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di MARIANGELA BINETTI  *

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In Italia meridionale le prime opere di bonifica e sistemazione idraulica furono compiute in Sicilia dai Musulmani, i quali introdussero colture irrigue di agrumeti, cotone e canapa, sfruttando non solo le attitudini naturali del terreno, ma costruendo anche laghi artificiali, anticipando la moderna tecnica idraulica.

Nel Mezzogiorno peninsulare invece il panorama si presentava ben più degradato: qui la politica comunale non aveva attecchito come nel resto d’Italia, perché contrastata dal potere regio e feudale, il quale fino al XVIII secolo non affrontò seriamente il problema della sistemazione idrogeologica. Ciò significò assenza non solo di efficaci e durature bonifiche, ma anche di una tradizione di studi sulle acque, di usi e consuetudini largamente diffusi al nord.

Lo scarso interesse dimostrato dal potere centrale riguardo a queste opere non fu colmato dall’iniziativa privata di altre classi sociali o degli enti ecclesiastici. Gran parte dei feudatari, essendosi trasferiti nella capitale dove investivano le loro ricchezze, non avevano alcun interesse a bonificare la terra e a migliorarla; il ceto medio, formato da medici, notai, giudici ed altri ufficiali regi, che nei Comuni centrosettentrionali aveva costituito il nerbo della vita economica, in età angioina era ancora debole; assente era la ricca borghesia degli «industriali» e dei commercianti (il commercio era, infatti, nelle mani di Pisani, Fiorentini, Genovesi e Catalani, protetti dai privilegi concessi dagli Angioini).

Perché nel Mezzogiorno si realizzassero i necessari lavori di bonifica occorreva il concorso di circostanze favorevoli, le quali o mancarono del tutto o operarono in misura inadeguata. Il problema maggiore era rappresentato dall’assenza di capitale: i proventi dell’agricoltura, infatti, non venivano quasi mai investiti in migliorie; il commercio era nelle mani degli stranieri, quelle poche e modeste industrie esistenti difettavano o non producevano tanto da divenire esportatrici. A questo c’è da aggiungere la scarsa pressione demografica e soprattutto l’ordinamento della proprietà terriera. I diritti signorili, gli usi civici, le proprietà comuni a Universitates ed enti ecclesiastici, il divieto di mutare la coltura e la destinazione economica delle terre sottoposte a mano morta (le quali dal punto di vista igienico e agrario peggioravano progressivamente), il carattere feudale di gran parte del regno, durato fino agli albori del XIX secolo (se non oltre), la difficoltà a trasformare un possesso feudale in proprietà allodiale, impedirono la risoluzione non solo del problema della malaria, ma anche della trasformazione agraria [55], segnando il destino del Mezzogiorno.

L’operazione di bonifica, in qualsiasi epoca storica, è risultata utile sia per il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie del territorio, che per l’aumento del valore della terra stessa.

In Italia meridionale le zone afflitte sin dall’antichità dal paludismo e dalla malaria erano diverse e dislocate in più punti.

Lungo la costa tirrenica, scendendo dalla Lucania alla Calabria, si incontra la piana di S. Eufemia, impaludata dall’Angitola e dall’Anneto, la quale dopo aver ospitato Terrina, uno dei più ricchi centri della Magna Grecia, andò progressivamente incontro al degrado e all’abbandono (rendendo vani, ad esempio, i tentativi di ripopolamento della pianura operati dai Normanni); seguono la piana di Rosarno (anch’essa disabitata sin dall’antichità), e quella di Gioia, che pur trovandosi in posizione geografica ed economica favorevole era considerata «pestifera» per la presenza di paludi e maremme. In questa pianura furono decimati dalle febbri palustri sia le truppe di Ruggero il Normanno, in occasione della guerra contro suo fratello Roberto il Guiscardo, sia l’esercito di Pietro d’Aragona nel 1283, durante la guerra del Vespro. Superata la piana di Gioia la costa tirrenica calabrese si presentava ricca e salubre. Le paludi ricomparivano sulla costa ionica a pochi chilometri da Reggio, dal pantano delle Saline [56] alla spiaggia di Squillace, e di qua ai circondari di Crotone, Rossano e Castrovillari [57]; il primo centro abitato nei pressi del mare lo si rincontrava a Roccello Ionico.

In condizioni analoghe si presentava la costa ionica della Basilicata, una delle più desolate e malariche regioni d’Italia: lungo un percorso di 300 miglia, da Capo Colonna a S. Maria di Leuca, fino alla metà dell’800 non sorgevano che tre centri abitati, Crotone, Taranto e Gallipoli, che insieme raggiungevano appena i ventimila abitanti. Le restanti terre erano pianure desolate ed incolte, tra cui spiccava l’agro metapontino, che sin dall’età romana godeva, dal punto di vista sanitario, di una fama negativa. Nel Medioevo, precisamente nei secoli XIII e XIV, sorsero due centri, Torre di Mare e S. Trinità, che ebbero vita breve: scomparvero lasciando solo il nome alle località. Anche il porto di Metaponto nei secoli andò trasformandosi in una immensa palude, quella di S. Pelagina [58].

In Puglia le paludi si sviluppavano tra Manfredonia, Otranto e Capo di Leuca, e fra Taranto e Gallipoli [59]: il territorio tarantino e la provincia di Lecce furono devastati dalla malaria sin dall’antichità. Le basse terre di Otranto, la valle dell’Idro con le sue paludi dette Molviane, e i laghi di Alimini e Fontanelle erano, infatti, tra le più pestifere; non da meno era il territorio di Manduria, con le paludi del Tamari, del Chidro e del Burraco. Un’oasi era invece la provincia di Bari, con manifestazioni di paludismo limitate a pochi stagni tra Barletta e Bari, e tra Bari e Mola (lo stagno di S. Giorgio). Gravemente minacciata dalla malaria era invece la Capitanata, la cui costa adriatica era disseminata di paludi, lagune e stagni, a partire dalla bassa valle dell’Ofanto fino a giungere alle foci del Fortore e del Biferno in provincia di Campobasso. Particolarmente malariche erano le terre nei pressi dei laghi di Lesina, Salpi, Varano e del Pantano di Salso. Le città di Siponto e Anzano, un tempo floridissime, gradualmente decaddero perché decimate dalla malaria; Siponto, antico centro già disertato in età romana, si ripopolò nel Medioevo, anche se di lì a pochi secoli sarebbe nuovamente sprofondata nella solitudine e nell’abbandono. Come ha recentemente osservato Raffaele Iorio ad un certo punto della storia sipontina gli itinerari e i collegamenti col centro si interruppero bruscamente. In una pergamena rogata il 18 marzo 1270 un certo Beneventus si sottoscrisse come notaio «Siponti Novelli». Non siamo di fronte ad una città rinnovata, bensì ad un centro originale, ubicato più a settentrione. Re Manfredi, infatti, con una ordinanza del novembre 1263 rendeva noto che, per garantire una esistenza migliore ai cittadini e per la sopravvivenza della località stessa, «propter ipsius locis intemperiem et imminentem ibi corruptione aeris», concedeva agli abitanti il permesso di trasferirsi in una località vicina, senza indicare l’ubicazione del nuovo sito [60]. Il contestato Matteo Spinelli così narra l’avvenimento: « ... Re Manfredo fò a Siponto, et designao de levare la terra da chillo male aere, et de ponerela dove sta mò, et chiamarela de lo nome suo Manfredonia» [61]. In realtà sia la città che il suo porto furono costruiti da Carlo I d’Angiò nella seconda metà dello stesso secolo col nome di Siponto Novello. Può darsi che l’abbandono della vecchia Siponto sia da collegarsi ad una oscillazione del livello marino del suo porto oltre che alla malaria, dal momento che a poche decine di chilometri un altro centro, Salpi, che si affacciava sulla stessa laguna sopravvisse ancora per molto tempo. Come Salpi altri centri della Capitanata in epoca angioina erano ancora immuni da gravi fenomeni malarici: Lesina, ad esempio, che sorgeva sulle rive dell’omonimo lago, era tassata per circa 40 once [62].

Anche Napoli, la capitale, era circondata da paludi: a levante quella del Sebeto, a ponente quelle di Coroglio e Bagnoli. Malariche erano anche le zone circostanti i laghi di Licola, Fusaro, Averno, Lucrino, Maremorto e quelle di Patria; lo stesso dicasi per l’intera provincia di Caserta e per il basso corso del Garigliano e del Volturno; palustri erano anche i bassi terreni del Nolano, dove erano presenti le industrie della canapa, e il territorio di confluenza fra il Volturno e il Calore, in provincia di Benevento [63]. Non lontano da Pompei, invece, Carlo d’Angiò fondò l’abbazia di Real Valle in un territorio che in seguito il fiume Sarno avrebbe reso malarico e deserto, e che all’epoca della fondazione era circondato da terre ben coltivate piuttosto che da acquitrini [64].

In Sicilia le paludi erano presenti lungo l’Alcantara, il Simeto e il Gorna, intorno al lago di Lentini, sulla costa delle province di Catania e Siracusa e fra Trapani e Mazara del Vallo [65]. Illuminato Peri ha affermato che «non c’è memoria di grosse paludi nelle piane» siciliane: il toponimo «paludi» compare verso la metà del XII secolo in Edrisi, e a suo dire rispecchia una condizione d’eccezione [66]. Altre fonti documentarie tuttavia segnalano la presenza di aree paludose, come lo stagnone di Marsala, la già citata pianura di Lentini, il pantano Ruffo nei pressi di Paternò, i tre «lacus iuxta Farum» a pochi chilometri da Messina; «spazi quasi completamente disabitati a cominciare almeno dal VI secolo ... aree di pascolo, nelle stagioni invernali, per quelle popolazioni dei vicini rilievi che, indifferenti alla natura del suolo, avevano contribuito, con l’allevamento dei loro ovini, all’impoverimento dei mantelli vegetali, alla degradazione delle pendici collinari, al disordine idrico» [67]. Dai documenti sappiamo inoltre che le fasce costiere del territorio di Lentini e dell’intero siracusano erano paludose e incolte e utilizzate soprattutto per la pesca. Il processo di impaludamento, infatti, aveva interessato «vaste plaghe in pianura e soprattutto rivierasche invase da focolai malarici che avevano già fatto la loro comparsa nel V secolo a. C.», e i cui sintomi febbrili furono narrati in una lettera del 1189 di Pietro di Blois al fratello Guglielmo [68]. Ancora nel XIII secolo a Messina l’allargamento della trama urbana verso il lato meridionale veniva ostacolato dalla presenza di torrenti con l’alveo poco stabile, in particolare lo Zaera, il quale «molto probabilmente non scorreva su un unico letto, ma diramava le sue acque lungo un largo conoide in più rami, creando ristagni malsani», costituendo una minaccia e rendendo poco sicuro e salubre il piano della Mosella [69].

La malaria, nel Medioevo come agli albori del XX secolo, ha sfibrato buona parte della popolazione meridionale, perché era diffusa in quasi tutte le zone inferiori ai 200-300 metri sul mare (talvolta veniva registrata anche oltre i 1000 metri, perché importata dal basso). Ad essa sono stati imputati i fallimenti dei tentativi di colonizzazione compiuti dagli Svevi e dagli Angioini: delle numerose famiglie francesi che accompagnarono Carlo I nel Meridione e che ottennero in cambio dei loro servigi e della loro lealtà terre e feudi, solo poche sopravvissero alla seconda generazione.

La malaria è stata ritenuta un po' da tutti l’elemento perturbatore della vita economica meridionale, perché ha contribuito allo spopolamento di città e campagne, alla nascita del latifondo e al degrado di quelle terre che in diverse condizioni ambientali e climatiche sarebbero risultate fertili. Data la precarietà in cui il territorio versava, villaggi e campagne abbandonate dagli abitanti, povertà diffusa e così via, fu un’impresa ardua per il potere centrale attendere agli opportuni lavori di bonifica [70].

I sovrani normanni e svevi dal canto loro erano troppo presi dalla risoluzione di problemi di politica interna e militare, per potersi dedicare a tempo pieno alla correzione del regime idraulico, che tra l’altro non era così disordinato come di lì a qualche secolo. L’unico intervento degno di nota è la bonifica del lago Fucino, disposta da Federico II nell’aprile del 1240: l’imperatore infatti ordinò a B. Pissono, giustiziere d’Abruzzo, di «purgari et aperiri» il lago, in seguito ad una petizione degli abitanti di quelle contrade. L’operazione di bonifica serviva a consentire un più facile scorrimento delle acque superflue del lago «que ipsum occupat inde labantur sicut antiqitus fieri consuevit» [71].

Più partecipi furono gli Angioini: Carlo I distrutta Lucera, la cui popolazione era rimasta fedele agli Svevi, fece stabilire nei suoi pressi colonie di provenzali allo scopo di colonizzare quelle ed altre zone della Capitanata, della Basilicata e della Sicilia. Non è possibile tuttavia stabilire se i provvedimenti presi dagli Angioini siano risultati efficaci per il risanamento delle terre malariche. Carlo II, ad esempio, nel 1301 decretò la costruzione di un canale che mettesse in comunicazione il porto interno di Brindisi col mare, al fine di diminuire il paludismo nei dintorni della città. Nel secolo successivo il canale fu chiuso con delle pietre, determinando, ovviamente, un peggioramento delle condizioni igieniche del porto. L’incauto ordine fu impartito dal principe Giannantonio Orsini, il quale non voleva cedere il porto al re Alfonso d’Aragona. Sempre a Carlo II si deve la bonifica, a spese delle Università limitrofe e del conte di Marsico, del corso del fiume nel Vallo Diano. Qualche anno dopo furono intrapresi da Bartolomeo di Ariano, cittadino di Pozzuoli, alcuni lavori per rendere navigabile il Volturno. Anche se l’operazione non riuscì perfettamente, Bartolomeo nel 1393 ottenne da re Ladislao il titolo di console. Successivamente, sia nei parlamenti pubblici del 1471 che in altre occasioni, si tornò a discutere di bonifiche dell’agro campano e di opere da costruirsi lungo il Volturno per renderlo navigabile.

La situazione territoriale sotto gli ultimi Angioini e gli Aragonesi subì un peggioramento a causa dell’incuria dei sovrani, distratti dai continui scontri dinastici, dalle congiure baronali e dalle ribellioni contadine. Il regno era sempre più visto come terra da sfruttare, per cui poco importava se i paesi venivano abbandonati, se la malaria minava la vita delle popolazioni, se il regime delle acque diveniva sempre più disordinato, invadendo le campagne [72]. A partire dalla prima metà del Trecento, infatti, si registrarono numerosi casi di abbandono o inadempienza verso gli oneri fiscali a causa della malaria. Nel settembre 1306 Lesina ricevette un sensibile sgravio di imposte perché ridotta alla miseria, sia per la malaria che per l’esoso fiscalismo [73]. Il convento di Montevergine invece obbligò alcune Università salernitane a costosi lavori di bonifica di terre e strade «in palude Sarni et Nicerie», ammorbate dalle inondazioni e da numerosi stagni [74]. Nel maggio 1320 gli abitanti di «Castri Sugi» in Terra di Lavoro avevano chiesto e ottenuto dal re il permesso di trasferirsi dalla montagna alla pianura, perché attirati dal corso del Garigliano. Nove anni dopo, nel gennaio del 1329, gli stessi chiesero al sovrano con un’altra petizione il permesso di ritornare all’antica sede perché, a causa della malaria, molti uomini erano deceduti e molti erano infermi. Il sovrano acconsentì, concedendo anche alcune agevolazioni fiscali. In Abruzzo l’Università di Celano, minacciata «dall’aria pestilenziale che vi si respira», chiedeva al duca di Calabria il permesso di trasferirsi nei pressi del colle S. Flaviano. A Penne, nei pressi del lago Fucino, che sprigionava «miasmi pestilenziali», la vita era praticamente impossibile. Gli abitanti, infatti, dopo una dura lotta contro la malaria furono costretti a trasferirsi per potersi salvare, con grave danno per il fisco, che non poté riscuotere le abituali imposte. Tra gli abitanti tal Egidio di Cirolara «mezzo avventuriero e mezzo bonificatore audace, propone al re di riattivare le correnti della vita nel castello disabitato, e ne domanda la necessaria autorizzazione». Quest’ultima gli fu accordata anche se il prosciugamento totale del lago Fucino avvenne solo parecchi secoli dopo. Nello stesso anno gli abitanti dell’Università di «Castri Tranaquarum», estenuati dall’infezione e non sapendo dove rifugiarsi, chiesero di essere almeno sgravati di alcune imposte, perché impossibilitati a lavorare e produrre. A Fondi in un piccolo lago che si trovava in pianura confluivano le acque di alcuni corsi dal flusso irregolare, le quali avevano contribuito alla creazione di un pantano pestilenziale, in seguito al quale l’esistenza era divenuta insopportabile. Anche le campagne avevano perso la loro fertilità perché abbandonate per mancanza di manodopera. L’unica soluzione per il duca di Calabria fu quella di consentire agli abitanti di dare maggiore libertà di scorrimento alle acque, badando a non ledere i diritti feudali dei proprietari delle terre in questione e di quelle dei signori vicini.

Malaria, clima e siccità, tre «tradizionali e implacati nemici», come li ha definiti il Caggese, furono spesso responsabili della desolazione di alcune importanti città: nell’agosto 1324, infatti, un incaricato del giustiziere di Terra di Bari, che aveva ricevuto l’ordine di vendere una certa quantità di zucchero a Brindisi, comunicava l’impossibilità di portare l’impresa a compimento perché la città si presentava deserta e spopolata [75].

La situazione si presentava identica dappertutto, tanto che i sindaci delle Università implorarono «a gran voce, se non l’aria balsamica e la salute, almeno lo sgravio dalle imposte ed un più umano atteggiamento dei funzionari». In Capitanata, S. Lorenzo in Carmignano ammorbata dalla malaria e da altre epidemie, era ormai incapace di versare i contributi fiscali; Civitate, già tormentata dalla malaria, fu ulteriormente devastata dal terremoto del 1322, così come Ripalonga [76], distrutta da un incendio e dal clima iniquo. Pescara nel 1328 «propter malitiam aeris» non era in grado di fornire marinai per le armate regie e lavoratori per le saline; anche Aquino, spopolata dalla malattia, era incapace di far fronte alle imposte [77].

Per ironia della sorte quello stesso duca di Calabria che con concessioni e licenze aveva contribuito ad alleviare le sofferenze dei sudditi, il 9 novembre del 1328 morì a causa della febbre palustre [78]. Altri personaggi illustri precedentemente avevano contratto la malaria, rimettendoci in alcuni casi la vita. Enrico VI, da poco eletto imperatore, trovandosi accampato nei pressi di Napoli fu colto da febbri palustri, dalle quali a stento riuscì a salvarsi e a risalire le Alpi con pochi seguaci [79]. Il suo destino era però segnato: tornato in Italia contrasse nuovamente l’infezione durante una partita di caccia in una valle paludosa nei pressi di Messina, che lo portò alla morte a soli 32 anni [80]. Nel 1227, narra Riccardo di S. Germano, Federico II fu costretto a rinviare la partenza per la Terra Santa perché affetto da febbri malariche, scatenando l’ira del pontefice che lo scomunicò [81]. Nel 1254 invece toccò a suo nipote Corrado, il quale accampatosi all’inizio della primavera nei pressi di Lavello per organizzare la partenza dell’esercito, «infirmitate correptus» morì il 21 maggio dello stesso anno all’età di 26 anni [82]. Questo episodio è ricordato con maggiore dovizia di particolari anche da Saba Malaspina, nella cui narrazione però aleggia il sospetto di morte per avvelenamento [83].

Tra XV e XVI secolo l’unica attività che poté svilupparsi in quelle pianure insalubri fu la pastorizia transumante, la quale durante i mesi critici della malaria, estate e autunno, si trasferiva sugli altipiani appenninici. è probabile che lo sviluppo della Dogana della Mena delle pecore fosse dovuto anche a questa motivazione, oltre a quella di carattere demografico [84].

Il binomio palude-malaria era ben noto sin dall’antichità: Varrone aveva avuto un’intuizione per metà vera, e cioè che nei pressi delle paludi vivono dei «piccolissimi animaletti», non visibili ad occhio nudo, i quali attraverso la bocca e le narici entrano nel corpo umano provocando malattie difficili a curarsi, «difficiles morbos». Secondo alcuni responsabili della malaria erano le acque palustri utilizzate come bevanda; altri invece pensavano alle zanzare come causa morbigena, ma non nel senso moderno di insetti inoculatori di parassiti, bensì depositari di un virus assorbito nelle paludi e ceduto alle acque con l’infusione dei loro corpi morti. Anche il fatto che la malaria fosse una malattia estiva era stato sottolineato in età antica. Nei secoli successivi si credette che, essendo gli abitanti dei luoghi paludosi e bassi i più colpiti, la malaria fosse determinata dall’aria grave, carica di miasmi e vapori esalati dalle materie in putrefazione nelle acque. Essa era quindi considerata il prototipo delle malattie miasmatiche.

Il fatto era che il suolo, il clima e le acque dell’Italia meridionale favorivano la diffusione dell’infezione: perché l’anofelismo prosperasse non era necessaria la grande palude, bastava anche il piccolo acquitrino o il rivolo mal drenato. La malaria era quindi intimamente legata a condizioni geologiche e idrauliche quali l’abbassamento delle coste, la formazione di dune che contrastavano lo sbocco in mare ai corsi d’acqua, i movimenti sismici che modificavano il clivaggio delle rocce, precludendo il corso dei fiumi [85]. I sovrani angioini si dimostrarono particolarmente sensibili alla risoluzione dei problemi idraulici che affliggevano il regno, forse perché convinti anch’essi che la malaria fosse una delle tante malattie miasmatiche, provocate cioè dalle esalazioni di materiali decomposti e dall’insalubrità dell’aria. Ecco quindi una chiave di lettura per i numerosi provvedimenti contenuti negli atti cancellereschi relativi ad operazioni di spurgo di canali, pozzi, riparazione o costruzione di acquedotti, fontane e simili.

A Napoli, dove Carlo I promosse una intensa attività edilizia per rinnovare la struttura urbana, furono intrapresi lavori per il prosciugamento della palude nella regione nord-orientale, grazie ai quali l’intera campagna beneficiò di canali di irrigazione, di costruzione di strade, di collegamenti tra città e contado, di un ponte [86].

Sempre nel territorio napoletano nel 1301 Carlo II fece realizzare con criteri d’avanguardia opere idrauliche e fognarie, le quali consentirono l’incanalamento in serbatoi, grazie ad una rete di tubazioni sotterranee, delle acque piovane e di scolo; vietò, inoltre che «nullus habitans in vicis ipsis sordes, aut spurcitias aliquas in eis per fenestras, januas vel aliter proicere audiat quibus aer inficitur postquam fuerint sic gravati». Nei secoli successivi fu creato addirittura un tribunale addetto alla vigilanza delle strade dal nome di «acque e mattonate», che unitamente a quello addetto alle porte e alle mura della città, costituiva una sorta di assessorato alle opere pubbliche ( i due istituti furono poi accorpati nel 1636) [87].

Nel 1302 Carlo II fece eseguire importanti lavori nella zona del porto, il quale era reso insicuro dai depositi di sabbia, limo e detriti accumulatisi in età federiciana a causa del ristagno dei traffici marittimi, per cui furono drenati i fondali ed eseguite opere di contenimento delle acque aperte. Le spese furono talmente esose che il sovrano, non potendo affrontarle con le sole risorse dell’erario pubblico, impose una gabella ai mercanti che si servivano delle attrezzature portuali. I lavori idraulici, iniziati il 22 gennaio 1305, furono portati a termine due anni dopo [88].

Il disegno di riorganizzazione del territorio intrapreso da Carlo II fu portato avanti dai suoi successori: le iniziative di Roberto e di Giovanna I possono essere considerate una continuazione del programma precedente. Unica eccezione è rappresentata dalla collina di S. Eramo, la quale, sotto Carlo II non era ancora stata interessata dal fenomeno di espansione extraurbana. Tuttavia, questa lenta espansione della città sulla collina deve essere interpretata come uno sviluppo del piano di Carlo II, perché, una volta urbanizzata la zona circostante Castel Nuovo, fu necessario risalire le pendici dell’altura. In quegli anni, infatti, furono costruiti palazzi, ville e il chiostro di San Martino dei Cistercensi; fu quindi necessario aprire vie facilmente praticabili. Lo sviluppo di iniziative edili determinò una trasformazione del paesaggio agrario. La presenza di poggi e terrazze collegati da stradine fu il risultato di un lungo lavoro di dissodamento e disboscamento, che permise l’impianto di colture arboree e arbustive. Questa operazione di sistemazione del territorio fece acquistare omogeneità al paesaggio, grazie soprattutto alla presenza di filari di cipressi e pini, disposti regolarmente sui versanti delle colline. La vegetazione, così come fu disposta, sembrava non solo assecondare l’andamento del suolo, ma anche assolvere una precisa ed importante funzione, quella di contenimento della collina, regolandone il regime idrogeologico. Era indispensabile, infatti, evitare il rovesciamento a valle di torrenti di melma, che si producevano facilmente durante la stagione delle piogge: tra le zone maggiormente interessate dal fenomeno ricordiamo la collina di Capo di Monte e le valli sottostanti, periodicamente sommerse dalla «lava delle Vergini». La sistemazione del suolo comunque serviva non solo a cautelarsi dal pericolo di frane e smottamenti, ma anche a favorire una produzione agricola più varia ed intensa. In pianura invece una rete di fossi collettori permise la sistemazione dei fondi paludosi convertiti in terreni destinati al lino o ai cereali. Queste operazioni interessarono il vasto acquitrino presente all’esterno di Castel Capuano [89].  

Per quel che concerne invece gli acquedotti sappiamo che il 28 maggio 1275 Carlo I scrisse al giustiziere di Terra di Lavoro perché imponesse ai cittadini di Napoli e dei casali circostanti una sovvenzione di cento once d’oro da affidare a Sergio Pinto di Napoli e Giovanni Siginulfo, uomini fedeli al re, con il compito di pulire e riparare l’acquedotto che portava l’acqua dal fiume Sarno alla sorgente Formelli di Napoli, e poi a tutte le fontane e pozzi sparsi sul territorio. Tali condutture erano colme di melma e fango: un «periculo manifesto» per gli abitanti. Gli stessi pozzi e fontane «propter salutem tam hominum omnium, tam avium quam scolarium et aliorum, etiam exterorum» dovevano essere spurgati e ripuliti. I due incaricati dovevano inoltre badare che nelle condutture «nullum immunditie lutum limositas vel sorder remaneant», e se danneggiate «bene reparari et copriri faciant, ut nulla ... sordes vel immunditia possit in ea descendere». L’acqua che era «quasi fetida inutilis et corruptibiles ad bibendum», dopo gli opportuni interventi doveva risultare purificata da ogni sporcizia, buona e utilizzabile senza che generasse pericolo. Qualora fosse stata commessa qualche negligenza durante i lavori, il re avrebbe comminato una pena severa [90].

A Capua gli abitanti furono tassati dalla Corona per raccogliere la somma necessaria alla riparazione dell’acquedotto che conduceva l’acqua dal Monte di S. Angelo in Formis a Capua. Carlo I nell’ordine specificava che la somma doveva essere destinata alla «reparatione tantum et non constructione de novo facienda ... convertendam». Qualora si fosse proceduto alla sua ricostruzione essa sarebbe stata totalmente a carico dell’Università [91]. Qualche tempo dopo Carlo Martello, principe di Salerno, ingiunse a Guglielmo di Dragone, Gileto Franco e Giovanni Zito, abitanti di Capua di far «mundari et reparari» l’acquedotto perché rotto e colmo di rifiuti, che rendevano sporche le fontane. I lavori dovevano aver luogo nel corso del mese di giugno, non andando oltre l’8 luglio. Da ciascun rotolo di carne o pesce venduto in città doveva essere prelevato «quarte partis unius grani auri» destinata all’espletamento dei lavori. Nessuno inoltre doveva osare rompere l’acquedotto «pro irrigandis terris» [92]. L’8 giugno 1319, sotto il regno di Roberto, veniva rinnovata all’Università di Capua la concessione di costruire un nuovo acquedotto ritenuto indispensabile [93].  

Il 19 aprile 1279 Carlo I ordinò al giustiziere di Basilicata di far eseguire i lavori di riparazione del palazzo fortificato di Lagopesole e specialmente all’«aqueductus per quas aqua derivatur ad fontem existentem», entro la fine di maggio, di modo che l’edificio potesse essere abitato comodamente. L’acquedotto, infatti, necessitava di una ripulitura dalla sabbia e dalle altre immondizie che ivi si trovavano, in maniera tale che l’acqua potesse liberamente scorrervi [94]. Nel dicembre del 1285 invece Carlo Martello ordinava di spurgare gli acquedotti di Venosa perché guasti e pieni di lordure e cadaveri [95].

In occasione della costruzione della rete idrica del castello di Lucera (recentemente rinvenuta durante uno scavo), re Carlo I scrisse al giustiziere di Terra di Bari perché reperisse per il sabato della vigilia delle Palme, a Trani e a Barletta, almeno dieci maestranze capaci di scavare pozzi, e le inviasse a Goffredo di Bosco Guglielmo, responsabile della costruzione castrense [96].

Nel marzo del 1279 si ordinava invece al giustiziere di Capitanata di far riparare l’acquedotto di Lucera, affinché l’acqua pluviale potesse scorrere senza impedimento ed essere convogliata nella cisterna della domus regia [97]. Cure particolari erano riservate pure al vivarium di S. Lorenzo in Pantano, il quale doveva essere custodito e conservato diligentemente, ripulendolo dagli eventuali rifiuti e provvedendo alla riparazione delle sue condutture in caso di rottura. Nel 1278, per far fronte all’imminente siccità estiva, Carlo I ordinava che si provvedesse con particolare urgenza ai lavori di depurazione e riparazione dell’impianto ( un acquedotto a volta, secondo Haseloff) [98]. Altri ordini simili furono ripetuti nella primavera del 1280: il re infatti incaricava il giustiziere di Capitanata di raccogliere i soldi necessari alla riparazione dell’acquedotto, affinché l’acqua potesse tornare liberamente a scorrervi, senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa del vivaio [99].

Anche nella città dell’Aquila furono realizzate opere pubbliche essenziali, come l’acquedotto costruito con la partecipazione di tutta la popolazione nel 1304-1305, «captando le acque di Santanza e convogliandole in un condotto di 8 palmi per 3 fino alla quota di due torrioni», e la grande cloaca, che scendeva «fino sotto la Rivera», i cui lavori furono intrapresi in seguito ad un decreto regio del 1312 in cui si ordinava di «togliere dall’interno della città calcinaria et spurcitias», a testimonianza di una precaria condizione igienica, ma anche di una grande vitalità [100]. Ancora, il 10 giugno 1334 la principessa Caterina concedeva agli abitanti di Taranto di prelevare per la costruzione di un acquedotto ben 40 once d’oro dalle somme dovute alla curia principesca, purché alcune persone facoltose garantissero il completamento dei lavori entro Natale [101]. Tra le opere di pubblica utilità erano contemplate non solo le bonifiche di terreni, ma anche le costruzioni di vie, ponti e altre infrastrutture [102]; lavori che molto spesso rientravano tra le prestazioni feudali che i sudditi dovevano ai loro signori [103].

Il 24 gennaio 1277 Carlo I scrisse al giustiziere di Basilicata perché divulgasse «per singulas partes iurisdictiones tue et sub certa pena» l’ordine di riparare ponti e strade [104]; mentre agli abitanti di Gaeta qualche anno dopo fu concesso di ricostruire «pons cuiusdam fluminis prope terram ipsam Gayeti per quem ad terram eandem habetur aditus» [105].

Tornando alle paludi, c’è da aggiungere un’ultima cosa: per quanto potessero essere nocive alla salute, esse erano ampiamente utilizzate per la caccia ai volatili, la pesca, la raccolta delle canne. Il barone Giovanni d’Acaja, ad esempio, concesse nel 1450 all’università di Otranto la facoltà di tagliare e bruciare canne dalla palude la Cucuza di Segine, da quella di Vanze presso S. Pietro delle Paludi e da quella di Campo Vetrano, facendo scorrere a suo piacimento l’acqua dalla palude di Segine al mare, ricevendone in cambio l’esenzione dei dazi sul vino mosto per 200 barili e sul pane, per sé e la sua famiglia [106].

Le aree palustri, acquitrinose e torbose, o gli specchi d’acqua naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con acqua ferma o corrente, dolce, salmastra o salata, compresi i tratti di mare la cui profondità non ecceda i sei metri con la bassa marea, sono considerate zone umide, secondo la definizione data dalla Convenzione Internazionale di Ramsar del 1971. Nella sola Italia in passato esistevano circa tre milioni di ettari di zone umide, pari al 10 % dell’intero territorio peninsulare, che secoli e secoli di prosciugamenti, sfruttamenti e vari inquinamenti hanno ridotto a soli duecentomila ettari, dei quali cinquantamila sono stati dichiarati di importanza internazionale. Il fatto è che nelle regioni mediterranee paludi, laghi, lagune svolgono una funzione importante non solo per la fauna selvatica ma anche per la riduzione dei rischi di inondazione, per la protezione costiera e per l’alimentazione della falda freatica, che fornisce grandi quantità di acqua potabile alle città. Purtroppo in passato tali aspetti non sono stati presi in considerazione perché ignorati, per cui i paesi europei hanno distrutto più del 60 % delle loro zone umide, perché considerate ambienti infestati dalla malaria, pieni di zanzare, terreni da drenare, riempire o comunque convertire in area coltivabile. Con la scomparsa di queste aree, o meglio di questi «ecosistemi», molte specie di animali hanno subito un forte calo, perché quasi la metà di esse dipendono dagli ambienti umidi. Solo oggi è possibile misurare i danni causati dalla scomparsa di queste zone di svernamento e di sosta lungo le rotte migratorie degli uccelli. Esse inoltre, trattenendo l’acqua per gran parte dell’estate, risultano molto produttive: la vegetazione acquatica si riproduce velocemente raggiungendo anche le 40 tonnellate di biomassa vegetale per ettaro all’anno. Altra ricchezza è la pesca: si pensi alle lagune italiane nord-adriatiche. Tali zone umide tuttavia sono ecosistemi complessi che richiedono da parte dell’uomo un’attenta gestione. Il fatto è che sono davvero pochi i fiumi che seguono il loro corso naturale, perché nella maggior parte dei casi essi sono stati sbarrati, cementati o prosciugati. Il futuro delle zone umide del Mediterraneo europeo dovrebbe essere stabile perché ne è ben riconosciuto il grande valore ambientale [107].

Con quanto detto non si vogliono affatto mettere in discussione gli interventi di bonifica compiuti in passato, senza i quali le popolazioni meridionali sarebbero state decimate dalla malaria. Quelli medievali furono comunque dei piccoli, limitati ed empirici tentativi, visto che le zone e le località interessate dal paludismo e dalla malaria erano tante. Nella sola Puglia, ad esempio, la bonifica su larga scala del territorio significava debellamento di acquitrini, acqua stagnanti e paludi, frequenti soprattutto nel Barlettano dove, non di rado, l’Ofanto straripava, sui litorali salentini e in tutte le zone lacustri e prossime agli sbocchi in mare dei corsi d’acqua. Queste zone erano interessate più che da interventi di bonifica da uno sfruttamento per la caccia e la pesca che vi si praticava ampiamente [108].

In conclusione, è opportuno porre l’accento su alcuni degli ostacoli incontrati nel corso della ricerca. Il presente lavoro non ha affatto la pretesa di aver affrontato in maniera esaustiva problematiche complesse, inusuali (dato il periodo storico cui si riferiscono) e soprattutto poco studiate. La maggiore difficoltà, di ordine bibliografico, è consistita nel reperimento non tanto delle fonti, la maggior parte delle quali abbondano di informazioni utili, quanto della letteratura storiografica, datata se non, talvolta, inesistente.

        


NOTE  

[55] Idem, pp. 47-57.

[56] F. Genovese, La malaria nel Mezzogiorno d’Italia, Roma 1927.

[57] P. Corti, Malaria e società contadina nel Mezzogiorno, in Storia d’Italia, Annali VII, a. c. di Della Peruta, p. 642: le paludi erano inoltre presenti fra il circondario di Nicastro e una parte del comune di Monteleone e Palmi.

[58] Genovese, La malaria cit., pp. 15-17.

[59] Corti, Malaria e società cit., p. 462.

[60] R. Iorio, Siponto, Canne, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo (Atti delle X giornate normanno-sveve, Bari, 21-24 ottobre 1991), a.c. di G. Musca, Bari 1993, p. 399: secondo l’A. la preoccupazione principale di Manfredi sembra essere il porto, anzi il nuovo porto, perché stabilisce « ut victualia omnia (....) qua per mare concesserimus extrahenda per quoscunque de jurisdictione ipsa extrahi debeant, et liceant de portu civitatis eiusdem et non alio tantummodo extrahantur», ibidem.

[61] Matteo Spinelli, Diurnali(1247-1268), in G. Del Re, Cronisti e scrittori cit., vol. II, p. 727.

[62] Filangieri, Territorio cit., p. 208.

[63] Genovese, La malaria cit., pp. 17-19.

[64] Filangieri, Territorio cit., p. 207.

[65] Corti, Malaria e società cit., p. 642.

[66] I. Peri, Uomini, città e campagne in Sicilia dall’XI al XIII secolo, Bari-Roma 1978, p. 7.

[67] S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, Storia d’Italia, a.c. di G. Galasso, vol. III, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Torino 1983, pp. 451-452.

[68] Ibidem.

[69] A. Ioli-Gigante, Messina [Le città nella storia d’Italia], Bari 1980, p.19.

[70] Ciasca, Le bonifiche cit., pp. 23-24.

[71] J.L.A. Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Friderici II (d’ora in poi H.B.), V, 2, pp.907-908: «Fredericus, etc, B. Pissono justitiario Aprutii, etc. Accedens ad presentiam nostram Theal., magister operis lacus Fucini, fidelis noster, proposuit coram nobis quod cum dudum ad petitionem hominum contrate mandaverimus Hectori de Montefuscolo tunc justitiario Aprutii, fideli nostro, ut formas ipsius lacus que propter operis constructi malitiam et vetustatem erant pone ruinam, purgari et aperiri faceret, ut atque superflue Fucini que ipsum occupant inde labantur sicut antiquitus fieri consuevit, et idem justitiarius juxta formam mandati nostri ad executionem ipsius operis processisset».

[72] Idem, pp. 38-42.

[73] Caggese, Roberto cit., vol. I, p. 87.

[74] Idem, pp. 66-67 (doc. del 29 maggio 1307).

[75] Per tutte queste notizie cfr. Caggese, Roberto cit., vol. I, pp. 496-500.

[76] Ripalonga, citata sia in alcune chartae della Capitanata che in uno degli atti della Cancelleria angioina (R.A., n. 235, 13 febbraio 1322) di cui ci ha lasciato memoria il Caggese, non compare nell’elenco delle località scomparse della Capitanata, redatto da M. S. Calò Mariani nella prefazione all’edizione italiana dell’opera di A. Haseloff, Architettura sveva nell’Italia Meridionale, Bari 1992.

[77] Caggese, Roberto cit., vol. I, pp. 635-637.

[78] Idem, vol. II, p. 132.

[79] Cfr. Pietro da Eboli, Liber ad honorem Augusti, in Fonti per la Storia d’Italia, a.c. di G. B. Siracusa, Roma 1906, vv. 466-81 (a. 1191); Anonimo Cassinese, Cronaca (1000-1212), in Del Re, Cronisti e scrittori cit., vol. I, pp. 472-73 (a. 1191): «Imperator infirmus, majori parte suorum, aeris intemperie, mortua, captis obsidibus de Sancto Germano...»; Riccardo di San Germano, Chronicon, ivi, vol. II, p. 9 (a. 1191): «Cumque nec viris nec viribus pugnando proficeret, superveniente aegritudine, degressus est abinde vel invitus, qui...».

[80] Che Enrico VI abbia nuovamente contratto la malaria durante la sua permanenza in Sicilia è avallato sia da alcuni dati di fatto, come la presenza nell’isola di estese zone paludose e insalubri e la periodicità con cui l’infezione si manifesta, che dalle fonti. Riccardo di San Germano, infatti, così narra l’avvenimento: «Guillelmus Monachus, qui Castellanus erat castri Johannis, rebellavit Imperatori, ad quem obsidendum cum ipse personaliter accederet Imperator, superveniente aegritudine, abinde infirmus discendens, sicut Domino placuit, diem clausit extremum», in Riccardo di San Germano, Chronicon, cit., p. 15 (a. 1196). Il riferimento alla partita di caccia è invece una tesi avanzata da Ciasca, Storia delle bonifiche cit., p. 21.

[81] Idem, p. 147-148.

[82] nicolai de iamsilla, De rebus gestis Frederici II cit., pp. 117-118.

[83] saba malaspina, Rerum Sicularum historia (1250-1285), in Del Re, Cronisti e scrittori cit., vol. II, pp. 210-211.

[84] filangieri, Territorio cit., p. 209.

[85] Idem, p. 48.

[86] De Seta, Napoli cit., p. 41.

[87] camera, Annali cit., vol. II, pp. 84-85; il provvedimento è contenuto anche in Minieri-Riccio, Studi Storici cit., p. 83, Reg. 1300-1301.

[88] camera, Annali cit., vol. II, pp. 90-93. Del porto di Napoli si è occupato Giuseppe Galasso in una relazione presentata alle X giornate normanno-sveve dal titolo Napoli e il mare. La relazione, esaustiva quanto a descrizione delle vie di traffico, dei commerci e dell’arsenale del porto, non accenna tuttavia alla condizione dei fondali e alla praticabilità del porto in età sveva: G. Galasso, Napoli e il mare, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo cit., pp. 27-37.

[89] De Seta, Napoli cit., pp. 58-61.

[90] R.A. XIII (1275-1277), n. 191, p. 247-248. L’ordine viene nuovamente ribadito ai cittadini di Napoli: idem, n. 219, pp. 257-258. Dal Camera apprendiamo che una prima operazione di bonifica dell’acquedotto napoletano, forse disattesa dagli abitanti, era stata già disposta da Carlo I nel 1268 (Annali cit., vol. I, p. 290). Anche i pozzi, le cisterne, l’acquedotto e i canali di scolo del castello furono sottoposti periodicamente ad operazioni di pulizia, come si evince da un ordine di Carlo al baiulo di Napoli: «purgari et mundari facias, actentius curaturus quod ... nullam committas negligentiam ...», R.A. II (1265-1281), n. 251, p. 71.

[91] R.A. XI (1273-1277), n. 217, p. 134.

[92] R.A. XIV (1275-1277), n. 192, pp. 38-39. Nel marzo 1278 re Carlo ordinò ancora una volta di accomodare gli acquedotti sotterranei che dal Monte di S. Angelo in Formis conducevano l’acqua nella città per uso sia dei cittadini che della regia Camera, in R.A. XVIII (1277-1278), n. 234, p. 120.

[93] Caggese, Roberto cit., vol. I, p. 411.

[94] R.A. XX (1277-1279), n. 453, p. 170; R.A. XXI (1277-1279), n. 224, pp. 147-148.

[95] R.A. XXVII (1283-1285), n. 166, pp. 29-30.

[96] R.A. XIV (1275-1277), n. 334, p. 204. Sappiamo che canali e acquedotti furono fatti costruire anche nel castrum di Bari: R.A. XIX (1277-1278), n. 300, p. 193. Dei problemi inerenti al rifornimento delle materie prime, indispensabili per la costruzione e riparazione di domus e castelli, e della direzione dei lavori si è occupata Benedetta Cascella in un recente saggio, nel quale è illustrato il funzionamento della rete gestionale delle foreste e degli spazi boschivi del Regnum dall’età normanna a quella angioina: B. Cascella, I «Magistri Forestarii» e la gestione delle foreste, in AA.VV. Castelli, foreste, masserie, potere centrale e funzionari periferici nella Puglia del secolo XIII, a.c. di R. Licinio, Bari 1991, pp. 47-94.

[97] R.A. XXI (1278-1279), n.111, p. 106.

[98] haseloff, Architettura sveva cit., pp. 80-81.

[99] R.A. XVIII (1277-1278), n. 588, p. 281 e n. 281, p. 299; R.A. XXII (1279-1280), n. 282, p. 63. Poichè la Corona non sapeva a quali comunità spettasse la manutenzione della conduttura, il giustiziere era tenuto ad accertare la località. L’obbligo alla manutenzione della conduttura quindi non spettava alle stesse comunità che dovevano provvedere alla domus; per questo, conclude Haseloff, si può supporre che la conduttura d’acqua fosse un impianto esteso proveniente da lontano, in haseloff, Architettura sveva cit., p. 81.

[100] A. clementi, L’Aquila [Le città nella storia d’Italia], Bari 1986, p. 45.

[101] M. Pastore, Fonti per la storia di Puglia: regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza, in Studi in onore di G. Chiarelli, a.c. di M. Paone, II, Galatina 1973, pp. 223-224, doc. n. 6 (1334, 10 giugno).

[102] R.A. XXXII (1289-1290), n. 317, p. 187: «Carlo Martello (principe di Salerno e reggente del regno) ordina opere di pubblica utilità come bonifiche di terreni e costruzioni di vie».

[103] Caggese, Roberto, vol. I, p. 293.

[104] R.A. XV (1266-1277), n. 84, p. 86.

[105] R.A. XXIII (1279-1280), n. 217, p. 304; R.A. III (1269-1270), n. 209, p. 138; e n. 102, p. 111.

[106] Pastore, Fonti per la storia cit., pp. 246-247, doc. n. 26 (1450, 16 maggio, ind. XIII, Alfonso I re, a. XVI, Giovanni Antonio del Balzo Orsini conte di Lecce, a. V, Lecce).

[107] S. Skinner, L’importanza delle zone umide per l’ecosistema mediterraneo, in «Panda», mensile del W.W.F., 3 (marzo 1994), pp. 19-20.

[108] Licinio, Uomini e terre cit., pp. 95-96.

   

      

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