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di VITO BIANCHI

  

«… C’era una volta un castello: e via, con la fantasia a rincorrere gli spazi incantati delle fiabe tante e tante volte ascoltate da piccoli, e a volare con le suggestioni evocate dai racconti fantastici di belle addormentate e cavalieri coraggiosi, o di prigionìe disperate e terribili fantasmi. E le parole divengono pietra, le novelle riscoprono il loro habitat naturale: alla rocca Malatestiana di Gradara, i turisti accorrono ancor oggi per farsi commuovere dalla tragedia di Paolo e Francesca, storia di passione e gelosia impressa a fuoco vivo già nella Divina Commedia dantesca. E quasi al confine fra le Marche e l’Emilia, a San Leo la rocca dei Montefeltro esibisce il “Pozzetto”, cioè la cella del conte di Cagliostro, alias Giuseppe Balsamo, alchimista e avventuriero siciliano, in odore di esoterismo: il che non guasta, nell’alimentare il mistero aleggiante intorno alle leggendarie peripezie di quest’uomo sfuggente, messo ai ceppi in un luogo altrettanto misterioso, qual è un fosco torrione.

  

IL PALAZZO DEI DESTINI INCROCIATI

Eros e thanatos, amore e morte sono dunque generati all’ombra dei manieri, che nell’immaginario collettivo sono il simbolo di un Medioevo all’apparenza oscuro, ma che pure da quell’oscurità trae parte del fascino che ha accompagnato per secoli l’idea stessa del castello. C’è la curiosità di entrarvi, e contemporaneamente c’è il timore di entrarvi. Anche per paura dell’incantesimo, che possa risolversi tutto in un’illusione, in un bluff, in una proiezione smaterializzata della propria anima: nell’Orlando Furioso dell’Ariosto, il mago Atlante ha edificato con un sortilegio il grande palazzo in cui si smarriscono i paladini alla ricerca di una donna, del cavallo o delle armi perdute. E’ lì che si finisce per vagare dietro al proprio desiderio, inseguendo ciò “che più per sé ciascun brama e disìa”, affannandosi a girare e rigirare “di su di giù camere e loggie e sale”, senza mai appagare la speranza, senza poter toccare la felicità, nell’eterno gioco dei destini incrociati. Tutto sommato, si è un po’ distanti dall’orribile castellaccio ariosteo del malvagio Caligorante, dove “Son fisse intorno teste e membra nude / de l’infelice gente che v’arriva. / Non v’è finestra, non c’è merlo alcuno / onde penderne almen non si vegga uno”, e dove “D’altri infiniti sparse appaion l’ossa / et è di sangue uman piena ogni fossa”.

NERI DI PAURA

Già, perché dall’immaginazione popolare più antica è stato trasmesso al Duemila un castello “bianco-principe” e un castello “nero-orco”. Nero, come i romanzi gotici che nel Settecento mandarono in stampa Il castello di Otranto di Horace Walpole (1764), o I misteri di Udolpho di Ann Radcliffe (1794), o Il monaco di Matthew Lewis (1796). Nero, come in Bretagna i torbidi avanzi dei “castelli di Barbe-bleu”, una figura identificabile con il maresciallo Gilles de Rais, condannato alla pena capitale nel XV secolo per aver commesso orribili nefandezze sui bambini, più che sulle donne. Evidentemente, la celebre favola di Charles Perrault ha un fondamento reale, che ha continuato a riecheggiare sin nella Cina medievalizzata del regista Zhang Ymou: nel film Lanterne rosse (1991), ambientato in un brumoso castello cinese, la concubina-protagonista subisce la vendetta del marito-padrone per aver visitato la stanza segreta, la camera del sangue. E’ la stessa Bloody chamber descritta nel 1979 da Angela Carter, nella riscrittura di un racconto imperniato intorno e dentro agli ambienti portentosi, ostili e minacciosi di un lugubre maniero. Il noir dei castelli torna dunque a colpire oltre ogni tempo, e il codice genetico della loro “fama sinistra” riesce anche adesso, sistematicamente, ad ammantare di cupo terrore le coscienze.

COME IN UNA FAVOLA

Il bianco dei castelli fatati è invece un cromatismo più recente, che discende in buona parte dalla concezione ottocentesca di un romanticismo vissuto fra le nostalgie e i vagheggiamenti di un Medioevo sognato e trasognato. Ed ecco il lucus fabulae cristallizzarsi magicamente nello stupefacente castello di Neuschwanstein, elevato nel 1869 dal re di Baviera, Ludwig II, al ridondare delle musiche wagneriane: delle torri cilindriche così snelle e svettanti si vedono solo al castello di Cenerentola a Walt Disney World, in Florida, in un mondo fiabesco riprodotto col candore delle architetture sormontate da guglie azzurrissime. Lo spirito di quell’Ottocento tanto scenografico e letterario, intinto di un medievalismo più che mai romantico, aveva rivestito persino le nozze di Vittorio Emanuele II, celebrate a Torino nell’aprile del 1842 fra atmosfere tirate fuori pari pari dalle pagine di Walter Scott. Dev’essere la stessa molla che scatta adesso, allorché dei novelli sposi decidono di ospitare il ricevimento nuziale all’interno di castelli adibiti per l’occasione a ristorante, immergendosi in una favola e sentendosene i personaggi, almeno per un giorno. In effetti, Bruno Bettelheim ci ricorda che il compito delle fiabe risiede nel dare espressione simbolica ai riti di passaggio o iniziatici, caratterizzati dalla fine di una determinata condizione esistenziale e dalla rinascita in una nuova dimensione: festeggiato nel castello, il matrimonio riscopre concretamente una simile dinamica.

  

ANTENATI BEN PIAZZATI

Bianchi e neri, torri e alfieri, re e regine: davvero gli scacchi e la scacchiera sanno riprodurre, sintetizzandola, la duplice percezione dei castelli. Deliziosi a volte, e a volte terrificanti, secondo la distinzione tanto bene individuata da Italo Calvino nella favolistica. E qualunque sia il contesto, nella nostra testa la sagoma, l’odore, i contorni del castello rimangono sempre e assolutamente quelli del maniero medievale. Eppure, le origini sono altre, diverse e variegate. Risalendo nella Storia, in tutta l’Europa continentale si possono ad esempio incontrare sin dall’età preistorica recinzioni anulari in terra e muretti a secco, frequenti nella Francia centrale, nella Germania occidentale, in Gran Bretagna e nei Paesi slavi, e assimilabili ai “castellieri” scoperti in prevalenza nelle regioni mediterranee. Fra il 1350 e il 1250 a.C. vengono poi innalzate le spettacolari residenze palaziali di Tirinto, Pilo e di Micene con la sua monumentale Porta dei Leoni: cunicoli, gallerie, apprestamenti difensivi e locali di servizio si addensano in posizione sovrastante attorno al megaron, la sala col focolare che è il cuore delle rocche, circondate dall’abitato sparso ai piedi dell’altura. E un puro insediamento militare è riconoscibile nel complesso fortificato di Gla, in Beozia. Dalle vestigia micenee alla civiltà nuragica della Sardegna, il passo è più breve di quanto si pensi. Cambia il territorio e la cronologia, ma si riafferma l’intento di controllare colli, passi montani, tratturi e villaggi con dei nuraghi dall’assetto sorprendentemente affine ai castelli medievali: a Torralba, in provincia di Sassari, la fortificazione di Santu Antine, databile fra il IX e il VII sec. a.C., presenta in effetti una sorta di mastio ante litteram di forma troncoconica, recintato da mura massicce e da un nugolo di torrette più basse.

 

ANCHE I LUCANI NEL LORO PICCOLO…

Dal canto loro, i Greci d’età classica ed ellenistica praticarono adeguatamente l’architettura militare con imponenti cinte murarie e sofisticati torrioni di sorveglianza chiamati purgoi: il Castello Eurialo di Siracusa, voluto dal tiranno Dionisio il Vecchio nel 402 a.C., è un po’ il succo delle conoscenze greche in materia di fortezze, tanto da aver continuato a costituire il perno difensivo della città sino all’alto Medioevo. Agli efficientissimi modelli greci si ispirarono verso la metà del IV sec. a.C. anche le popolazioni entrate in contatto con la grecità, dal sud al nord del Mediterraneo, dai Lucani che presidiavano la Basilicata con dei grossi fortilizi, agli indigeni che erigevano l’oppidum di Saint-Blaise, in Provenza.

ALLE FRONTIERE DELL’IMPERO

Ai bordi dell’impero, i Romani si servirono di castra per proteggere il limes, sistemando alle frontiere delle guarnigioni semipermanenti, inquadrate entro fortini che in un primo stadio furono in legno, e poi divennero in pietra. Al di qua dei confini imperiali, l’impulso a fortificare ville private nelle campagne si impose man mano che nel periodo tardo-antico cresceva l’insicurezza, mentre con la transizione verso i regni barbarici furono i Goti a incentivare la creazione di munitissime defensiones. E ancora in epoca giustinianea, sullo schema quadrangolare delle piazzeforti romane vennero ricalcati i kastra e i kastellia bizantini, che si diffusero in Dacia, Dardania, Mesia, Epiro, Macedonia e Tracia, distribuendosi in una catena di sbarramento lungo il Danubio (Procopio nel De aedificiis ne conta un’ottantina lungo il fiume) e propagandosi nel Vicino Oriente, fra Siria e Giordania, laddove attinsero alla tradizione edilizia islamica.

  

FORTILIZI AL QUADRATO

Derivata idealmente dalla romanità, e pur mescolata con elementi orientali, la perfetta geometria della costruzione ad quadratum non poteva comunque scomparire: si perpetuerà e si affinerà, infatti, forse anche per l’intervento di abili muratori cistercensi, nella meticolosa modularità del Castello Ursino a Catania, commissionato da Federico II fra il 1239 e il 1240. Era un po’ l’impronta di Roma che tornava in auge, e forse non a caso, nell’estrinsecazione visiva del potere imperiale federiciano. Da allora, dalla ricomparsa nel rinnovato prototipo catanese (che per la ricorrenza del numero quattro ha indotto a ipotizzare enigmatici e fantasiosi significati esoterici), il modulo quadrato caratterizzerà frequentemente il disegno delle dimore principesche, dal castello visconteo di Pavia a quello di Verrès, in Val d’Aosta. E qui siamo abbondantemente penetrati nel Medioevo. Che è il tempo dei castelli per eccellenza. Tagliato su misura, familiare ai manieri. Tempo di favole in chiaroscuro, da cui è più facile incominciare, o ricominciare a raccontare: c’era una volta un castello…».

     

  

©2002 Vito Bianchi; brano tratto da: Vito Bianchi, Il Castello. Un’invenzione del Medioevo (Medioevo Dossier), De Agostini-Rizzoli, Milano 2001.

  


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