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di FRANCO CARDINI

La copertina del romanzo

  

Cari Amici, molti mi chiedono notizie relative al mio romanzo storico, che è nelle librerie dalla fine di marzo, e si meravigliano del fatto che io lo “sponsorizzi” poco. In verità, ho molto altro lavoro da fare: e poi la sponsorizzazione spetta all’Editore.

Molti mi chiedono anche perché mi sia messo a scrivere un romanzo storico, e fino a che punto esso sia tale.

Ecco qualche riflessione che forse qualcuno potrebbe trovare non inutile.

Questo libro nasce dalla constatazione di un prevedibile paradosso. In genere, convegni, congressi, grandi mostre e celebrazioni di centenari si annunziano con qualche mese d’anticipo: almeno un anno. Al principio del 2004, sono stato colpito dal fatto che nessuno o quasi, neppure nel natio Uzbekistan, desse segno di ricordarsi che stava per concludersi il seicentesimo anniversario (o, se si preferisce, il sesto centenario) della morte – il 19 gennaio del 1405 - di quella rapida meteora che aveva sconvolto il mondo lasciandosi dietro una scia di terrore: di Timur Beg, che noi chiamiamo di solito col nome non troppo elegante di Tamerlano, ma ch’è pur sempre l’immortale Timur del West-ostlicher Diwan di Johann Wolfgang Goethe, quell’opera poetica senza la quale probabilmente il concetto contemporaneo di “Occidente” non sarebbe neppur nato. E sì che di “Occidente”, e della sua contrapposizione all’“Oriente” che oggi tanti sentono come necessaria ed eterna, di questi tempi di parla e si straparla. Comprensibile silenzio peraltro, dato il pervicace etnocentrismo occidentalista che da noi regna un po’ dappertutto, quindi anche nella considerazione della storia.

Ho cercato di rimediare, molto modestamente, a questa lacuna, rievocando qui quell’antica paura e quell’antica speranza dell’Europa e al tempo stesso richiamando un aspetto di quel che per la nostra cultura è la memoria di Timur, “demone dell’assurdo”, “possente tempesta della superbia”: l’Altro, l’Irraggiungibile, il Temuto. Il Signore della Paura, dal quale tuttavia ci si aspetta arcanamente giustizia; e si amerebbe in realtà mettersi al suo servizio, seguirlo mentre calca le zolle sulle quali non cresce più erba, assistere alla sua gigantesca impresa di Distruttore e di Rifondatore del Mondo; in qualche modo, perfino prendervi parte. Se davvero si credesse nella sua esistenza. Perche Timur, cosi terribile e invincibile, e anche lontano. E allora, sotto sotto, si dubita che sia mai esistito. La nostra cosiddetta “civiltà occidentale” si concede sovente il lusso di dimenticare le verità e le realtà del passato; così come d’inventar menzogne che spiegano o dovrebbero spiegare il presente.

Ma perché, da parte mia, un romanzo, anziché una monografia scientifica, che sarebbe stata più adatta alla mia professione, alle mie competenze, alle mie capacità?

Sento il dovere – dato che da alquanti decenni pratico il “mestiere di storico”, nel quale credo tutto sommato di cavarmela – di spiegare al lettore e soprattutto (ed è molto più arduo) a me stesso perché, a un certo punto della mia esperienza di studioso, abbia ritenuto opportuno tentare, per esprimermi meglio proprio in quanto storico (difatti non sarò comunque mai un romanziere professionista) la forma di quello che si definisce di solito “romanzo storico”.

Una definizione questa che, almeno per quanto mi riguarda, avverto come provvisoria. Non intendo affatto con ciò negare che sia legittimo quel genere letterario. Anzi, dal momento che non sono né storico della letteratura né critico letterario, seguo volentieri l’esempio di tutte le persone di cultura più o meno medio-alta, accettando tale definizione senza troppi problemi ed evitando di discuterla. Insomma: Ivanhoe dello Scott, I Promessi Sposi del Manzoni, La disfida di Barletta del D’Azeglio, e La battaglia di Benevento del Guerrazzi, Guerra e pace del Tolstoi, sono romanzi storici.

Intendiamoci: lo so che le cose non stanno in modo così semplice. Il celebre, dotto saggio edito nel 1845 da Alessandro Manzoni sotto il non breve titolo Del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia e d’invenzione l’ho letto anch’io, sia pur in tempi non proprio recenti: e credo preferirei una seduta dal dentista a una seria e attenta riconsiderazione di quelle illuminanti pagine. Partendo dalla considerazione che il progresso nelle ricerche storiografiche aveva reso straordinariamente complessa la ricostruzione della verità storica, e dalla convinzione che una sia pur condizionata e convenzionale deroga rispetto a tale verità non fosse eticamente sostenibile, il vecchio don Lisander concludeva che una sintesi estetica di verità storica e d’invenzione romanzesca fosse impossibile e approdava a una condanna del “genere”. Vero è che egli stesso ci fornì più tardi uno tra i modelli migliori di quel genere “impraticabile”; e non meno vero è che tre o quattro generazioni più tardi il crocianesimo, insorgendo a sua volta contro il concetto stesso di genere letterario, avrebbe rimesso sul tappeto tutto l’assunto manzoniano, e non solo quello. Ma l’esser crociani non è mai stato grazie a Dio obbligatorio, neppure in Italia tra gli Anni Trenta e Cinquanta: e io, che mi posi tali problemi solo nell’arco dei miei studi universitari, compiuto nella prima metà degli Anni Sessanta, al riguardo mi sentivo semmai gentiliano: mi erano pertanto sommamente uggiose le categorie di “poesia-non poesia” e, quanto alla nota immagine crociana della poesia e della struttura come l’edera sul castello - un’immagine, peraltro, romantica quant’altre mai: e degna appunto del peggior feuilleton pseudostorico -, gentilianamente mi ripetevo che senza la struttura, cioè senza il castello sottostante, l’edera  che nobilmente lo ammanta ma che ne è modellata sarebbe soltanto un ammasso ingarbugliato di verzura.

Più tardi, scrivendo a mia volta - ebbene, sì - un romanzo che potrebbe forse definirsi “storico”, all’immagine dell’edera e del castello debbo una delle peggiori gaffes storico-botanico-letterarie della mia vita. Scegliendo alcuni anni fa come argomento di quel mio romanzo la prima crociata, non seppi resistere alla banale tentazione di metter in scena il solito castello coperto d’edera, sotto il bel cielo autunnale del Casentino. Avevo un modello: la rocca di Porciano, dove a metà degli Anni Settanta, memoires d’Outretombes, ero stato nobilmente ricevuto dalla castellana di allora, la contessa Marta Specht, che aveva sistemato al piano terreno della sua splendida dimora un museo di begli oggetti appartenenti a non ricordo più quale gloriosa nazione di quelli che il linguaggio politically correct di oggi obbliga a definire native Americans, ma che io - figlio d’una generazione che ha amato i films western ed è cresciuta con essi - preferisco continuare rozzamente a chiamar “pellerossa”.

Straordinaria complessità delle vicende reali, talora ben più incredibili di qualunque romanzo. Con i “pellerossa” la contessa Specht ci aveva passato un’ormai lontana prima giovinezza: e quegli oggetti ne erano la memoria  carica di affettuosa nostalgia. Ma dall’America la castellana non aveva recato sull’Appennino toscano solo armi e suppellettili indiane: anche “l’edera” che copriva il suo castello - proprio come nell’immagine dibattuta fra Croce e Gentile - era, in realtà, vite americana, che aveva acquistato nell’autunno dolcissimo di quell’anno tutti i colori e le iridescenze dell’Indian Summer, quando laggiù oltratlantico i nobilissimi aceri dal generoso succo dolce quasi quanto il miele assumono tutti i possibili toni cromatici dall’oro pallido al rosso vinoso alla porpora violacea.

Quell’immagine della rocca di Porciano regalmente ammantata di luce cangiante è uno dei ricordi più belli e più dolci del mio temps perdu. Molti anni dopo, descrivendo appunto nel romanzo l’incontro immaginato verso la fine dell’XI secolo, proprio ai piedi di quella rocca, fra un fiero conte della schiatta dei Guidi, la sua altera e cortese consorte e un povero giovane cacciatore loro vassallo - una pagina, come si vede, a suo modo autobiografica -, cercai di riprodurre quanto meglio la mia povera penna potesse anche quell’atmosfera cromatica, che tuttora ben ho presente perché simile a uno spettacolo che mi è più familiare: la fine dell’estate nel nord degli Stati Uniti o in Canada, oppure la ruska  finlandese. E implacabilmente un’amica e collega medievista molto competente anche in cose di botanica e di floricultura, Hannelore Zug Tucci, presentando qualche mese dopo la sua uscita in libreria il mio L’avventura di un povero crociato a Perugia, m’inchiodò con teutonica precisione alla mia cantonata: l’edera è un sempreverde, mentre la vite americana nell’XI secolo non era ancora giunta ai lidi d’Europa. Col che si condannano per la verità anche parecchi pittori neogotici, perché l’immagine dei castelli dorati e rosseggianti d’autunno è non infrequente nelle tele romantiche. Per non dir del cinema.

Non era certo questo l’unico errore storico contenuto in quel mio “romanzo storico”. Più ancora, insieme a un numero molto più alto di licenze e di trasgressioni volontarie, ce ne sono in questo. Rinunzio a partir alla cerca dei primi e non starò ad elencar le seconde: ricchi premi e cotillons a chi riesce a farne una lista esaustiva. Comunque, al di la d’una componente ludica alla quale io non so mai rinunziare, la ragione per la quale persevero nel tentar la strada del romanzo storico è comunque profondamente seria e professionale.

La storia scientificamente ricostruita, anche quando è il più possibile attenta ai particolari, anche quando è “microstoria”, non riesce mai ad esprimere in modo adeguato la sua stessa complessità. E quel che più sfugge allo storico, o quel che meno egli riesce a restituire, sono i gesti, le immagini, i pensieri. Non c’è dubbio che anche il più mediocre fra gli storici riesca a evitare gli anacronismi ovvi e classici, quelli da manuale, tipo l’orologio incautamente rimasto al polso della comparsa abbigliata da legionario romano nel film Scipione l’Africano di Carmine Gallone: sempre che quella più volte ridicolizzata e incriminata sequenza esista davvero e non sia frutto d’una “leggenda metropolitana” avant la lettre. Ma i veri anacronismi si commettono quasi sempre non a proposito di fatti o di oggetti, bensì di gesti, di atteggiamenti mentali, di sentimenti. E, del passato, sono proprio e soprattutto i sentimenti a sfuggirci.

Niente paura. Vi risparmio qui le lamentele sugli orizzonti perduti e sulla grande illusione di noialtri innamorati della nouvelle histoire d’una trentina d’anni fa, l’histoire des mentalitès: che ben a ragione fu definita “storia ambigua”: e accidenti se lo era. Confesso tuttavia d’avere dedicato appunto quel romanzo sulla prima crociata - un episodio che, come argomento di studio, mi accompagna e mi perseguita dai primi Anni Sessanta - proprio per rispondere a una serie d’interrogativi e di desideri che sul piano storico sentivo irrimediabilmente elusi e insoddisfatti. Non credo esista storico professionista che non provi continuamente la frustrante sensazione di essere rimasto lontano ed esterno se non addirittura estraneo rispetto all’oggetto effettivo e profondo dei suoi studi. V’è, nel passato e nella sua irreversibile scomparsa una volta trascorso “l’attimo fuggente” del suo esistere, un che d’irrimediabile e d’inattingibile che si traduce, per lo storico, in sofferenza: e che forse, invece, il romanziere non prova. Anzi, ch’egli dà l’impressione – almeno nei casi migliori – di padroneggiare o quanto meno di esorcizzare. Non c’è dubbio che Lev Tolstoi conoscesse la biografia di Napoleone peggio di come la conosceva Georges Lefebvre: e che avesse con le tracce dello stesso passaggio dell’Imperatore in questa Valle di Lacrime una confidenza infinitamente meno stretta di quella dell’illustre studioso, il quale aveva potuto vedere e toccare le carte e le suppellettili del grande Corso e visitare i luoghi che lo avevano visto in vita, sugli altari e nella polvere. Eppure, in pochi tocchi, il romanziere russo ci ha lasciato l’impressione d’esse riuscito a cogliere il nucleo dell’autoesperienza dell’Imperatore e il senso dell’orma che egli ha lasciato nella storia in modo molto più totale e profondo di quanto non abbia saputo fare, in lunghi anni di tanto sudate carte, il pur valentissimo storico.

Tanto che, per noi tutti - anche per chi fa professione di ricerca scientifica -, Napoleone sarà soprattutto, e per sempre, quello di Tolstoi piuttosto che quello di Lefebvre: e ciò magari a scapito della verità obiettiva, ma in una prospettiva che finisce col render più affascinante ancora, e più necessaria nella sua inevitabile imperfezione, la ricerca storica. Perché alla fine di un grande romanzo, forse, l’autore o il suo lettore possono anche illudersi di posseder qualche certezza. Ma lo storico non può dal canto suo se non far propria la preghiera del Lessing: Oh, Signore, se Tu mi presentassi le tue mani serrate a pugno, e mi dicessi che in una tieni stretta la verità e nell’altra la ricerca, e mi chiedessi di scegliere, io Ti risponderei che Tua, o Altissimo, è la Verità, e che ti prego di lasciare invece a me quel ch’è mio perché è umano, la ricerca con tutte le sue incertezze, con tutti i suoi errori, con tutti i suoi dubbi. Perché inseguir la verità senza mai raggiungerla, e saper di non poterla raggiungere, eppure gettar la vita in questa corsa: questo è degno della nostra finitezza, della nostra imperfezione. Ribellarsi, questa è la nobiltà dello schiavo, afferma Nietzsche rivolto ai fedeli di Zarathustra; e aggiunge: la vostra nobiltà sia l’obbedienza.

Ebbene, la nobiltà di chi fa storia non è il raggiunger la verità. è lo spender la vita cercandola.

Grazie allo strumento d’una fantasia disciplinata dal senso del probabile e del verosimile, grazie magari a un’immedesimazione un tantino sciamanica, ch’è una specie di stato di grazia il segreto del quale è ignoto a lui stesso, lo storico può avanzare attraverso il racconto romanzesco ipotesi e spiegazioni che si sente urgere dentro, ma rispetto alle quali le sue forze esegetiche e metodologiche sarebbero insufficienti; egli può ipoteticamente ricostruire una verità storica altrimenti destinata a rimaner magari criticamente irreprensibile, ma nel suo complesso lacunosa, grazie alla forza d’una fantasia sostenuta dalla conoscenza delle cose e dei tempi di cui parla: egli può, diciamo così, utilizzare una specie di demiurgico arbitrio per far muovere a suo modo la storia nel momento stesso però in cui vi s’immerge seguendone la corrente; e può far colare un verosimile sapientemente maturato nella sua cucina e nella sua dispensa di specialista fra gli interstizi lasciati liberi dalla “verità” verificabile e controllabile, certa o quasi ma anche parziale, dei dati scientificamente ricostruiti e appurati e delle ipotesi criticamente plausibili e accettabili. Perché la storia è una partita di calcio che si gioca sempre e comunque tra due porte, quella del verosimile e quella del probabile.

Ma c’è ancora di più: un di più che irrimediabilmente ci sfugge eppure ci tenta. Il gioco sottile del dialogo col passato, un’operazione un po’ medianica, un po’ necromantica: un’illusione forse, come appunto lo sono spiritismo e necromanzia. Il dialogo con i morti che hanno lasciato su questa terra - negli archivi, nelle biblioteche, nei musei, nei reperti sepolti e dissepolti - traccia del loro transitare su questa terra che fu anche loro e che provvisoriamente, ora, è nostra.

Un’ultima, breve osservazione. Questo libro abbonda di nomi di persona e di luogo nelle lingue parlate tra Asia Minore e Himalaya. Ma non è opera di un filologo, di un glottologo o di un linguista, né specificamente diretta agli specialisti. Le difficoltà determinate da questo dato di fatto sono state pertanto considerate alla luce di un’esigenza pratica di lettura e di comprensione.

Sul piano della grafia delle parole arabe, persiane, uiguriche, turche, ossete, armene, russe e via discorrendo, mi sono attenuto con qualche variante alle consuetudini internazionali (quelle seguite in Italia ad esempio, per i toponimi, dall’Atlante De Agostini: ma sui toponimi asiatici e sulle loro trascrizione in caratteri latini le variabili abbondano fino a gettar chi voglia porvi ordine in un ginepraio immenso), tenendo d’altronde conto che ormai il pubblico è abituato, anche dai mass media, sia a una fonetica sia a una grafia prevalentemente anglosassoni. Ad esempio, la riforma grafico-fonetica di Mustafa Kemal in Turchia, facendo passare la lingua turca scritta dall’uso dell’alfabeto arabo sia pur modificato a quello latino, pronunziato però secondo norme fonetiche elaborate per quella specifica esigenza, ha fatto sì che oggi per esempio, in turco, il suono della consonante g dolce (quella dell’italiano “giusto”) si renda con la lettera c. Ciò dà adito a parecchi equivoci tra i molti italiani di ciò ignari o comunque a ciò non abituati. Ad evitare problemi del genere, e del tutto consci del carattere metodologicamente parlando approssimativo e discutibile della nostra scelta, ci siamo attenuti a una grafia che, ad esempio, rende la g dolce turca con j, secondo la pronunzia inglese. Quindi, il nome della città centroanatolica il nome della quale suonerebbe nell’italiano corrente Erzingian (una grafia però che non si troverebbe su alcun atlante, né italiano né internazionale) è stato qui reso non come Erzincan (che sarebbe corretto secondo la grafia turca attuale), bensì come Erzinjan. Allo stesso modo il termine arabo per “vecchio” o “signore”, che trascritto secondo la fonetica italiana sarebbe sciaic (con la c finale dura, come nella parola “cane”), da cui l’ordinaria italianizzazione “sceicco”, è qui reso nella forma fonetica sheikh, alla quale sono abituati inglesi e americani. Lo stesso per la parola persiana scià, “imperatore”, che inglesi e americani rendono con la forma shah, da noi qui parimenti adottata perché ormai in Italia divenuta familiare (i francesi preferiscono mantener la fonetica della loro lingua e continuiano pertanto a scrivere chah).

   

    

©2007 Franco Cardini, tratto da www.ariannaeditrice.it, settembre 2007.

  


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