 60 favole. Cfr. S. Boldrini, L’ ”Aesopus” di Gualtiero Anglico, in La favolistica latina in distici elegiaci. Atti del convegno intern., Assisi 1991, 79-106; A . Bisanti, La tradizione favolistica mediolatina  nella letteratura italiana dei secoli XIV e XV, in Schede medievali 24-25, 1993, 34-51;Idem, Aspetti gnomici e favolistici del “Panphilus”, in “La Memoria”, Annali della fac .di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo 6, 1990, 7-34.  

18 Cfr. Branca ( a cura di), Esopo toscano cit. , n. XX, Della rondina e degli altri uccielli, 125-128; ma vedi anche n. LVIII,Del Ciervo e de’ buoi, 235-237 dove “Spiritualmente per lo ciervo possiamo intendere ciascuno peccatore… E per quello bue che favellava e correggieva il ciervio s’intende i giusti e santi predicatori, che sempre ci amaestrano e correggono che facciamo pacie con messere Domenedio  de’ nostri peccati…”.  

19 Branca (a cura di), Esopo toscano cit ., n. XXV: Della porciella la quale era pregna e de’ lupo, 140-142.  

20 C. Delcorno, Predicazione volgare dei secoli XIII-XIV, in Dizionario critico della letteratura italiana diretto da Vittore Branca, Torino 1986, vol. II.  

21 F. Bertini, Gli animali nella favolistica medievale cit., 1039.  

22 G. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, Torino 1981; E. R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino, Firenze 1992, 110-115.  

23 Branca (a cura di), Esopo toscano cit., 26-37.

24 M. Pastoureau, Nouveaux regards sur le mond animal à la fin du Moyen Age, in Micrologus.  Natura, Scienze e Società Medievali, 4 (1996), 41-54 ; Idem, L’animal et l’historien du Moyen Age, in L’animal exemplaire au Moyen Age, V- XV siècle, sous la direction de J. Berlioz et M. A. Polo de Beaulieu, Presses Universitaires de Rennes 1999, 13-26, qui 16-21. Dello stesso autore vedi ora Medioevo simbolico, Roma–Bari 2005, 21–39. Si veda anche C. D’Addosio, Bestie delinquenti, Napoli 1892 ; E.P. Evans, The Criminal Prosecution and Capital Punishment of Animals, London 1906 ; M. Rousseau, Le procès d’animaux, Paris 1964.  Che le esecuzioni capitali si trasformino in gioco, ce lo ha dimostrato D. Balestracci,  Il gioco dell’ esecuzione capitale. Note e proposte interpretative, in Ludica, Gioco e giustizia nell’ Italia di Comune, 1993, 193-206.

25 S. Valzania, Il Medioevo nel fumetto e nel gioco, in Lo spazio letterario del Medioevo. 1.  Il Medioevo latino, vol. IV, L’attualizzazione del testo, Roma 1997, 511-532.  Questi affreschi ispirati al mondo animale e realizzati sul muro delle chiese non costituivano rarità. Un affresco ispirato ad un assempro di Filippo degli Agazzari, e relativo al furto di un asino, era un tempo leggibile sulla parete est del chiostro di Lecceto, a significare una circolarità  fra scrittura e pittura. Cfr. Filippo degli Agazzari, Assempri, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G.Varanini e  G.Baldassarri, vol. 4, t. III , Roma 1993, 405, nota 1. Questi affreschi tardo-medievali si inseriscono in un contesto culturale europeo di ampio respiro, in linea con l’epopea degli animali che compiono azioni contrarie alla loro natura. Sono raffigurati in pittura e scultura sulle vetrate, sui pavimenti, nei libri e sui capitelli delle chiese e cattedrali fra XII e XIV secolo. Cfr. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, cit., 189-208. Sulle feste del Testaccio, si veda M. Boiteux, Le feste: cultura del riso e della derisione,in A. Vauchez( a cura di), Storia di Roma dall’ antichità ad oggi. Roma medievale, Bari 200, 291-315. Sull’ efficacia dei messaggi figurati per una comunicazione visiva pur attraverso la pittura infamante, vedi G. Ortalli, Comunicare con le figure, in Arti e Storia nel Medioevo, III, Del vedere: pubblici, forme e funzioni, Torino 2004, 477-518

26 J. Le Goff, L’immaginario medievale, in Lo spazio letterario del Medioevo. 1. Il Medioevo latino,  vol.IV, L’attualizzazione del testo, Roma 1997, 9-42.

27 J. Huizinga, Homo ludens, Torino 1973, 211-212.

28 C. Chène, Juger les vers. Exorcismes et procès d’animaux dans le diocèse de Lausanne (XV-XVI s.), Lausanne 1995; M. Pastoureau, Nouveaux regards cit. 51, nota 1.

29 Giordano da Pisa, Esempi, in Racconti esemplari cit., vol. 4, t. II , n..256, Impiccagione dei lupi, 449-450: “…Sì come adiviene de le bestie: perché uno leone o uno lupo uccidesse uno omo, non pecca, e non è degno di forche; però che non può fare altro, ch’è mosso a quella opera non da suo arbitrio, ma da la sua natura. Ben è vero che oltre · mmonte s’impiccano i lupi, quando uccidessero alcuna persona; ma di verità quello non si fa per li lupi principalmente, ché già sarebbe una schernie e una stultìa grande; ma fassi pur per gli uomini principalmente, acciò che i malfattori temano più: veggendo fare quello a le bestie, è segno che non sarà perdonato a  · llui…”.

30 G. Ortalli, Gli animali nella vita quotidiana dell’alto medioevo: termini di un rapporto, in L’uomo di fronte al mondo animale cit., II, 1389-1443, qui 1415-1416.

31 Salimbene de Adam, Cronica, ed. G. Scalia , Bari 1966, I, 131; Matthaei Parisiensis Cronica majora, ed. H. R. Luard, London 1872, 160. Sugli animali come insegne e simboli del potere, R. Elze, Insegne del potere sovrano e delegato in occidente, in Simboli e simbologia nell’alto medioevo, I, Spoleto 1976, 569-593; Idem, Le insegne del potere, in Strumenti, tempi e luoghi di comunicazione nel Mezzogiorno normanno – svevo , a cura di G. Musca e V. Sivo, Bari, 1995, 113-129.

32 Leone, figlio di Basilio I fu liberato dal carcere dal padre dopo un ripensamento: Pseudo Simeone, Chronicon “de Basilio Macedone”, 21, ed. I. Bekker, Bonnae 1838 (Corpus scriptorum historiae Byzantinae, 43), 698; cfr. Ortalli, Gli animali nella vita quotidiana cit., 1416.

33 Huizinga, Homo ludens cit., 3.

34 Notkero Balbulo, Gesta Karoli imperatoris,I, 32, a cura di H.F.Haefele, M.G.H Script.rer.Germ., nuova serie, XII, Berlin 1959, 44-45; cfr. Ortalli, Gli animali nella vita quotidiana  cit. 1415.

35 Paenitentiale Cummeani, XII (XI), 12, 130; 14, 130; cfr. Ortalli, Gli animali nella vita quotidiana  cit. 1415.

36 Eadmeri Cantuariensis monachi liber de S.Anselmi similitudinibus, in Migne, Patrologia latina(d’ora in avanti P. L.) 159, 700-701.

37 Eadmeri Cantuariensis monachi liber de S.Anselmi similitudinibus cit., 702.

38 Giordano da Pisa, Esempi cit., 168-169.

39 Thomae Cantipratani Bonum universale de apibus, opera Georgii Colvenerii, Duaci 1627 ;cfr. N. Pollini, Les propriétés des abeilles dans le Bonum universale de apibus de Thomas de Cantimpré(1200-1270), in Micrologus. Natura, Scienze e Società medievali,VIII,1, Il mondo animale, 4, 2000, 261-296. 

40 Cfr. C. D. Fonseca, Lavoro agricolo e tempo liturgico, in Uomo e ambiente nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle VIII giornate normanno-sveve, a cura di G. Musca, Bari 1989,67-87.

41 Questa bella immagine la si trova in Vita prima Bonifacii, in P.L. 89,614,641 e in Vita Landiberti, M. G. H.,Script. rer. mer.,VI, 408.

42 Cfr. Les exemples du Livre des abeilles. Présentation, tradution et commentaire par H. Platelle, Turnhout 1997, 188-189 ; cfr. Pollini, Les propriétés des abeilles cit., 276, nt. 3. Etienne de Bourbon riporta un exemplum  analogo, con varianti di poco conto, nel quale evidenzia la soavità del canto delle api : “ …Vicine apes vero, relictis alveis suis, ad illum conveniebant, et quasdam melodias mirabiles suo modo circa illud opificium concinebant ad modum hymnorum…Tunc apes, de alveo exeuntes, in sublime se elevaverunt, dulcem melodiam facientes… »  .Cfr. Lecoy de la Marche, Anedoctes cit., 265-267.

43 Cfr. Pollini, Les propriétés des abeilles cit., 293-294 e nt. 4.

44 Virgilio, Georgiche, lib. IV, a cura di G. Albini, Bologna 1971, vv. 103-105:” At cum incerta volant caeloque examina ludunt contemnuntque favos et frigida tecta relinquunt, instabilis animos ludo prohibebis inani”.

45 Sull’argomento si veda N. Pice, Le similitudini nel poema epico, con un saggio di Giovanni Cipriani, Bari 2003, 117, 261.

46 Jacopo da Varazze, Legenda Aurea, in Racconti esemplari cit.,(LVIII), 656-657.

47 Salimbene de Adam, Cronica cit., 564-565.

48 Giona di Bobbio, Vita Columbani discipulorumque eius, M. G. H. ,Script. rer. mer.,IV, 61-158. Cfr.P. Boglioni, Il Santo e gli animali nell’ alto Medioevo, in L’ uomo di fronte al mondo animale cit., 935-984, qui 979. Una serie di aneddoti curiosi sulla relazione fra i santi e gli animali è stata raccolta da A. Goddart Elliot, Roads to Paradise. Reading the Lives of the early saints, Hannover- London 1987, 144-170 e 193-213.

49 Petri Alphonsi Disciplina clericalis, in P.L. 157(fabula XX), 695. Questo esempio viene ripreso con trascurabili varianti da Jacopo da Varazze, Legenda Aurea, in Racconti esemplari cit. (LVII), 335-336.

50 Petri Alphonsi Disciplina clericalis cit. (fabula XXI), 696.

51 Petri Alphonsi Disciplina clericalis cit. (fabula XXV),700-702.

52 Burcardo, Decretorum libri XX, in P.L. 140, 965-972. Vedi anche Theodori Paenitentiales, in P.L. 99, 199. Sull’argomento cfr. L.R. Ménager, Sesso e repressione: quando, perché?, in Quaderni medievali 4 (1977), 44 ss; J. Chiffoleau, “ Contra naturam . Pour une approche casuistique et procedurale de la nature mèdiévale”, in Micrologus. Natura, Scienze e Società Medievali, 4 (1996), 265-312.fr.

53 F. Santi, Cani e gatti, grandi battaglie. Origini storiche di un conflitto ancora aperto, in Micrologus. Natura, Scienze e Società medievali, Il mondo animale, VIII, 1, 2000, 31-46, qui 35.

54 “Cum jumento”, Columb., in P.L.80, 226; “cum pecude vel cum jumento vel cum quolibet quadrupede”; “cum cane”; “cum capra, sive cum pecore aut cum alio animali”; “cum pecode et pecoribus”. Cfr. Ménager, Sesso e repressione cit., 56, nt.33. Sarebbe erroneo e fuorviante credere che questi trastulli bestiali riflettano lo stato morale del tempo in cui i Poenitentiales furono scritti.  In essi furono contemplati tutti i peccati immaginabili, indipendentemente dalla possibilità reale che fossero commessi. D’altronde, a noi è giunta la voce del confessore, ma non quella del penitente. La bibliografia al riguardo è cospicua; mi limito a A.Ja. Gurevic, Contadini e Santi, Torino 1986, in partic. 3-61, 125-172; C. Vogel, Leslibri penitentiales” , Turnhout 1978; M.G. Muzzarelli, Penitenze nel Medioevo.  Uomini e modelli a confronto, Bologna 1994.

55 Egberti Eboracensis Archiepiscopi Poenitentiales lib. IV, in P.L. 89, 425; Isidoro Merc., Decret. Collectio,in P.L. 130, 587-588: “Si quis cuiuslibet animalis commistione peccaverit, quindecim annis in humiliati subiaceat ad ecclesiae ianuam, et post hos aliis quinque annis in oratione communionem receptus poenitentiam agat…”.  In Burcardo, P.L. 140, 968, le penitenze per gli stessi crimini sono sensibilmente diminuite.

56 Egberti Eboracensis Archiepiscopi Poenitentiales lib. IV cit., 427: “Si quis ordinatus ad venationem abeat, si sit clericus, abstineat duodecim menses a carne; diaconus duos annos, presbyter tres, et episcopus septem”.Sul divieto di caccia agli ecclesiastici, si veda P. Galloni,Il cervo e il lupo. Caccia e cultura nobiliare nel Medioevo,Roma-Bari 1993,113-117.

57 Cfr. Huizinga, Homo ludens cit., 54.

58 Cfr. Burcardo, Decretorum cit., 661: “Tollunt piscem vivum, et mittunt eum in puerperium suum, et tam diu ibi tenent, donec mortuus fuerit, et decocto pisce vel assato, maritis suis ad comedendum tradunt, ideo faciunt hoc, ut plus in amorem earum exardescant”.

59 L. Thorndike, History of Magic and Experimental Science, V, The Sixteenth Century, New York 1941, V ‘137. Cfr. Santi, Cani e gatti cit., 35.

60 A. Neckam, De naturis rerum, ed. Th.Wright, Londres 1863, 128. Sulla figura dell’istrione accompagnato dalla scimmia, vedi Domenico Cavalca, Pungilingua, in Racconti esemplari  cit. t. III., Abiezione del giullare (n.44), 117-118: “…Onde narra santo Gregorio che avendo lo santissimo Bonifazio vescovo di Ferenti detto la messa inn-una certa solennità e volendo poi benedire la mensa, venne uno giullaro con una scimmia e incominciò a sonare suoi cembali per avere mangiare…”. Sul comportamento del giullare, indecoroso e scurrile, vedi anche Giordano da Pisa, Esempi, in Racconti esemplari, cit., t. II, La repubblica di Platone (n.136), 281-282 e Giullari e prestigiatori (n.179), 334-345. Sulla illecità dell’attività del giullare, J. Le Goff, Métiers licites et métiers illicites dans l’Occident médiévale, in Annales de l’Ecole des hautes ètudes de Gand, Etudes historiques, V, 1963, 50, ora in trad. ital., in Idem, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, 53-71. Per il tema delle scimmie in rapporto alle performances teatrali dell’ epoca , rimando a C. Settis Frugoni, La rappresentazione dei giullari nelle chiese fino al XII sec.,in Il contributo dei giullari alla drammaturgia italiana delle origini, Città di Castello 1978, 113-134.  Per una sintesi bibliografica sulla figura del giullare, vedi Moretti, La ragione del sorriso  cit., 72-73, nt. 10.

61 J. Wirth, Les singes dans les marges à droleries des manuscrits gotiques,in Micrologus.  Natura, Scienze e Società medievali.  Il mondo animale, VIII, II, 2000, 429-444.  Ma vedi ora, S.Pietrini, Stolti, buffoni e chierici nell’iconografia biblica, in Quaderni medievali 56 (2003), 14-56, in partic. 53 dove la scimmia è rappresentata in una efficace metafora figurativa come turpitudo del giullare.

62 Pietrini, Stolti,buffoni e chierici  cit., 53-55.

63 Cfr. Wirth, Les singes dans les marges  cit., 432-436.

64 Cfr. S. Hildegardis, Subtilitates diversarum naturarum creaturarum, lib. VII, De animalibus, in P.L. 197, cap. XXIV, De Simea, 1329:  «Symea calida est, et quia homini aliquantum assimilatur, hominem semper inspicit, ut faciat secundum quod homo facit… Et cum avem interdum volare videt, se elevat et saltat, et volare temptat, et cum perficere non potest ea quae vult, statim irascitur ». 

65 Rabano Mauro, De Universo libri XXII, lib. VIII, in P.L. 111, 225: “…Alii simias latino sermone vocatas arbitrantur eo quod multa in eis similitudo rationis humanae sentitur: sed falsum est. In elementorum cognitione sagaces: nova luna exultant…”.

66 La scena appare in una miniatura del manoscritto Douce 5-6 della Bodlejan Library di Oxford ed è stata studiata e descritta da Jean Wirth, Les singes dans les marges  cit., 437.

67 Cfr. A. Lecoy de la Marche, Anecdotes historiques légendes et apologues tirés du recueil inédit d’Etienne de Bourbon dominicain du XIII siècle, Paris 1877, 228-229; F.C. Tubach, Index exemplorum. A handbook of medieval religious tales, Helsinki 1969, nn. 813, 2959.

68 Sulla associazione scimmia-diavolo, oltre ad Hildegarde di Bingen e Rabano Mauro, vedi anche Ps.-Ugo di San Vittore, De bestiis et aliis rebus, in P.L. 178, 62-63; Tommaso di Cantimpré, Liber de natura rerum, ed. H.Boese, Berlin-New York 1973, 162-163; G. Bianciotto, Bestiaires du Moyen Age, Paris 1995, 39 (Pierre de Beauvais, Bestiaire), 88-89 (Guillaume le Clerc de Normandie, Bestiaire divin), 205 (Brunetto Latini, Livre du trésor); J. Voisenet, Bestiaire chrétien. L’imagerie animale des auteurs du Haut Moyen Age (V-XI s.), Toulouse 1994, 65-68, 102-114, 277-304; L. Morini (a cura di), Bestiari medievali, Torino 1996.

69 Die exempla aus den Sermones feriales et communes des Jakob von Vitry, ed. J. Greven, Heilderberg 1914, 102, 60-61 ; Tubach, Index Exemplorum  cit., 3400, 5309 ; J.Th.Welter, Tabula exemplorum, un recueil d’exempla compilé à la fin du XIII siècle, Paris 1926, 294-297 ; Speculum laicorum (composto da un frate mendicante tra il 1279 e il 1293). Per questo si veda J.Th. Welter, Speculum laicorum, Paris 1914 (Thesaurus exemplorum,5), 6. Sulla genesi e fortuna di questo exemplum, C. Ribaucourt, Le singe à la bourse d’or, in L’animal exemplaire au Moyen Age, V-XV siècles, Presses universitaires de Rennes 1999, 241-253.  L’esempio, con nuovi particolari, come l’indicazione della provenienza senese del protagonista e lo sviluppo dialogico del racconto, che conferisce allo stesso consistenza realistica, è anche in Filippo degli Agazzari, Assempri, in Racconti esemplari  cit., t. III (n. 47), 440-444.  

70 V.Ja. Propp, Comicità e riso. Letteratura e vita quotidiana, Torino 1988, 28.  

    

  

©2006 Felice Moretti. Il saggio è stato pubblicato a stampa nella rivista "Studi Bitontini", 80 (2005).

  


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