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di Pierfrancesco Nestola

 Roberto il Guiscardo visto da Giampiero Zenati

    

La storia infatti nelle sue analisi è talvolta così intellettuale […]  da scordare le vicende quotidiane spesso aderenti alle nozioni

istintive di società primordiali, da dimenticare quanto è atroceaver fame e quanto sia rispettabile fuggirne, da non tenere 

in conto che dietro i numeri, le statistiche, i prezzi, le leggi, le istituzioni stanno sempre gli uomini e le donne 
coi loro bisogni, coi loro desideri, con le loro rabbie.

      

(Salvatore Tramontana, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Roma 2005, p. 29)

       

Spostiamoci con la fantasia in Normandia, nel borgo che oggi si chiama Hautteville-la-Guichard, luogo natìo dei dodici Altavilla, figli del povero signorotto Tancredi, in un giorno di primavera intorno al 1030.

In uno di quei giorni, infatti, dovette aver luogo la cerimonia di investitura del giovane Roberto. Possiamo immaginarlo raggiante, il novello cavaliere, mentre, magari con qualche dolorino lasciatogli dal pesante addobbo, monta a cavallo e dà bella mostra di sé, impartendo ordini al destriero ed eseguendo magistralmente figure con la spada e con la lancia. I musici suonavano con le cornamuse novus miles, i figli del fabbro e del contadino lo guardavano con i lucciconi. Ma la brogne (il giaccone di cuoio rinforzato, non ancora sostituito dall’usbergo) del giovane guerriero era certamente larga: e chissà quando avrebbe potuto permettersene un’altra, con quel che costavano. Meglio farla un po’ più ampia per quando (e se) sarebbe cresciuto. Lo stesso dicasi dell’elmo e di tutte quelle altre parti del vestiario che, per un Chrétien de Troyes, ben dimostravano la loro legittima appartenenza con il calzare perfettamente al padrone. Certamente, Roberto sarebbe stato più simpatico a Bernardo di Chiaravalle, che al poeta francese. Ma erano tempi di là da venire, e dei quali Roberto scrisse una delle pagine introduttive forse più significative.

Torniamo alla nostra festicciola, e alla famiglia Altavilla.

Forse quel giorno Tancredi aveva fatto offerto carni arrostite ai popolani accorsi all’evento, come era consuetudine “signorile” dell’epoca. E qui la patina romantica è bene che cada. Di carne, quel giorno, dovette gustarne parecchia anche lui: il signorotto di campagna, come conclude giustamente Fossier [1], mangiava poco. Abitava in case impossibili da riscaldare e che avevano, come unico vantaggio rispetto alle stamberghe della gente comune, il fatto di essere di pietra. Quanto ai comforts, da annoverare, magari, solo la scarsa infiammabilità delle strutture, sebbene le parti lignee abbondassero anche nei torrioni.

E gli altri fratelli e fratellastri? Noto è che Roberto fece parte della prole che andò a benedire le seconde nozze di Tancredi, il quale, morta Moriella, prese in seconde nozze una donna altrettanto praeclara, di nome Fransendi. Doveva essere presente alla cerimonia il giovanissimo Ruggero, e solo gli astanti avrebbero potuto esprimere le proprie impressioni circa il comportamento del fanciullo alle celebrazioni per il fratello maggiore.

Certamente queste visioni sono più esotiche che storiche, sebbene chi scrive si appelli, in ultima istanza, a Marc Bloch, a «quella sensazione […] dell’esotismo che è la condizione indispensabile di ogni sana intelligenza del passato» [2].

Roberto, una volta addobbato e dunque partito “all’avventura”, cioè a cercarsi di che vivere e magari arricchirsi, «errò per molto tempo» [3]. Almeno sino al 1046-47, quando giunse in Italia meridionale al fine di ritagliarsi un posto in quel mondo meraviglioso del quale le cronache bizantine, propugnando testardamente un’immagine di un luogo in cui il basileus regnava sovrano ed acclamato, cercavano di nascondere il carattere riottoso e ormai radicatamente refrattario a qualsivoglia forma di controllo “centrale”.

È ancora una volta molto “romantico” immaginare ciò che Roberto vide, cavaliere “trovatello”, in quel Mezzogiorno, i cui paesaggi, il cui clima, i cui colori e profumi, ma soprattutto le cui ricchezze (la politica bizantina seppe ben valorizzarne le risorse, né sono da dimenticare le autonomie cittadine e le grandi abbazie, capaci di produrre modelli gestionali e commerciali che avrebbero fatto scuola) dovevano superare di gran lunga quelle che lui si era lasciato alle spalle. E delle quali, oltre ai cinque cavalieri e trenta fanti di cui lo fornisce il racconto di Anna Comnena (sul quale pure ci sarebbe parecchio da dire), Roberto doveva portarsi dietro il solo patrimonio cavalleresco, stricto sensu.

Ben le cantò uno dei panegiristi dell’ormai ricco e potente Roberto, Guglielmo di Puglia, le ricchezze e le meraviglie di quella terra in cui “scorrevano latte e miele”, e vi era ogni sorta di delizia. Visione che andrebbe “stemperata” con quella ben più realista di Amato di Montecassino, il quale ci regala la vivida immagine del luccichio negli occhi del giovane Altavilla quando, volgendo lo sguardo, dalla torre che il fratello gli aveva dato in Calabria, verso le terre che di lì si potevano dominare, vi scorse campi sterminati e bestie, maiali grassi, buone vacche e «giumente che facevano buoni puledri». Il paradiso dell’allevatore.

Non è il caso di approfondire, in questa sede, le meccaniche politico-militari nelle quali il futuro duca seppe inserirsi rendendo onore al suo nomignolo: basti dire molto sinteticamente che, sfruttando alcune congiunture politiche fra le più importanti del tempo (che dimostrano da sole la centralità del Mezzogiorno nello scenario politico internazionale del secolo XI), egli riuscì a convogliare in una direzione a sé favorevole le varie forze convergenti e, attuando una vera strategia del work in progress, poté alla fine averne ragione, in un modo o nell’altro.

Certamente la sua folgorante parabola non può essere compresa prescindendo da avvenimenti che di per sé non toccarono, almeno materialmente, il Mezzogiorno: si pensi, tanto per fare degli esempi, all’attacco, nel 1071, dei Selgiuchidi all’impero bizantino, evento che causò il ritiro delle truppe scelte da quasi tutte le città della costa adriatica pugliese per far fronte alla minaccia turca in Oriente. Il 16 aprile dello stesso anno Roberto riusciva pertanto a prendere, dopo un lungo assedio, Bari, acquisendo così la forza necessaria a fronteggiare i conti normanni che ancora gli si opponevano. Si pensi ancora all’ultima grande “cavalcata” verso Roma per “salvare” Gregorio VII dall’assedio di Enrico IV. Salvataggio che sortì solo in parte gli effetti sperati: il pontefice si spense infatti malinconicamente un anno dopo, e con l’amarezza del suo esilio sulle labbra: “ospite” del Guiscardo in quella Salerno che fu teatro di tutta una serie di colpi di mano, a cominciare dalla presa stessa della città da parte del duca, come al solito un’operazione al limite della legittimità. Ma si stavano pur capovolgendo le sorti politiche di un territorio importantissimo, qualunque fosse la percezione che gli attori avessero, in itinere, della portata effettiva delle proprie azioni.

Si ha l’impressione, leggendo le cronache della conquista normanna, di una testardaggine al limite dell’ottusità, ma sapientemente guidata dal “fiuto” e da una dose molto massiccia di cupidigia, che dovette caratterizzare la figura del Guiscardo. Dalle primissime esperienze delinquenziali in Calabria, passando per la presa dei primi castelli abbellita, da un Guglielmo di Puglia raggiante, ricorrendo abbondantemente a riferimenti presi dalla letteratura epica classica (e non solo), nonché narrata, da Guglielmo come da Malaterra o Amato di Montecassino, con tanto di animoso impeto che avrebbe fatto invidia ai futuristi.

La presa di Bari, Reggio Calabria e Palermo sono punti chiave della scalata al potere dell’Altavilla e, per chi volesse effettuare eventuali approfondimenti, la letteratura storiografica in proposito è abbondante. Ed un “filo rosso” guiderà il lettore attento, un qualcosa che aiuta a comprendere realmente che il Guiscardo, per quanto ammantato di leggenda e “fascino del cavaliere”, era un figlio del suo tempo, cioè del Medioevo: la sperimentazione. Meglio, un “senso” della sperimentazione che pervade ogni singola azione di cui si compone l’esperienza politica e militare del personaggio. A partire dalle “tecniche psicologiche” che raccomandava di utilizzare ai suoi soldati per terrorizzare gli abitanti più riottosi, alle tattiche ingegnose da lui utilizzate per prendere città e castelli; e non si allude qui tanto all’episodio calabrese del finto funerale, del quale è stata dimostrata la genesi “epica” nel racconto di Guglielmo di Puglia [4], quanto al lancio di pezzetti di pane, sempre più lontano dalle mura, durante l’assedio di Palermo, di cui riferisce Malaterra: i Saraceni, affamati, si lanciavano ad afferrarli e, quando erano giunti ad una certa distanza, venivano catturati. L’espediente ha del diabolico, ma è nondimeno un chiaro esempio di come Roberto riuscisse a trovare la giusta soluzione ai problemi che via via gli si ponevano davanti, non mediante l’applicazione di schemi preconcetti, bensì tramite un “approccio problematico” alla situazione contingente. Una parentesi brevissima: chi scrive è fermamente convinto che, mediante il lancio dei pezzettini di pane, Roberto stesse calcolando la portata del tiro dei difensori che dovevano “coprire” i concittadini lanciatisi ad afferrar le pagnotte; essi venivano infatti catturati, verosimilmente, quando ormai erano fuori della gittata degli archi delle sentinelle sulle mura. Roberto, analfabeta, studiava così la poliorcetica. Meglio, la affinava, dopo aver sperimentato i suoi limiti, ed eventualmente imparato dai suoi stessi errori, durante l’assedio di Bari dell’anno prima. Inoltre, durante lo stesso assedio, la fortuna sembrò baciare sfacciatamente il Guiscardo: a partire dall’attacco dei Turchi in Asia minore, che gli “spianò la strada”, fino al fallimento dell’attentato ai suoi danni. Il sicario, incaricato di ucciderlo con un dardo, fallì nella sua impresa perché Roberto, che stava cenando sotto la sua tenda, si piegò «per liberarsi la bocca dall’eccesso di muco»: era raffreddato e si chinò sotto il tavolo, in quel preciso istante, per fare quello che avrebbe fatto qualunque persona raffreddata sprovvista di fazzoletto. Fortuna, qualora l’episodio fosse vero, da definirsi “anatomicamente” anche al livello letterario della lingua italiana.

Comunque, il Normanno doveva incarnare senza ombra di dubbio una sintesi esemplare di quei due valori tanto cari quanto necessari alla mentalità cavalleresca: “saggezza” e “prodezza”. Nel caso in cui venisse a mancare una delle due componenti, difatti, il cavaliere diverrebbe rispettivamente un folle, o un vigliacco. Il suo stesso soprannome, “Guiscardo”, pare riflettere la perfetta fusione delle due qualità, e in più sembra fare eco al termine che Amato di Montecassino utilizza per descrivere l’ atteggiamento “psicologico” dei Normanni durante le sopracitate operazioni dell’assedio di Palermo: «li maliciouz Normant». E certamente Gerardo di Buonalbergo dovette tener presente qualcosa in più, oltre il rapimento a scopo di estorsione che il suo nuovo pupillo aveva effettuato ai danni di Pietro da Bisignano (tra l’altro suo benefattore), rilasciato solo a riscatto pagato, nella genesi del fortunato soprannome. Che dovette piacere molto allo stesso Roberto.

Dalla zia di Gerardo (datagli da questi in sposa), Alverada, Roberto ebbe il suo primogenito, Boemondo. Ma quando la situazione politica cambiò; quando lui, ormai duca, guardava ancora più in avanti ed ormai tutto il Mezzogiorno era sottoposto al suo diretto dominio, Roberto si “accorse” che Alverada era sua consanguinea, e la ripudiò, nel 1058, per sposare Sichelgaita di Salerno. Poco tempo prima, usurpando con un colpo di mano i possedimenti di suo fratello Unfredo al figlio di questi, Abagelardo, del quale era stato nominato (da Unfredo stesso) tutore, prendeva il controllo di gran parte dell’Italia meridionale. Il passo successivo era logicamente l’unione dei possedimenti pugliesi, lucani e calabresi con quelli campani e beneventani. Ecco la ragione politica del secondo matrimonio, e riguardo a questo argomento ci sarebbe almeno da chiedersi se valga la pena di comparare la situazione a quella, di qualche anno posteriore, di Filippo I di Francia. Ma non è il caso, in questa sede, di dilungarsi troppo sulla problematica.

Nel 1059, a Melfi, Roberto ricevette da papa Niccolò II l’investitura ducale, la quale riguardava anche la Sicilia , qualora essa fosse stata strappata ai Saraceni. Di qui l’ascesa del Guiscardo fu davvero fulminante ed ebbe, come ultimo obiettivo, i domini bizantini nei Balcani.

Roberto morì nel luglio del 1085, durante l’assedio di Durazzo, di malattia. Aveva circa settant’anni.

La storia deve essere fatta con tutti i “se” e con tutti i “ma” possibili. Immaginiamo quindi cosa sarebbe potuto accadere se Roberto fosse stato presente al tempo della prima Crociata. Tuttavia, in quell’esperienza, suo figlio Boemondo, estromesso dalla matrigna dai meccanismi ereditari dei domini meridionali, dei quali beneficiò soltanto il suo fratellastro Ruggero Bosso, seppe certamente far tesoro dell’esperienza paterna. Ma questa è un’altra storia.

    

Bibliografia essenziale

Questa bibliografia non è esaustiva. Sono menzionate solamente le principali fonti, oltre che alcuni tra i riferimenti bibliografici più importanti per comprendere la figura, la personalità ed il mondo di Roberto il Guiscardo.

1. Fonti

Alexander monachus, Cronicon S. Bartholomaei de Carpineto, in F. Ughelli, Italia Sacra, vol. X, Venezia 1712, pp. 350-382.

Amatus monacus casinensis, Storia de' Normanni volgarizzata in antico francese, edidit V. De Bartholomaeis, FSI 76, Roma 1935.

Anne Comnene, Alexiade, texte établi at traduit par B. Leib, Paris 1937; cfr. anche Anna Comnena, La Precrociata di Roberto il Guiscardo. Pagine dall’«Alessiade», a cura di S. Impellizzeri, parte I, Bari 1964.

Anonymi monachi Chronicon breve northmannicum, in RIS, V, Milano 1724, p. 278 (V-VI).

Anonymus casinensis, Chronicon, in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni della Dominazione Normanna nel Regno di Puglia e Sicilia, I: Normanni, Napoli 1845, pp. 461-480.

Gaufridus Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris ejus, edidit E. Pontieri, in RIS2, V, parte I, Bologna 1927.

Guillaume de Pouille, La geste de Robert Guiscard, edizione e traduzione francese a cura di M. Mathieu, Palermo 1961.

Leo Marsicanus, Chronica monasterii Casinensis, edidit W. Wattenbach, in MGH, SS. VII, Hannover 1846, pp. 551-727.

Lupus Protospatarius Barensis, Annales Barenses, edidit G. H. Pertz, in MGH, SS. V, Hannover 1844, pp. 51-63.

Otto Episcopus Frisingensis, De Gestis Friderici I Imperatoris, in RIS, VI, Milano 1725, pp. 640-738.

   

2. Testi di riferimento

AA. VV., Roberto il Guiscardo e il suo tempo, Atti delle I Giornate normanno-sveve (Bari 28-29 maggio 1973), a cura di G. Musca, Roma 1975.

AA. VV., Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno, a cura di C. D. Fonseca, Galatina 1990.

Bünemann Richard, L’assedio di Bari, 1068- 1071. Una difficile vittoria per Roberto il Guiscardo, in «Quaderni medievali», 27 (giugno 1989), Bari 1989, pp. 39-66.

Bünemann Richard, Robert Guiskard. Ein Normanne erobert Süd Italien, Düsseldorf 1997.

Cardini Franco, Il guerriero e il cavaliere, in L’uomo medievale, a cura di J. Le Goff, Bari-Roma 2004, pp. 83-123.

Cardini Franco, L’uomo d’arme, in Condizione umana e ruoli sociali nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle IX Giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 1989), a cura di G. Musca, Bari 1991, pp. 395-404.

Flori Jean, Cavalieri e cavalleria nel Medioevo, ed. it. Torino 1999.

Fossier Robert, Il lavoro nel Medioevo, ed. it. Torino 2002.

Gallina Mario, La “precrociata” di Roberto il Guiscardo: un’ambigua definizione, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate, Atti delle XIV Giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 2000), a cura di G. Musca, Bari 2002, pp. 29-47.

Gallina Mario, Il Mezzogiorno normanno-svevo visto da Bisanzio, in Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Europa e dal mondo mediterraneo, Atti delle XIII Giornate normanno-sveve, (Bari 21-24 ottobre 1997), a cura di G. Musca, Bari 1999, pp. 197-223.

Tramontana Salvatore, Il Mezzogiorno medievale. Normanni, svevi, angioini, aragonesi nei secoli XI-XV, Roma 2000.

Tramontana Salvatore, La monarchia normanna e sveva, in Storia d’Italia, III, Torino 1983, cap. 3: Roberto il Guiscardo e il suo tempo, pp. 481-511.

Tramontana Salvatore, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Roma 2005.

    


1 R. Fossier, Il lavoro nel Medioevo, Torino 2002, pp. 269-274.

2 M. Bloch, Per una storia comparata delle società europee, in Lavoro e tecnica nel Medioevo, Roma-Bari 1996, p. 33.

3 Otto episcopus Frisingensis, De Gestis Friderici I Imperatoris, in RIS, VI, Milano 1725, lib.I, cap. 3, col. 642.

4 S. Tramontana, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Roma 2005, p. 135.    

    

   

© 2006 Pierfrancesco Nestola. Disegno di Giampiero Zenati

   


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