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di FERNANDO GIAFFREDA

 

    

Non è facile individuare subito con precisione la lettura storica, cioè ideale e culturale, più intima che con il romanzo 1527 - I lanzichenecchi a Roma Andrea Moneti ha voluto mettere in luce fra i coloriti e scenografici caratteri letterari usati nel testo con così efficace attrazione. Si viene presi e avvinti subito dalla brillante narrazione del romanzo, il quale è capace perfino di suscitare, fra l’altro  facilmente come è stato notato, l’ispirazione per un soggetto cinematografico. Nei suoi encomiastici giudizi la critica di premio ha già collocato 1527 come romanzo storico fra il giallo e il noir.

Tuttavia, la lunga passerella di ben 4 premi letterari collezionati da questo libro nel corso del 2005 (anno della sua uscita presso la Nuovi Equilibri di Viterbo - “Stampa Alternativa”), fra i quali si stagliano per il buon vanto dell’Autore il Premio Città di Siderno e il Michelangelo, quest’ultimi avvalorati ancor più dall’autorevole composizione delle rispettive giurie, non ci ha distolto tuttavia – noi che gli siamo amici e anche colleghi – dalla principale professione intellettuale che l’Autore esercita con passione da silenziosi anni precedenti, e che arde in tutto il libro. Infatti, in questo network dedicato alla storia medievale, l’ingegner Moneti cura e conduce una speciale rubrica dedicata alle “Eresie medievali”, tematica verso la quale Lui si è rivelato fin da giovanissimo proclive e della quale oggi pertanto è un grande intenditore nonché proficuo estensore. Con ciò non si vuol dire tanto di trovarsi di fronte, con 1527, al prodotto di uno storico mascherato da abile letterato o viceversa (le due discipline, sia pur affini, mal si collegherebbero davvero con l’ingegneria, seppur gestionale!), quanto di essere in presenza di uno scrittore che è davvero “buono” nell’esatta misura in cui la sua provenienza territoriale, e perciò culturale, ha agito (e agisce sempre in Lui) per così dire “catarticamente” e a tutto vantaggio del lettore che si imbatta in 1527, uscendone arricchito. È la stessa ricchezza di quella terra d’Arezzo che agli occhi e all’inizio della storia medievale ha fornito appunto la prima e più classica delle eresie sociali versate (risolte) in religione, ma che mantiene sempre costante tutta la dirompente carica di contestazione dell’ordine attuale, costituito e costruito, a vantaggio di quello avvenire (il pauperismo di Francesco d’Assisi).

E se non è allora alla necessaria e ferace povertà dell’uomo di fede (e perciò necessariamente di Chiesa), a cosa altro richiamerebbe l’eretica riforma protestante lanciata da quello scomunicato di Martin Lutero, discepolo di Agostino, che riecheggia a giustificazione (peraltro contraddittoria) del saccheggio di Roma avvenuto il 6 maggio 1527 e che fa da sfondo al romanzo? All’inizio il lettore non sa – ovvero si può ritrovare a non aver ben presente – che cosa è avvenuto esattamente intorno e prima di quella primavera del primo Cinquecento. Che significa quell’avvenimento storico realmente? Di che cosa “informa” agli effetti pratici la vita quotidiana e politica di allora, si domanda? Avverte sì una vaga aria funesta, che un pesante dramma si sta per consumare inevitabile, presagito benissimo dalla descrizione delle opposte situazioni personali descritte coi personaggi di Moneti (Heinrich e Messer Stefano in primo piano, Müntzer e Lutero sullo sfondo); e che stanno per entrare in collisione (la deboscia sfarzosa e nauseante del mecenatismo di casa Della Valle, gran Cardinale del Papa re da un lato, e la soldataglia mercenaria raccapezzata a basso prezzo nel contado italiano, nei Landes tedeschi e nelle hazendas spagnole dall’altro). Ma non s’accorge d’emblé che quel “dramma” sta rappresentando il lugubre funerale del Rinascimento italiano, l’aborto orrendo della nazione italiana; la fine decisiva e paradossale della speranza di veder nascere, com’era naturale che avvenisse nella scena d’Italia (se non ci fosse stato l’universalismo cristiano), uno Stato nazionale unitario. Eppure esso emerge già in Francia, in Spagna o in Inghilterra. La dolorosa frattura religiosa allora è il costo che nella penisola si paga per veder nascere, giammai in Italia ma altrove, il sostegno e il supporto sociale, fondamentale e “classico” per l’incipiente ed edificando Stato moderno, accentrato e accentratore: la classe media (prodromo della futura borghesia del Terzo stato sociale), posta fra aristocrazia ecclesiastica e contadini. è un parto altrui che all’Italia costerà caro e doloroso davvero, tanto più che proprio Lei era stata, già qualche secolo prima, la vera e invisibile nutrix in artibus del nuovo soggetto.

È proprio la seguente significazione del dolore (nella storia e della storia), contenuta nel dialogo finale fra il neo-genero Heinrich e il suocero Messer Stefano, a fornire la chiave di volta e la coscienza di gran parte del romanzo di Moneti, significazione che merita una verifica di trasposizione storica, utile per la comprensione del soggetto e un po’ anche dell’Autore:

«La storia intera è dolore, Heinrich. Un dramma senza fine, come una ruota che gira e gira su se stessa. A volte il cielo ha qualcosa di infernale. Il disegno di Dio è imperscrutabile», messer Stefano si alzò dallo sgabello per ravvivare il fuoco «ma forse è proprio per questo, perché il dolore è potere, che il sorriso è stato sempre visto con sospetto. Chi ride esorcizza il dolore del mondo», continuò osservando il vortice di scintille che aveva provocato con l'attizzatoio.

«Chi sorride è un po' più libero».

«Il potere, invece, non ride mai».

«Questo perché deve perpetuare la sua tristezza, il dolore della storia».
«Io l'ho conosciuto, il potere. Ho vissuto nelle corti cardinalizie, ho visto sfarzo, orge e lussi sfrenati. Ho visto un Dio simulacro del potere
».

«Un Dio che sa parlare solo di un domani terrifico, di un inferno che incombe. Mai di gioia e letizia. Ma soprattutto un Dio per pochi eletti», si voltò Heinrich. (pp. 255-256)

E anche: «E se Dio tacesse semplicemente perché non c’è? Forse noi viviamo senza di Lui e Lui senza di noi? »

«Non è Dio a mancarci, Heinrich. Siamo noi a mancare a Lui» (p. 257).

Una generalizzazione ben azzeccata sul piano religioso, ma anche espressione parodiata della puntuale debolezza cronico-storica venutasi a creare agli eventi del 1527. La vera frattura primaria si ha con la morte di Lorenzo il Magnifico, nel 1492, in coincidenza con quella scoperta del Nuovo Mondo per cui convenzionalmente ha termine il Medioevo (ma secondo alcuni quella non è che una sua seconda fase). Nella penosa e studiata frammentazione politica delle Città-Stato-Signorie, l’uomo politico fiorentino pare proprio essere l’unico a garantire un equilibrio e una coesione nella penisola – o almeno una speranzosa promessa di coesione. Tentati dall’antico vizio tutto ecclesiale (ma perché no? vescovile) di invocare lo straniero per eleggerlo all’istante al rango di paladino salvatore dei quel potere così  rocambolescamente  acquisito, e per risolvere definitivamente i momentanei rapporti di forza interni raggiunti, i Signori italiani, più o meno legittimi o altresì legittimati dall’ignavia delle precedenti istituzioni cittadine sulle quali hanno riportato vittoria, ricorrono alla congiura, alle meschinità intestine e parentali, e aprono le porte (di nuovo!) agli uomini del Nord. Ma questa volta non andrà come nel X secolo. Niente involontario sposalizio storico fra stirpi: sarà il saccheggio. La penisola italiana da allora sarà ridotta al rango di una procace donna di bordello, gioco e posta in gioco, sulla quale a turno le potenze straniere, precoci per l’assalto ma ormai già ben formate, sfogheranno i loro più bassi istinti, e di conquista e di successo, prendendo a pretesto gli antichi diritti dinastici, reali o imperiali: l’anacronistica rivendicazione angioina del bottino di Benevento (l’Italia meridionale).

Quest’aria di sciagura che sbatte come un vento la più bella culla della civiltà mediterranea si respira tagliente nelle più belle pagine del romanzo di Andrea Moneti. Passa tangibile nella trama e nei dialoghi eruditi e intensi fra Hans, Gunther, Rainer, Angelica, Frundsberg, dei cerusici, o in quelli forti e laidi dei capitani persi nelle osterie, della soldataglia lanzichenecca e spagnola che si rivale delle giornate di mancata paga. La perfetta ricostruzione dell’orrore creatosi con il saccheggio di Roma (ma era già toccato ad altre città italiane), inducono nel lettore, in perfetta sintonia con la volontà dell’Autore, il rifiuto nauseato della guerra, di ogni guerra. La ripulsa è tanto più forte perché la descrizione rimanda indiscutibilmente al presente, dove appunto allora come ora le guerre non si rivelano altro che come invasioni, distruzioni e rapine di “opere” altrui, violenze ai fini di sottomissione e sottrazione di altrui civiltà e ricchezze.

E poi c’è il tema religioso, quello più delicato, che agisce sempre in profondo, sia nel romanzo che nella storia reale di riferimento. Ma anche nell’Autore e nella sua volontà narrativa. In lui la forza religiosa che alberga nelle quinte immaginarie di 1527 agisce già come fede riformata, extrastorica, improntata interamente all'Amore perfetto di Dio nel e per l'uomo. Questo sentimento religioso, antisecolare e antisecolarizzato, è la forza che unisce sempre beneficamente, grazie appunto all' "amore divino", gli opposti destini (Heinrich e Angelica): laddove invece esso non c'è, v'è perdizione. Nella storia concreta, nella vita reale, negli avvenimenti storici concreti la religione allora è un dramma che si realizza attraverso la guerra e la violenza del saccheggio, giacchè nell'istituzione ecclesiastica, secolare a tutti i livelli, quell'amore divino non c'è. Detto in altre parole è alienato. Per l'Autore di 1527, strenuo celebratore di un'eresia benefica, quella cioè che rafforza e restituisce finalmente il senso del sacro, il vento riformatore della ribellione religiosa impersonata dall'agostiniano Lutero ristabilisce a caro prezzo, per Roma e per l'Italia. il senso della storia, che non può darsi se non contraddittorio.

Con i lanzichenecchi padroni di Roma, con la messa a sacco della città eterna, si estrinseca tutta quella grave "anomalia italiana" che già altri hanno analizzato come una mancata modernizzazione della società medievale, che ancora troppo intrappolata nelle pastoie delle sovrastrutture religiose. Dopo lo sfacelo dell'età romana, l'Italia è l'unica regione che con un'originale espansione di forme artistiche e culturali rinasce seriamente dopo le invasioni barbariche. Ma è un processo non accompagnato per nulla da una unificazione territoriale che altri paesi conosceranno. Il 1527 appare dunque come la data di una nuova e definitiva  battuta d'arresto, facilitata dalla frantumazione territoriale causa a sua volta dell'incontro-scontro, al centro della penisola, delle popolazioni nordiche (franco-germaniche) con quelle greco-bizantine e arabe.

Allora, nel leggere 1527  non si può non balenare la lezione delle conclusioni dello storico: «La cultura politica popolare [che si ciba troppo di una religione avulsa e forse contraria alla realtà concreta, anche quando è riformata] è rimasta imprigionata nel quadro medievale del Sacro romano impero contrassegnato da un potere religioso incline al dominio politico e da un potere politico culturalmente debole e poco interessato alla piena sovranità laica. Da qui la tragedia della mancata modernizzazione politica e della ritardata unificazione nazionale. Per molti aspetti l’Italia ebbe così uno sviluppo storico simile a quello della Germania: ha avuto bensì il vantaggio di una precoce tradizione intellettuale laica, ma anche lo svantaggio di una controriforma proclamata in assenza di ogni riforma religiosa» [1].  

    


1 Umberto Cerroni, Consolidare la democrazia rilanciando la cultura italiana, ne «Il Dubbio», anno I, n. I (2000), "Gli incontri della Machiavelli". La frase fra parentesi è nostra: l'abbiamo interpolata nella citazione assumendocene ovviamente la responsabilità al solo scopo di aderire la tesi di Cerroni al significato della temperie espressa nel romanzo di A. Moneti. Come è noto U. Cerroni ha contribuito molto alla definizione del senso della "Tragedia italiana" vissuta nella prima meta del Cinquecento nella sua Teoria politica e socialismo, Editori Riuniti, Roma 1973.

     

     

©2006 Fernando Giaffreda

  


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