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di ANNANGELA GERMANO

Patmiaco 33 (anno 941) – f. 193, particolare

   

La presenza dell’elemento greco nella penisola italiana trova un importante momento di espressione, oltre che di avvio, nella rivendicazione di un potere, ritenuto legittimo, sull’Occidente da parte dell’imperatore d’Oriente Giustiniano (527-565), ovvero in quel conflitto meglio conosciuto come “guerra greco-gotica” (535-553). Nonostante i presupposti di questa guerra di riconquista risiedessero in una semplice azione politico-militare, in seguito alla trasformazione dell’Italia in una delle prefetture dell’Impero d’Oriente fu naturale la diffusione della cultura greco-orientale e, ovviamente, una produzione scritta greca.

Questo processo di bizantinizzazione non penetrò tuttavia in profondità, e così in una produzione libraria che nel VI e, in parte, nel secolo VII continua ad essere prevalentemente latina, influenze greche si ritrovano solo nell’apparato iconografico e nelle tecniche scrittorie e librarie (come «manierata esagerazione, andamento verticale del chiaroscuro, monumentalità delle forme, ispessimenti alle estremità dei filetti delle lettere, taglio obliquo alle terminazioni delle aste desinenti oltre il rigo di base» [1] in codici ravennati).

Nel periodo altomedievale la diffusione della cultura libraria greca si concentra nell’Italia centro-meridionale, da Roma alla Sicilia, «passando per la Calabria e proiettandosi in Sardegna» [2]. Con la presenza sempre più consistente di greco-orientali e la nascita di istituzioni religiose greche, si fa più frequente, soprattutto a Roma, l’importazione di libri da Oriente, la circolazione e la conservazione di libri greci in chiese e monasteri romani e la produzione di manoscritti greci. A partire dalla fine del secolo IX-inizi del secolo X, Roma passa il testimone alla Sicilia e all’Italia meridionale, dove si manifesta una importante produzione libraria greca che spazia dal sacro al profano; in realtà, si tratta dell’acme di un processo iniziato già tra i secoli VII e IX, quando è attestata la presenza di manoscritti, prodotti nel Mezzogiorno, circolanti in ambienti religiosi e perciò di contenuto prevalentemente sacro (riguardanti, in particolare, letture monastiche o ufficiature liturgiche: ad esempio, l’eucologio Vaticano Barb. gr. 336). Fino agli ultimi decenni del secolo IX, l’unica scrittura adoperata nella produzione manoscritta greca in Italia meridionale è la maiuscola: tale persistenza non trova però riscontro nel mondo greco–orientale, dove la minuscola si era imposta nell’uso librario già dai primi anni dello stesso secolo, se non prima.

A confermare la crescita della produzione italo–greca già dal secolo IX, c’è una serie di manoscritti, collocabili tra fine IX e inizio secolo X, vergati in una scrittura detta “di tipo Anastasio”, dal nome dell’omonimo monaco copista dell’attuale Par. gr. 1470 datato all’anno 890. Questa scrittura si caratterizza per un generale aspetto geometrico, per lettere alte e strette, dal modulo schiacciato lateralmente, dal tratteggio angoloso e rigido e inoltre anche per la peculiarità di una estrema vicinanza dei tratti paralleli di talune lettere (nello specifico m, n, b, k, p) [3]. Alcuni dei codici maggiormente rappresentativi della minuscola “di tipo Anastasio”[4] sono riconducibili, in base allo studio delle loro caratteristiche codicologiche, proprio a centri scrittorii greci dell’Italia meridionale. Dello stesso tipo grafico del Par. gr. 1470 è il Patmiaco 33, contenente le “Omilie” di Gregorio di Nazianzo, un codice molto ricco nel sistema decorativo (presenza frequente di colori come giallo, rosso, verde, oltre che dell’oro; epigrammi incorniciati a funzione di frontespizi); dalla sottoscrizione del manoscritto leggiamo che a terminare la trascrizione del codice furono i copisti Nicola e Daniele a Reggio Calabria nel 941. Difficile risulta una distinzione netta delle due mani, anche se «si può notare una più generale differenza di ductus tra una grafia sicura e disinvolta da una parte ed una grafia più incerta ed impacciata dall’altra» [5]. Si può ipotizzare che Nicola sia maestro di scrittura, oltre che padre spirituale, di Daniele, della cui collaborazione avrebbe usufruito nella trascrizione del manoscritto.

A distanza di cinquant’anni (quelli che intercorrono tra la stesura del Par. gr. 1470 e quella del Patm. 33), la struttura grafica non sembra quindi cambiare di molto; si percepisce soltanto un passaggio da una scrittura spontanea e fluida ad una sì più calligrafica ma più artificiosa, più regolare, tendente a forme geometriche e caratterizzata anche da un’alternanza di modulo (a lettere strette, come β, κ, ν e μ, se ne accostano altre più larghe, come α, ε, ζ, ξ, ο, σ e ω). Non sembra dunque inverosimile che ad una similarità nello stile grafico possa corrispondere una vicinanza, se non coincidenza, spaziale. Reggio si rivela così un importante centro di copia in un periodo in cui (dalla fine del secolo IX fino allo scorcio del secolo XI) la produzione libraria si inquadra soprattutto in Calabria, Sicilia orientale, Lucania, Puglia, Campania e Lazio meridionale fino a Grottaferrata: un’area, quella del Mezzogiorno d’Italia, di incontro tra culture differenti, come quella araba o latino-longobarda o italo-greca. Proprio tale compresenza si svela anche nella scrittura, e la si ritrova in manoscritti italo-greci vergati da scribi attivi nel ducato longobardo di Benevento e che, perciò, mostrano influenze della scrittura latina beneventana (una scrittura libraria legata al monastero di Montecassino) nell’uso di alcuni peculiari segni di interpunzione, nel tracciato un po’ duro delle lettere o in taluni modi di sistemazione dei fascicoli [6]. Codici di tal genere sono riconducibili alla cosiddetta “scuola niliana”: si tratta di una scuola calligrafica facente capo a Nilo di Rossano, il quale, inizialmente attivo in Calabria presso il monastero di S. Adriano, si trasferisce con i suoi discepoli nella longobarda Capua attorno al 980. Dopo non molto, Nilo si reca nel monastero di S. Michele di Vallelucio su invito dell’abate di Montecassino, per poi giungere, sempre assieme ai suoi, a Serperi (nei pressi di Gaeta) e, infine, sui Colli Albani, dove fonda nel 1004 il monastero di S. Maria a Grottaferrata. I manoscritti attribuibili ai copisti della “scuola niliana” testimoniano una «minuscola di piccolo modulo, rotonda, verticale o appena inclinata a destra, con percentuali non alte di lettere di forma maiuscola (specialmente λ, κ, π), sovente ricca di abbreviazioni, alcune delle quali caratteristiche» [7].

Proprio come le opere trascritte in questa scrittura, anche i testi vergati nella minuscola detta “ad asso di picche” hanno carattere esclusivamente monastico. Un’altra caratteristica comune a queste due tipizzazioni grafiche è la stessa origine calabrese sostenuta da Robert Devreesse, il quale conferisce alla scrittura “ad asso di picche” quel particolare nome in virtù di «un singolare modo di tracciare con un solo colpo di penna il gruppo di lettere ερ» [8]. La presenza di tale minuscola fornisce una garanzia per la localizzazione di codici (datati al secolo X e a metà dell’XI) all’Italia meridionale, garantita, oltre che dalla particolare legatura, anche dalla presenza di iniziali a contorno raddoppiato. Enrica Follieri riportando nel suo saggio sulle scritture librarie dei secoli X e XI l’importante studio di Paul Canart [9], elenca le particolarità di questa minuscola, che presenta forme corsive accanto a forme posate: raddoppiamento dei tratti verticali in ι, κ, η e ψ; ν di forma minuscola legato sulla sinistra all’ε e all’α; caratteristica legatura ερ, e legature analoghe di εξ ed επ ; ρ aperto a sinistra. Inoltre, non è raro trovare in uno stesso codice la compresenza di porzioni di testo scritte in “asso di picche” e parti scritte invece in un’altra minuscola (spesso è la scrittura “ad asso di picche” ad essere utilizzata a carattere corsiveggiante da copisti che usano la minuscola “di tipo Anastasio” come scrittura principale; ad esempio, il testo trascritto in scrittura “di tipo Anastasio” mentre il commento in scrittura “ad asso di picche”).

Successivamente, con il periodo coincidente con la dominazione normanna (secoli XI e XII), la produzione libraria di lingua greca in Italia meridionale conosce un ulteriore sviluppo, tanto che si possono contare circa 600 manoscritti di sicura (o quasi) origine italo-greca. Tale incremento nella produzione di codici è spiegabile con una migliorata condizione economica (per questo motivo la pergamena ha, infatti, lavorazione e qualità migliori rispetto al passato), ma soprattutto con una rinascita monastica, causa principale della fondazione di nuovi monasteri. A quest’ultimo aspetto si ricollega infatti la diffusione di τυπικα, numerosi in questo periodo, finalizzati alla regolamentazione della vita monastica; tra i τυπικα italo-greci più noti, collocabili tra i secoli XI e XII, si possono ricordare il τυπικòν del S. Salvatore di Messina 10], il τυπικòν di S. Nicola di Casole [11] o ancora quello del monastero di S. Maria Odigitria (detto del Patir). Mentre cessa la produzione di manoscritti greci in Campania, centri di copia attivi si ritrovano ancora, dunque, in Sicilia, Puglia, Lucania e Lazio meridionale. Anche la Calabria resta una zona particolarmente vivace; proprio nell’area calabrese si affaccia, intorno ai primi anni del secolo XII, una minuscola dalle forme minute, morbide, fluide, abbastanza arrotondate, ma meno corsiva della scrittura “ad asso di picche”, «ad asse diritto o un po’ inclinato a destra, […] dominata da grande equilibrio tra larghezza ed altezza, da armonico e contenuto sviluppo delle aste» [12]. Si tratta dello “stile di Rossano” (diffuso, nonostante il nome, anche al di là della zona rossanese), nel quale è testimoniata l’apertura delle grafie italo-greche verso l’Oriente; questa minuscola è infatti molto vicina ad una scrittura costantinopolitana in particolare, la cosiddetta “Perlschrift” o “scrittura a perle”, soprattutto per la regolarità del modulo e del tratteggio, oltre che per l’ornamentazione in carminio. Tuttavia, a lettere piuttosto larghe (come π, β, φ) se ne accostano altre più strette, queste ultime non molto dissimili da talune proprie della scrittura “di tipo Anastasio”. Santo Lucà non ritiene azzardato sostenere che «le origini dello stile rossanese vadano ricercate nel ceppo tradizionale delle grafie italiote arcaizzanti, e soprattutto nella cosiddetta minuscola niliana, la quale, evolvendosi in forme sempre più morbide e moderne, anche sotto l’influsso della “Perlschrift”, sfocia nello stile rossanese» [13].

La omogeneità della produzione libraria italo-greca (tanto grafica quanto codicologica) in stile rossanese permette di ricondurre quei manoscritti, tra cui il Vat. gr. 1992 o il Vat. gr. 2000 o ancora il Vat. gr. 2050, ad un unico ambiente: i modi grafici di Bartolomeo di Simeri, il fondatore dell’abbazia di S. Maria del Patir nel 1105 nonché igumeno della stessa dal 1100 al 1130 circa, fanno scuola e «si compongono in un linguaggio grafico sufficientemente unitario, lo “stile di Rossano”. Ed è ancora nei codici di Bartolomeo di Simeri e della sua scuola che s’incontra quel tipo di decorazione “in negativo” che costituisce un altro, non secondario, sintomo di rinnovamento del libro italo-greco. In questi libri di Rossano, infatti, vanno cercate le premesse di scrittura e ornamentazione tipiche “di Reggio”, le quali dominano tutto il secolo XII proiettandosi anche oltre» [14]. Tale “scrittura di Reggio”, come la definisce Robert Devreesse [15], ha un vitalità piuttosto irregolare: molto usata nel secolo XII, scompare quasi del tutto nel secolo XIII, per poi ricomparire, in pochi esemplari, nel secolo XIV [16]. Lo studio paleografico approntato da Paul Canart e Julien Leroy permette di riconoscere alcune caratteristiche comuni in manoscritti datati vergati in “stile di Reggio”: le aste delle lettere non sono particolarmente lunghe (così da lasciare libero lo spazio interlineare), le lettere sono prevalentemente di forma minuscola e di aspetto arrotondato, ma si distinguono per un contrasto modulare tra lettere più strette (δ, ε, η, ρ, σ, ο, θ, ν) e lettere più larghe (β, ζ, κ, λ, μ, π, φ, χ, ψ, ω). Questa tipologia grafica si distingue per sobrietà ed eleganza che la caratterizzano, oltre che per una buona leggibilità derivante anche dallo scarso numero di legature e di abbreviazioni (queste ultime sono presenti più frequentemente nei manoscritti di contenuto profano, molto meno in quelli liturgici o di omiletica) [17]. La diffusione della “scrittura di Reggio” comprende prevalentemente la zona dello Stretto (quindi, tra Reggio Calabria e Messina) e, di certo, un forte impulso alla sua presenza lo si deve al monastero messinese del S. Salvatore, sotto la cui giurisdizione vi erano almeno quaranta monasteri di quella regione. «Questo ruolo principe di promozione culturale, svolto in Calabria e nelle zone di più stretta influenza nei secoli X-XI e XI-XII, si esaurisce con la morte di s. Bartolomeo († 1130). Da questo momento, il S. Salvatore di Messina e la Terra d’Otranto assicurano nei secoli a venire la sopravvivenza e il rifiorire dell’ellenismo italomeridionale, che graficamente si esprime con stilizzazioni diverse, ma nate (per lo stile di Reggio è sicuro) dalla matrice rossanese» [18].

 

A sinistra: Vat. gr. 1553 (secolo X) – f. 120. A destra: Taur. C III 17 (anno 1173) – f. 44.

Sembra essersi verificato un ideale passaggio di consegne dal territorio in cui opera Bartolomeo di Simeri, cioè la Calabria e Rossano in particolare, alla Puglia, soprattutto alla Terra d’Otranto, per il ruolo di privilegio rivestito all’interno della produzione libraria nella prima metà del XII secolo. Durante il precedente dominio bizantino (fino al 1071), qualche testimonianza si trova per altre zone pugliesi, come quella di Bari, mentre rare sono le testimonianze librarie sicure del Salento [19], le quali tuttavia permettono di parlare di una circolazione libraria anche in Terra d’Otranto. Per individuare la presenza di tali libri in questa regione, è necessario accogliere il suggerimento di André Jacob, il quale sottolinea che un accurato e corretto studio sulla paleografia della regione otrantina deve partire dall’analisi paleografica della scriptio inferior dei numerosi palinsesti trascritti in questa zona tra i secoli XII e XVI. Talune di queste scritture sono ascrivibili ad uno stile italo-greco, mentre altre rimandano a tipologie grafiche di respiro costantinopolitano; tale compresenza di due stili fondamentali è spiegata, dallo studioso belga, «in parte con la vicinanza alla Grecia, che ha certamente facilitato l’importazione di manoscritti, ma anche con la continuità della presenza bizantina nella regione fino all’epoca della conquista normanna» [20]. Lo studio approfondito sulle tipologie grafiche sviluppatesi in Terra d’Otranto, ha quindi permesso ad André Jacob di retrodatare la diffusione di scritture tipiche della regione otrantina, risalendo fino alla fine del secolo XI.

Infatti, il primo manoscritto che si può con certezza localizzare nella Terra d’Otranto è un codice datato (anno 1154), il Vat. gr. 1221, trascritto dall’igumeno del monastero di Santa Maria di Cerrate, presso Lecce. Ma, come si è detto, è possibile prendere in considerazione alcuni manoscritti precedenti: un esempio proviene dal Paris. gr. 3, un codice trascritto in parte nel 1095 e la cui scrittura non si allontana di molto da quella di altri codici di fine secolo XI o inizi del secolo XII presenti un tempo in Terra d’Otranto. A tal proposito si possono ricordare i seguenti manoscritti: Barber. gr. 517, Ambros. F 48 sup. (inizi del secolo XII), i Barber. gr. 70 e 456, Paris. gr. 2659 (anno 1115/16), Sinait. gr. 193 (anno 1124).

Sulla base di questi testimoni, lo studioso francese ipotizza l’esistenza di uno stile tutto otrantino, databile immediatamente dopo la conquista normanna (a partire dal 1059, anno in cui è stipulato il cosiddetto “accordo di Melfi” tra Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, e papa Nicolò II) ma prima della fondazione dell’importante monastero di San Nicola di Casole (1098 / 1099), che egli definisce «rectangulaire aplati ou écrasé». A giustificare l’appellativo “rettangolare” è l’aspetto, appunto rettangolare, derivante dalla forma geometrica delle lettere μ, π e ω e da gruppi di lettere, come il legamento σ–π o il legamento ι–ν, quest’ultimo simile ad un rastrello senza manico. Hanno forme propriamente rettangolari, o tutt’al più squadrate, le lettere α, β, κ, ν, σ e υ, mentre le altre lettere tendono ugualmente ad una forma geometrica. Jacob percepisce, da questo stile, una forte impressione di arcaismo; successivamente, sembra che tale tipologia grafica si sia evoluta, anche piuttosto in fretta, verso forme meno schiacciate, risultando ancora presente in manoscritti più tardi tra cui il τυπικόν del monastero di S. Nicola di Casole (cod. C III 17 conservato a Torino), scritto da Nicola igumeno dello stesso monastero. Il paleografo francese ammette però la difficoltà di delimitare con esattezza, allo stato attuale delle ricerche, l’area di estensione di questo “style rectangulaire aplati ou écrasé”, non escludendo la possibilità di una sua diffusione verso la Lucania e fino ai confini con la Calabria [21].

è nota la ricca produzione libraria in lingua greca tra i secoli XI e XII, ma si è trattato di uno sviluppo prevalentemente circoscritto alle zone calabresi e siciliane, centro della dominazione normanna. La posizione emarginata della Puglia rispetto a questo asse Calabria-Sicilia, spiega la carenza di libri, in particolare di carattere profano; più consistente risulta, invece, il numero dei testi sacri in lingua greca (a dispetto del processo di latinizzazione portato avanti dai Normanni) [22]. Pochi restano, comunque, i manoscritti datati e con certezza attribuibili alla Terra d’Otranto negli ultimi tre quarti del XII secolo [23]: il Vat. gr. 1221 (Teofilatto sui Vangeli, anno 1154), il citato Taurin. C III 17 (τυπικόν del monastero di Casole, anno 1173), e l’Ottob. gr. 344 (eucologio, anno 1177). I due codici Vaticani non sembrano essere portatori di uno stile particolarmente caratteristico, così come avviene anche per altri dello stesso secolo; ne deriva per i paleografi la difficoltà di identificarli quali manoscritti otrantini e la loro più generale attribuzione all’ambiente italo-greco. Peculiare risulta invece, in tutti e tre i codici nominati, la presenza di lettere (tanto iniziali piccole quanto lettere nel corpo del testo) o parti di lettere riempite di color vermiglio: sono questi i prodromi di una moda dell’ornato che resisterà fino al XVI secolo e sarà un importante rivelatore della derivazione otrantina.

Ancora non molto numerosi sono i codici datati nel secolo XIII (escluso l’ultimo ventennio): il Barber. gr. 350 (τυπικόν del monastero di S. Nicola di Casole, anno 1205), il Paris. gr. 2089 (Niceta sull’Isagogè di Porfirio, anno 1223), il Barber. gr. 297 (Syntagmata di Nicola di Otranto, anno 1236) e Scorial. R I 18 (Lycofrone con commento di Tzetze, anno 1255). A questi va poi aggiunto il Palat. gr. 45 (Odissea e Batracomiomachia, anno 1201), un manoscritto piuttosto singolare per l’andamento corsivo della scrittura, particolarità che tenderebbe a retrodatarlo di alcuni decenni se il copista non vi avesse apposto due sottoscrizioni.

Lo stile del Barber. gr. 350 è invece indicativo dello sviluppo della scrittura liturgica in Terra d’Otranto tra i secoli XII e XIII; lontano dall’aspetto geometrico del τυπικόν copiato nello stesso monastero trent’anni prima (il Taurin. C III 117), le forme si presentano qui più arrotondate, alcune lettere come θ e ω tendono ad ingrassarsi, la pancia della α onciale si allunga verso il basso, è più frequente il riempimento di lettere o parti di lettere con il color vermiglio.

Il Barber. gr. 297 presenta una caratteristica che costituisce un indicatore della provenienza otrantina: si tratta dell’abbreviazione in forma di segno “uguale” per l’ -όν finale accentato (=), i cui tratti paralleli sono posti distesi, non obliqui, sull’ultima parte della parola.

 

A sinistra: Barb. gr. 350 (anno 1205) – f. 119v. A destra: Vat. gr. 2383 (anno 1287) – f. 8.

Il secolo XIII è un momento particolarmente fecondo per la Puglia, dove, con Federico II, si è spostato il centro di gravità del regno di Sicilia, così da permettere a questa regione di ricoprire il ruolo di primo piano, in ambito culturale, fino a quel momento rivestito dalla zona calabro-sicula. Certamente una figura di rilievo è Nicola d’Otranto, monaco e abate (dal 1219-1220) Nettario di Casole; questi, in qualità di raccoglitore, lettore, annotatore di libri, oltre che di γραμματικός, rese il monastero casolano uno dei più importanti ambienti idoneo a dare impulso e a mantenere in vita una trasmissione di testi greci [24]. Da non dimenticare, poi, che alla produzione di carattere sacro e liturgico si affiancano testi di contenuto tecnico e profano (opere scientifiche, filosofiche, lessici, manuali di retorica, testi di diritto), da mettere in relazione con gli interessi culturali della dinastia degli Hohenstaufen e dello stesso Federico II. La produzione libraria in Terra d’Otranto risulta ancor più florida, a giudicare dall’alto numero di manoscritti datati o databili in questo periodo, nell’ultimo ventennio del Duecento, quando sembra sia possibile parlare di scrittura otrantina “barocca”. Essa è «caratterizzata da disegno dei tratti fortemente curvilineo, contrasti modulari, sporgenze di aste e di lettere, occhiellature tronfie (per di più riempite o semi-riempite sovente di una colorazione in rosso che ne esalta la vistosità), legamenti arditi, abbreviazioni caratteristiche e appariscenti» [25]. Si riconosce in questo stile tutto otrantino l’influenza della Fettaugenmode, la scrittura “ad occhi di grasso” coeva diffusa nel mondo bizantino. André Jacob identifica come barocca otrantina “classique” la scrittura di alcuni codici datati tra 1282 e 1300: Laurent. Conv. soppr. 152 (anno 1282), Bibl. Brit. Harl. 5535 (anno 1284), Ambros. G 8 sup. (anno1286), Vat. gr. 2383 (anno 1287), Barber. gr. 102 (anno 1290/91), Laurent. 71, 35 (anno 1290/91), Paris. gr. 2572 (anno 1295/96), Paris. Suppl. gr. 681 (anno 1297/98), Vindob. Phil. gr. 56 (anno 1300).

Inoltre, lo studioso elenca le caratteristiche principali di questo stile:

·                    Abbreviazione dell’ –òn finale accentato in forma di segno “uguale” e frequente tendenza all’allungamento dei due tratti paralleli che, in qualche caso, finiscono per coprire la parola per intero.

·                    Contrasto modulare tra lettere piccole e grandi, come avviene nel Fettaugenstil. Generalmente, le lettere grandi sono il b maiuscolo, il q (il cui tratto trasversale a metà dell’occhiello è spesso ornato al centro da un punto o da un trattino), l’o, il f maiuscolo.

·                    Preferenza per l’a onciale la cui pancia, che si può presentare arrotondata o triangolare o ancora appuntita come la punta di una lancia, si allunga smisuratamente verso il basso. Inoltre, l’asta dell’a tende ugualmente ad allungarsi parallelamente al rigo di base.

·                    L’ω è molto allungato, spesso sproporzionato, e collocato al di sopra della lettera precedente quando si trova in posizione finale. L’w allungato può presentarsi anche con i due occhielli separati.

·                    Legamenti di f minuscolo con le due lettere precedenti, in particolare quello con l’a onciale.

·                    Legamento e-s, in cui l’e appare come una specie di ovale (o anche di triangolo con i vertici arrotondati ) addossato al s.

·                    Legamento di a con b maiuscolo a occhielli separati.

·                    Legamento di h, i e k minuscole con una lettera precedente, dove si nota la tendenza a rialzare eccessivamente l’asta della seconda lettera.

·                    Legamento r-o in forma di staffa.

·                    Gruppo w allungato con s onciale aggiunto.

·                    Lettere interamente o parzialmente riempite di vermiglio; particolarmente interessate sono le lettere grosse di forma arrotondata (b, q, f maiuscolo, o).

La “barocca” otrantina non è certamente l’unica tipologia grafica presente durante tutto il XIII secolo nella Terra d’Otranto, ma è la più caratteristica e, anche in presenza di altre scritture, permangono molte delle sue particolarità, le stesse che, sopravvivendo fino a tutta l’età medievale, permetteranno l’identificazione di molti codici come otrantini.

Nei primi cinquant’anni del secolo successivo si nota una tendenza a riutilizzare forme di lettere più quadrate, e ciò si verifica in particolare nei manoscritti liturgici.

Dopo la seconda metà del secolo XV, specialmente dopo la distruzione di Otranto da parte dei Turchi nel 1480, molti copisti greci salentini lasciano la loro terra per andare a svolgere in altri luoghi la loro attività; alcuni cercheranno di “pulire” il loro stile da quanto appariva loro come arcaico e provinciale, senza però riuscirci del tutto. I copisti che, invece, sono rimasti nella loro regione hanno conservato il loro stile tipico.



NOTE

1 Cavallo G., La cultura italo-greca nella produzione libraria, p. 501.

2 Id. , p. 502.

3 Follieri E., La minuscola libraria dei secoli IX e X, p. 145.

4 Ad esempio, Par. gr. 1476, Vat. gr. 473, oltre al suddetto Par. gr. 1470.

5 Prato G., Attività scrittoria in Calabria tra IX e X secolo, p. 2.

.6 Cavallo G., La cultura italo-greca nella produzione libraria, pp. 522-523.

7 Follieri E., La minuscola libraria dei secoli IX e X, , p. 150.

8 Devreesse R., Les manuscrits grecs de l’Italie méridionale (histoire, classement, paléographie), p. 34.

 9 Cavallo G., Le problème du style d’écriture dit «en as de pique» dans les manuscrits italo-grecs, pp. 53-69.

10 Riportato, ad esempio, nel Messinese S. Salv. 115. Il monastero di S. Salvatore è fondato a Messina nel 1133 da Bartolomeo di Simeri

11 Si ricordi il cod. C III 17 di Torino vergato nel 1173, il manoscritto più antico in cui è riportato il τυπικòν di questo monastero pugliese.

12 Lucà S., Scrittura e produzione libraria a Rossano tra la fine del sec. XI e l’inizio del sec. XII, p. 120.

13 Id. , p. 125.

14 Cavallo G., La cultura italo-greca nella produzione libraria, p. 554.

15 Devreesse R., Les manuscrits grecs de l’Italie méridionale (histoire, classement, paléographie).

16 Un esemplare della scrittura in stile di Reggio è il Vat. gr. 1646 (dell’anno 1118).

17 Canart P. – Leroy J. , Les manuscrits en style de Reggio. Etude paléographique et codicologique, pp. 243-244, 247-248.

18 Lucà S., Scrittura e produzione libraria a Rossano tra la fine del sec. XI e l’inizio del sec. XII, p. 128.

19 Cavallo G., Libri greci e resistenza etnica in Terra d’Otranto, p. 158.

20 Jacob A., Les ecritures de Terre d’Otrante, p. 269.

21 Jacob prende in considerazione questa ipotesi sulla base di un codice, il Vat. gr. 2026, da lui ritenuto un bell’esempio di tale stile e appartenuto un tempo al monastero di S.Elia in Lucania.

22 Cavallo G., Libri greci e resistenza etnica in Terra d’Otranto, p. 161.

23 Jacob dà una possibile spiegazione del fenomeno con la raschiatura di numerosi manoscritti nei secoli seguenti.

24 Cavallo G.,, Libri greci e resistenza etnica in Terra d’Otranto, p. 163.

25 Id. , p. 168.

      

      

©2007 Annangela Germano

   


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