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di RENATO BORDONE

                       …un cavaliere dall'armatura tutta bianca;solo una righina nera correva torno torno ai bordi… (Italo Calvino)

 

Pochi concetti di lontana ascendenza risultano così radicati e persistenti nella cultura dell’Occidente come quello del cavaliere e della cavalleria. Da quando nacque storicamente, al principio del secondo millennio dopo Cristo, fino a oggi una catena pressoché ininterrotta di immagini ripropone nella letteratura, nell’arte, nell’intrattenimento la figura del guerriero a cavallo, difensore delle donne e dei deboli. Quell’immagine evoca un ideale di comportamento proposto all’emulazione degli uomini di ogni secolo che si è susseguito dal medioevo, immutata nella sostanza anche se adattata ai costumi dei tempi, fino a rimanere oggi un puro simbolo astorico, relitto linguistico o metafora del parlare comune (“un avversario cavalleresco”, “i cavalieri del cielo”). Un cavaliere inesistente, come quello di Calvino, dentro il vuoto involucro dell’armatura.

Ci si è chiesti, allora, donde provenisse il fascino persistente di un’inesistenza così reale, come si incarnasse nel tempo questo archetipo storico, quali prospettive offrisse all’interpretazione dei nostri desideri. Che cosa collega, in altri termini, il misterioso Shane, il “cavaliere della valle solitaria”, con Lancillotto, i cavalieri Jedi di “Starwars” con quelli di re Artù? Perché tutti - cowboys, astronauti, ma anche atleti, ufficiali, raddrizzatori dei torti in genere - non possono che essere “cavalieri”? Che cosa c’è di “medievale” in tutto questo? E perché?

  

Occorreva partire dal prototipo. Da quel combattente a cavallo dell’XI secolo che, nella militarizzazione della società del tempo, ben presto si distingue dal resto della popolazione inerme per assumere poi una condizione di superiorità politica, attribuendosi ideologicamente prerogative di pertinenza regale. La funzione di difesa e di protezione dell’ordine nell’alto medioevo individuata dalla Chiesa nel rex-bellator passa cioè ai suoi collaboratori bellatores: il cavaliere infatti collabora militarmente con il re, ne amplifica le funzioni; la sua investitura ripete a livello inferiore la cerimonia della consacrazione regia; del re assume le virtù e le responsabilità. Si tratta evidentemente di una costruzione ideologica, elaborata dall’aristocrazia e dalla Chiesa per disciplinare l’irruente categoria dei combattenti senza risorse economiche alle dipendenze dei signori di castello, e per conferire loro funzioni sociali e ideali di gruppo, indirizzandone la violenza contro i musulmani durante le crociate. La letteratura, ben più della Chiesa, però offre loro dei modelli di comportamento fondati su valori guerrieri: prodezza, generosità, cortesia, prodigalità, buone maniere, rispetto per la donna trasfigurato nell’amor cortese costituiscono infatti le norme di quel codice cavalleresco destinato a perdurare nei secoli come “ideale di una vita più bella”.

Di questo ideale di distinzione, di questa ‘nostalgia di regalità’ si appropria fin dal medioevo la nobiltà europea, conservandolo gelosamente come elemento di identità di mano in mano che a tale condizione accedono nuove componenti sociali; la nobiltà è una classe più aperta di quanto non si creda, che nei secoli conosce apporti successivi: è il codice cavalleresco a conferirle omogeneità. Il mito della cavalleria appare dunque consolidato come tale già nel basso medioevo: ha i propri testi sacri (i romanzi cavallereschi) e i propri riti (i tornei, le giostre, i passi d’arme), aspira alla rievocazione di un mitico tempo originario di perfezione (“O gran bontà dei cavalieri antiqui”), a una “cavalleria inesistente”.

Eppure la cavalleria per tutto il basso medioevo e oltre svolge ancora una funzione militare, il cavaliere è l’ “ufficiale e gentiluomo” che inquadra la truppa, l’investitura cavalleresca assume il ruolo di onorificenza, è l’ambìto riconoscimento del valore bellico o dei meriti maturati a corte. I sovrani creano ordini cavallereschi (il Toson d’Oro, la Giarrettiera) che, a imitazione degli antichi ordini religioso-cavallereschi sorti con le Crociate (Ospedalieri, Templari, Teutonici), raccolgono il fiore della nobiltà, ormai ammantata in modo permanente degli elementi indicatori funzionali al combattimento, le insegne araldiche alzate dai cavalieri come riconoscimento in battaglia.

Ma è ormai una società rinchiusa in sé stessa, in un mondo fittizio e asfittico di cui Boiardo e Ariosto in Italia, non meno che Mallory in Inghilterra, colgono, con sensibilità diversa, il significato rievocativo e ludico, inscenando consapevolmente la finzione a beneficio dei protagonisti. Chi invece ne esce fuori, scontrandosi con tutt’altro tipo di realtà, combatterà contro i mulini a vento: don Chisciotte, ultimo cavaliere errante o, ancora una volta, patetico “cavaliere inesistente” alla ricerca dell’ombra di un sogno?

  

Se le tecniche della guerra dell’età moderna ridimensionarono la funzione militare delle cavallerie, non per questo venne meno il codice che ormai soprintendeva ai comportamenti della nobiltà, fondato sull’onore. Quell’onore che può sopravvivere a una sconfitta, come diceva un re cavalleresco per eccellenza - Francesco I alla battaglia di Pavia -, e che nel Seicento diventerà occasione per molti di quegli scontri cavallereschi rappresentati dal duello, inaugurando una lunga stagione di tenzoni onorevoli immortalate dalle cronache e dai romanzi. L’ arma personale diventa così protagonista della nuova coniugazione dello spirito bellicoso della cavalleria, proseguendo una tradizione che ha la sua radice nella consegna medievale della spada: una spada a quel tempo dal peso ragguardevole, talvolta ancora carica di significato magico-sacrale, denunciato da un nome proprio che la personalizza, come Excalibur o Durlindana, e che diventerà poi il fioretto dei moschettieri, la spada dei cavalleggeri, la sciabola degli ussari. Tutti corpi militari che conservano un sodalizio con il cavallo e la fedeltà alle tradizioni di onore e di coraggio, elaborando una sorta di aggiornamento agli antichi codici.

Sarà però il Settecento a rinverdire il versante mitico della cavalleria con la sua riscoperta erudita e insieme emotiva del medioevo: Saint-Palaye, Hurd e infine Chateaubriand, rilanciando l’immagine del cavaliere medievale forniscono gli elementi per la grande stagione cavalleresca del Romanticismo. Del capillare revival medievale dell’Ottocento, il cavaliere appare certo il protagonista assoluto in quanto incarna l’eroe di tutti i desideri e le pulsioni romantiche: l’avventura, l’amore, l’onore. L’Ivanohe di Scott, l’Ettore Fieramosca del d’Azeglio e tutti gli altri “cavalieri inesistenti” che popolano romanzi e romanze, pittura storica e arti applicate. Fino al punto di essere assunto a puro simbolo e di porsi come modello di perfezione, vero “santo laico” del secolo borghese assetato di eroismo o soltanto, ancora una volta, del sogno di una vita più bella, perenne leit-motiv consolatorio della cavalleria inesistente. Sotto questo influsso, l’amore cortese diventa amore romantico, fedeltà all’ideale, dedizione alla donna, l’avventura si trasforma in spirito di intraprendenza, il senso dell’onore rinnova la stagione dei duelli, l’araldica si diffonde e si carica di significati simbolici, la formazione cavalleresca si realizza attraverso l’educazione del gentleman.

Se colpisce la singolarità della riproposizione dei tornei in costume, diffusi ovunque nel corso del secolo, o delle rievocazioni medievali nella arti e nell’architettura, non ci dovrebbero colpire di meno proprio queste manifestazioni meno appariscenti ma in realtà più radicate nel profondo dello spirito del tempo che regolano comportamenti e sentimenti dell’uomo dell’Ottocento, dai collegi di Oxford alle praterie americane, dalla Brigata Leggera che carica a Balaklava ai Ranger del Texas. Ma non solo: ‘cavalleresco’ è il comportamento sportivo indicato da de Coubertin, e persino coloro che si oppongono alla società borghese, di cui la “nuova cavalleria” tutela i fondamenti, possono venire definiti “cavalieri erranti” per la loro lotta all’ingiustizia sociale, come gli anarchici di “Addio a Lugano” (“i cavalieri erranti son trascinati al mar”).

Da quel modello di cavalleria, “inesistente” in quanto ben più “romantico” che non “medievale”, discende l’immagine pervenuta alla nostra cultura odierna, un’immagine tutt’altro che inaridita, anzi costantemente rinverdita dalla riproposizione, palese o occulta, che ci trasmettono i mass-media, dal cinema al fumetto, al punto che c’è da chiedersi se si tratti davvero di neo-medievalismo - che, d’altra parte, in questi anni ha rinnovato la sua fortuna anche nella rievocazione delle forme di quell’età -, o non piuttosto di neo-romanticismo. Comunque sia, e nonostante il definitivo tramonto del modello romantico di comportamento, i brandelli di cavalleria superstiti che si annidano oggi nella fantascienza o nel racconto d’avventura si possono alla lunga riallacciare, anche se attraverso la robusta mediazione ottocentesca, a un archetipo storico, elaborato nel medioevo e trasmesso, come mito consolatorio, dalle età successive. Inesistente o meno, il cavaliere da nove secoli continua a cavalcare nelle praterie dei sogni della cultura occidentale.

  

  

©2002 Renato Bordone

  


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