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di ANDREA MONETI

 

Era il giovedì santo dell’anno 1307 quando i “crociati” chiamati da papa Clemente V misero fine all’avventura dolciniana sul Monte Rubello  in Alta Val Sesia, portando a compimento uno degli episodi ereticali tra i più singolari del Medioevo ed unico nel suo genere, capace di richiamare uomini, donne e bambini, provenienti un po’ da ogni dove dall’Italia centro-settentrionale e dalla Toscana. La loro era una comunità di uomini liberi ed uguali, fondata sulla comunanza dei beni. Rifiutavano qualsiasi forma di gerarchia e anelavano ad una riforma, ma sarebbe più giusto dire rifondazione, della Chiesa dal basso per recuperarla ad un piano puramente spirituale. Privi di ogni logica conventuale, sostenevano la parità uomo-donna, la libertà sessuale, la venuta di una società più giusta ed egualitaria, e l'avvento di un nuovo papa santo espresso da un nuovo ordine di monaci, perfetto perché nella più totale povertà. La “Chiesa” che professavano era una chiesa priva di ricchezze e potere, che sapeva parlare alla gente, esprimendosi in volgare e non in latino, priva di preclusioni, con forti contenuti sociali oltre che religiosi, come la negazione del giuramento feudale e del pagamento delle decime.

Sui fatti e avvenimenti che contraddistinsero quella tragica epopea è stato scritto e molto dovrà ancora essere scritto (pensiamo, ad esempio, ai lavori di Raniero Orioli e, in particolare, di Corrado Mornese, tanto per citare alcuni degli studiosi che hanno iniziato un processo di revisione storico teso recuperare la dimensione autentica di Gherardo Segalelli e del suo movimento con occhi diversi da quelli di una certa storiografia tradizionale ed ufficiale). Non è compito mio e non è quanto mi accingo a fare in questa sede. Quello che mi preme da “non storico” quale io sono è dare una mia interpretazione personale di ciò che può aver significato, agli occhi di un contemporaneo di Dante, il messaggio che uomini come questi andavano in giro a predicare.

L'iniziatore del movimento Apostolico fu Gherardino Segalello, o Gherardo Segalelli, forse da Ozzano Taro, intorno al 1260. Tradizione vuole che Gherardino chiese di essere accolto nel convento dei frati minori di Parma, venendone, però, respinto. Fu così che vendette i suoi averi, donando il denaro ricavato per iniziare una vita vagabondante ispirata alla povertà, fatta di assistenza ai malati e ai bisognosi. Lui e i suoi seguaci, votati alla preghiera e alle elemosine, per differenziarsi dai francescani “conventuali”, si fecero chiamare “Apostolici” (o “Minimi”), conducendo una vita a imitazione di Cristo e dei primi apostoli ed evidenziare la loro collocazione al livello più basso della scala sociale. Nel convulso scenario sociale dell’Italia centro-settentrionale di quel tempo, quella degli Apostolici conobbe una vasta credibilità popolare, soprattutto nelle città emiliane. Testimonianze storiche di quel periodo, annotate con stupore anche dal frate minore Salimbene de Adam, uno dei più accesi critici dello stesso Segalelli, riferiscono che la gente accorreva ad ascoltare i sermoni di questi nuovi predicatori svuotando le chiese degli ordini mendicanti.

Conducevano una vita semplice fatta di digiuni e preghiere, vivendo di carità. E la loro scelta di assoluta povertà, che si traduceva in rifiuto di qualsivoglia gerarchia, e il loro spiritualismo, intriso di misticismo e nomadismo, erano visti dal “popolo” come tratti salienti di una comunità libera e aperta, rinnovatrice del messaggio cristiano. Perfettamente inseriti nelle attese millenaristiche così diffuse nella metà del Duecento, ispirate dalle profezie di Gioacchino da Fiore (non a caso il Segalelli comincia la sua predicazione, se non in concomitanza, poco dopo il movimento dei flagellanti), gli Apostolici richiamavano al pentimento: la loro massima più famosa e tramandataci era «Poenitentiam agite» ("fate penitenza"), contaminato poi in Penitençagite. Il loro fu un movimento aperto, capace di accogliere istanze ed esperienze religiose e sociali diverse, dai valdesi ai gioachimiti, compresi molti “fraticelli”, quei francescani appartenenti alla corrente “spirituale” che osservavano alla lettera la Regola ed il Testamento di Francesco d’Assisi, mantenendo inalterato lo stile di vita originario predicato dal santo, basato sulla povertà e rinuncia di ogni privilegio.

La cosa che più colpisce, leggendo i processi contro gli Apostolici negli anni a cavallo tra fine Duecento ed il Trecento, compreso quello del Segalelli, che decretò la sua condanna al rogo, è che non si possono individuare accuse specifiche e tali che, sulla base del diritto canonico e dei decreti pontificali, potessero far delineare apertamente il reato di eresia, come, ad esempio, per il dualismo dei catari. Il movimento degli apostolici, infatti, non aveva una vera e propria dottrina e non proponeva particolari letture e interpretazioni del Vangelo, se non un rapporto più coerente con il primitivo messaggio cristiano. I germi di questo atteggiamento ostile da parte delle gerarchie ecclesiastiche li troviamo nel già citato Salimbene de Adam, la principale fonte storica a riguardo della vicenda del Segallelli. Nella sua Cronaca egli apostrofa gli Apostolici con tutta una serie di epiteti ingiuriosi, come porcari, idioti, illetterati, stolti, e, significativamente, usa come spregiativo anche la parola "laici". Ed è, forse, proprio questa parola, usata come insulto, la chiave che ci permette di comprendere tutta la vicenda. Salimbene, infatti, che è un francescano conventuale, patisce la "competizione" che gli Apostolici suscitano nei confronti del suo ordine, e ritiene inconcepibile che dei semplici laici possano parlare di dio. Quella di Gherardo è invece un’apertura al mondo dei laici: tutti possono annunciare dio senza bisogno di prendere voti (con duecento anni di anticipo rispetto al sacerdozio universale predicato da Martin Lutero).

Coglie nel segno poiché, rispetto ai movimenti pauperistici ed ereticali precedenti, la vera novità del messaggio di Gherardo, e di Dolcino da Novara poi, il suo epigono, fu la rivendicazione e affermazione del diritto di ognuno a vivere la propria esperienza religiosa autonomamente, sostenendo che il rapporto diretto tra Dio e il cristiano dovesse realizzarsi senza l’intermediazione ecclesiastica. è questa la “vera” e, forse, più pericolosa eresia ed è questo il vero senso della frase più famosa che ci è rimasta di Segalello: «poenitentiagite, quia appropinquabit Regnum Coelorum». Non è un Regno dei Cieli astratto, ma ben concreto, è una comunione di ideali ispirata alla rinuncia, alla povertà, per poter incontrare dio che ci viene incontro, non nell’al di là, ma oggi, nella vita di tutti i giorni: è oggi che si deve agire. La “Chiesa” di Gherardo è una chiesa che cammina nel mondo a fianco del povero e dell’emarginato; professa un Dio accondiscendente verso tutti coloro che vivono in povertà e a imitazione di Cristo. In altre parole è il Vangelo “sine glossa", il Vangelo di Francesco, senza compromessi, da qui la rinuncia a ogni pur minima forma di accumulazione e la comunione dei beni, il rifiuto di qualsiasi gerarchia nella comunità apostolica, e l'eguaglianza tra uomini e donne, così ben sintetizzato nel rito apostolico della expoliatio o expropriatio a cui dovevano sottostare i nuovi fedeli, che, riuniti in cerchio, dovevano disfarsi dei propri abiti per ricevere come unico indumento un saio fatto di rozza tela di sacco. Un pauperismo così integrale rese la comunità apostolica una comunità itinerante, senza nessuna sede fissa, casa o convento e al suo interno non vi era distinzione di ruoli: tutti i fedeli erano pari e lo stesso Segallelli si rifiutò sempre di essere riconosciuto come capo o guida spirituale.

Forti sono, dunque, le analogie con Francesco. Anche lui è un cantore, o per meglio dire un giullare, della “semplicitas”, del non possedere nulla, unica condizione possibile per incontrare Dio ed essere liberi dai condizionamenti materiali. Anche nel modo di comunicare con il popolo sono simili: entrambi cercavano di attirare l’attenzione dei fedeli ricorrendo alla teatralità, agli atteggiamenti giocosi, all'uso del volgare per essere capiti dal popolo minuto. Altra analogia con il santo di Assisi è l’importanza che avevano le donne all’interno del movimento (pensiamo al peso che ebbe per Francesco la figura di Chiara). Con Gherardo, però, si va oltre poiché la donna apostolica aveva la stessa dignità e rispetto dei suoi compagni, predicando come loro (emblematica a questo riguardo è Margherita di Trento, figura leader come e assieme a Dolcino nella resistenza di Monte Ribello in Alta Valsesia). Il rapporto uomo-donna conobbe un’evoluzione così spinta tale da non riconoscere come sacramento il matrimonio, sostenendo, piuttosto, una libera convivenza, liberando la donna da quella concezione patrimoniale, tipica per la mentalità di quel tempo, che la riduceva a “proprietà” dell’uomo.

è facile immaginare come una tale concezione fosse ritenuta scandalosa per la Chiesa romana. Non solo, gli Apostolici affermavano anche che il corpo non era inferiore rispetto all’anima, ma che ne era unito, negando, in questo modo, l’utilità della costrizione. Molto più opportuno, piuttosto che negare la propria natura, era sostenere una libertà consapevole e responsabile, dove la sessualità assume un valore importante, inteso come linguaggio, comunicazione, “dell’amore”. L’unione fisica di una donna e di un uomo (senza la quale non v’è generazione), era concepita come dono di Dio, del tutto naturale come il germogliare degli alberi a primavera. La castità, perciò, viene intesa dagli Apostolici non come un obbligo ma come un gesto volontario, un modo per perfezionarsi, comunque a discrezione del singolo. Avere rapporti sessuali è umano, è una condizione assolutamente naturale e come tale viene considerata, senza complessi, mostrando, in questo modo, una concezione moderna ma non per questo depravata.

Il mondo umile e povero di Segalello, il suo rovesciamento dei valori rispetto alla società vigente, è comune a quello di Francesco. «Seguire nudi il Cristo nudo» è il messaggio di entrambi. Agli occhi dei suoi contemporanei, il Segalelli è un secondo Francesco,  non quello consegnatoci dalla tradizione successiva, frutto della rivisitazione operata da Bonaventura da Bagnoregio, generale dell'ordine francescano dopo Giovanni da Parma, che emarginò in tutti i modi i francescani “spirituali”, falsificando la figura di Francesco d'Assisi, privandolo dei suoi contenuti più innovatori e clamorosi. Il Segalelli, però, va oltre poiché annuncia (e aspira) ad una chiesa unicamente spirituale, sganciata dal potere temporale (pensiero che è alla base del moderno concetto di separazione tra stato e chiesa). La “comunità” apostolica anticipa anche il principio di uguaglianza moderno ed attuale, così diverso dalla “dipendenza” in vigore nella società feudale e nella gerarchia ecclesiale. Predicare l’incontro diretto tra l'uomo e Dio, per la mentalità dell’epoca, era un atto di libertà estremo: l'unico obbligo che viene riconosciuto è di tipo interiore, mai esteriore. Tesi, questa che portata nelle estreme conseguenze, conduceva a ritenere implicitamente superflua un’organizzazione gerarchica come quella ecclesiastica, intesa come mediazione tra l’uomo e Dio.

è questo il motivo principale per cui Gherardo verrà giudicato eretico dalla Chiesa di Roma nel 1300, anno del primo Giubileo, ben 30 anni dopo l'inizio della sua predicazione, quando, impegnata più che mai a reprimere il dissenso e a perseguitare chi criticava il comportamento dei suoi ministri, anche i più indegni, non poteva certo tollerare una simile ed incomoda presenza. Dapprima, con papa Gregorio X (1271-1276), nel 1274 al II Concilio di Lione, si proibì la fondazione di nuovi movimenti religiosi mendicanti e si stabilì l'obbligo per quelli esistenti di confluire in organizzazioni ufficialmente approvate dal clero. Quindi, dato che gli Apostolici ben si guardarono di adeguarsi alle direttive imposte, sotto Papa Onorio IV (1285-1287), preoccupato per il diffondersi della setta, fu promulgata, nel 1286, durante il Concilio di Würzburg, la bolla papale Olim felicis recordationis, che ribadiva la condanna del loro movimento, imitato da papa Niccolò IV (1288-1292), che rinnovò nel 1290 un’analoga sentenza contraria. Ma non potendo o non volendo contrastare il Segalelli sul piano morale, l’Inquisizione, che prima aveva cercato di distruggere l’uomo calunniandolo e facendolo passare per un insano di mente, un esaltato od un rivoluzionario, per mano dell'inquisitore Manfredo da Parma, lo processò consegnandolo al braccio secolare. Significativamente, Gherardo venne arso sul rogo il 18 luglio del 1300, quando sedeva a Roma sulla cattedra di Pietro un papa, Bonifacio VIII (1294-1303), non certo tenero con i predicatori “irregolari” e i dissidenti.

Fra' Dolcino in un'immagine di Lorenzo Innaciotti di Romagnano Sesia

  

Dopo il rogo del fondatore si scatenò contro gli Apostolici una repressione feroce, mandando al rogo uomini e donne (i processi di Bologna). Dopo un momento di sbandamento e incertezza, Dolcino da Novara, con la sua prima lettera, riuscì a riorganizzare le fila dei fedeli divenendo il capo carismatico del movimento ed il successore di Gherardo. Dolcino seppe dare un nuovo volto ed impulso al movimento apostolico, soprattutto quando parla di autodesignazione degli Apostolici, rendendoli depositari di una nuova missione: la costruzione di una nuova Chiesa, essere, cioè, promotori non di una “riforma”, ma della creazione di un cristianesimo essenzialmente alternativo ed innovativo. Con Dolcino l'opposizione alla Chiesa romana diviene scismatica e il conflitto si radicalizza. Millenarista, riprende le profezie e le scansioni temporali gioachimite, collocandole in una nuova dinamica: per Dolcino il clero è apostata e corrotto; Roma, la nuova Babilonia, ha tradito l'insegnamento di Cristo. E per questo sarà punita da Dio; nella sua seconda lettera predice che la gerarchia romana verrà eliminata nel sangue per mano di un re “provvidenziale”, da lui individuato in Federico di Sicilia, erede degli Svevi, visto quale il nuovo grande Federico II. Nell'inverno tra il 1305 e il 1306, Dolcino inviò la sua terza e ultima lettera, in cui annunciava come imminente la venuta dell'Anticristo e in cui si profetizzava che lui e i suoi seguaci sarebbero stati portati in paradiso davanti ai patriarchi Enoch ed Elia per scampare alla persecuzione.

Dolcino è, soprattutto, famoso per la sua resistenza armata (1305-1307) nelle montagne dell’Alta Valsesia. Ma Dolcino non fu qualcosa d’altro, qualcosa di diverso, dal Segalelli, poiché rimase nel solco indicato dal fondatore del movimento. Anche lui anelava e attendeva l'avvento del Regno di pace, giustizia e amore, annunciato da Gherardo. Nella vicenda dolciniana dobbiamo anche stare attenti ad evitare un’alterazione dei fatti storici: sicuramente non avevano alcuna vocazione guerrigliera (non a caso, quando nel 1303 le prime repressioni iniziarono nel Trentino, con il rogo di un uomo e due donne, una delle quali era la moglie del fabbro fra' Alberto da Cimego, il più autorevole seguace locale di Dolcino, essi abbandonarono quelle valli, dove potevano contare sull’appoggio della popolazione locale, senza opporre resistenza alcuna). Quando giunse nel 1304 a Gattinara, le cronache ce lo descrivono come un predicatore che passava di casa in casa, ben lungi dal capo guerrigliero che la storiografia ha sempre voluto rappresentare. Solo un anno dopo, nel 1305, le cronache riferiscono che nell'alta valle i dolciniani sono divenuti un esercito forte ed agguerrito (alcune parlano addirittura di 4000 ribelli); ma come si sono potuti trasformare dei “predicatori”, con al seguito donne, bambini ed anziani, in ribelli indiavolati, capaci di compiere scorrerie e mettere a soqquadro la valle? In realtà, è plausibile ritenere che i dolciniani si inserirono nelle vicende della comunità montanara dell'alta valle, allora in lotta con i potenti locali, gelosa delle propria autonomia ed insofferente verso la politica di espansione dei Comuni e dei Vescovi di Vercelli e di Novara. I montanari accolsero gli Apostolici e il loro messaggio evangelico, egualitario e fraterno, così vicino al loro vivere solidale e comunitario. I dolciniani confluirono nella ribellione montanara e, probabilmente, ne divennero i dirigenti (come quello che successe, poco più di due secoli quando Tommaso Müntzer sposò la causa dei contadini).

Il giovedì santo del marzo 1307, dopo due anni di resistenza strenua, i soldati del vescovo Ranieri di Vercelli sferrano l'attacco decisivo. La battaglia infuria nella piana di Stavello. Solo dopo un'intera giornata i crociati riescano a travolgere i superstiti, pochi uomini e donne denutriti, che lottano fino in fondo con la convinzione che Dio li aiuterà. Molti vengono uccisi sul posto, altri bruciati sul rogo. Voci raccontano che un ruscello, ora chiamato Carnasco, venne chiamato così per l'acqua divenuta rossa come il sangue per i corpi colà buttati. Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo, il suo luogotenente, sono catturati vivi e con loro altri prigionieri. Il primo luglio dello stesso anno, dopo sofferenze orribili, vengono arsi sul rogo dopo un’interminabile ed orribile processione per le vie di Vercelli e Biella.

Dopo la loro morte atroce, il movimento apostolico comunque non finisce. Nel 1310, il sinodo di Treviri ribadisce la condanna degli Apostolici; nel 1332-1333 a Trento si hanno i processi a carico di sospetti dolciniani; nel 1368 il sinodo di Lavaur ribadisce la condanna degli Apostolici; nel 1374, il sinodo di Narbona sancisce l'ultima condanna ufficiale. Lo stesso Benvenuto da Imola, nel suo Comentum dantesco, scritto nel 1376-77, 70 anni dopo la vicenda dolciniana, afferma che «nelle montagne di Trento, dove Dolcino diede inizio alla sua eresia, rimangono ancora alcuni seguaci che si tengono nascosti in luoghi segreti, secondo il costume dei religiosi, chiamati Dolcini». Da cronache dell’epoca e processi inquisitoriali risulta addirittura una diffusione del movimento di carattere europeo, con una particolare affermazione in Germania.

Dal XV secolo, però, non rimangono tracce del movimento, come se fosse scomparso nel nulla (è molto probabile che i superstiti siano stati accolti nel movimento valdese). Ma non per questo scomparve la sua domanda di giustizia e riscatto sociale in questo mondo, non nell’altro, domanda che, personalmente, trovo ancora attuale. E mi piace pensare a Gherardo, “giullare di Dio” e uomo del popolo, come Francesco, intento a far ridere i suoi ascoltatori per liberarli dalla paura ed irridere il potere. Forse, se fosse vissuto mezzo secolo prima, lo avrebbero santificato o, forse, se lo stesso Francesco fosse vissuto ottant'anni dopo sarebbe finito al rogo. Nessuno può dirlo, ognuno è figlio della sua storia. Ma a pensarci bene sono stati due eretici tutti e due, se per la parola eretico intendiamo il suo significato originario, hàiresis, che significa appunto “la scelta”. E la loro fu una scelta di vita, non di comodo.

  


Sui temi dei movimenti ereticali, vedi, in questo sito, la rubrica Medioevo ereticale, a cura di Andrea Moneti.

  

  

©2004 Andrea Moneti

    


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