Sei in: Storiamedievale ® Pre-Testi

di Pierfrancesco Nestola

Prima parte

 Montalbano, Porta Pandosia

 

«Quattro miglia distante dall’antica Pandosia, sovra ameno e spazioso colle dall’altra parte del fiume Acri, verso Settentrione giace la città di Montalbano mia Patria […]. Veggendovisi quasi intiero il recinto delle antiche mura tutte di merli ornate, da passo in passo inframezzate di torri quadrate, colle loro balestriere nei lati, con un fortissimo castello (ormai diroccato) sovra di una rupe e colle cataratte di ferro nella porta maggiore: sovra di cui fino a’ nostri giorni si è veduta dipinta la figura di Giano Bifronte, che adesso per l’ingiuria del tempo in parte scrostata si vede […]». Con queste parole l’abate cistercense Placido [al secolo Francesco Antonio] Troyli, nato a Montalbano nel 1688, descriveva la sua città natale nella sua monumentale Istoria generale del Reame di Napoli [1]. L’opera, di per sé complessa ed estremamente controversa, non è di certo la più raccomandabile per chi voglia accingersi ad utilizzarla per ricerche storiche di qualsiasi natura. Le cose stanno diversamente per quanto riguarda le descrizioni topografiche, molto accurate e piene di spunti ed osservazioni brillanti. Basti qui ricordare la lucida descrizione di Castel del Monte [2], che compare nel quarto tomo dell’opera.

Procediamo con ordine.

Innanzitutto non si capisce bene come il Troyli faccia a dire che Montalbano sia a Nord di Pandosia (antica città, irrimediabilmente distrutta da un incendio nel XIII secolo, che sorgeva nel luogo in cui ora c’è il magnifico santuario di Santa Maria d’Anglona, unica struttura superstite, tra l’altro e per fortuna, dell’intero abitato), dal momento che le cose stanno esattamente al contrario. Ma l’abate scriveva nel XVIII secolo, e peccheremmo imperdonabilmente di deformazione prospettica se immaginassimo l’erudito prelato consultare un atlante dei nostri! In realtà il Troyli ha ben altro da dirci: un intero recinto di mura merlate e munite di torri “quadrate”. Quale recinto?

Montalbano conta, infatti, due cinte murarie, perfettamente distinguibili e conservate abbastanza bene. La prima è quella che cinge la “terravecchia”, la parte più antica dell’abitato, sviluppatasi evidentemente dalla struttura castellare ormai completamente scomparsa; la seconda cinge invece il “borgo”, sviluppatosi dall’ edificio che oggi risponde al nome di chiesa di Santa Maria dell’Episcopio (non perché fosse sede episcopale, ma perché i vescovi di Tricarico andavano a svernarvi).

Non abbiamo notizie certe riguardo alla fondazione delle mura più antiche. L’unico barlume di testimonianza ce lo fornisce indirettamente uno storico autodidatta, montalbanese anch’egli, quindi fortemente motivato a dar lustro d’eterna ed antica fama al borgo suo natale: il cavalier Prospero Rondinelli, che ebbe, malgrado tutto, la lungimirante e lodevole idea di mettere un po’ d’ordine tra le carte sparse in cui Montalbano era menzionata, provvedendo a salvar delle notizie altrimenti neanche più rintracciabili dopo il geniale rogo dell’Archivio di Napoli diligentemente effettuato dai nazisti. Ad esempio (ma non è, né sarà in questa sede l’unico) una memoria forense, forse ormai non più (per i suddetti motivi) reperibile, dell’avvocato Giambattista Fiorentini, è stata infatti consultata dal cultore di storia montalbanese, il quale ne ha dedotto alcune interessanti notizie, sebbene di difficile riscontro. L’avvocato Fiorentini, montalbanese anch’egli, asseriva in una sua memoria forense che Montalbano fosse già cinta di mura dal secolo VIII [3].

Su quali basi il giurista fondasse la sua dissertazione, non è dato a noi sapere. Ma una cosa è certa: già dal secolo decimottavo (in cui l’avvocato scrisse) Montalbano contava già diversi suoi cittadini che cercavano di dar contezza delle sue vicende storiche. L’avvocato Fiorentini; l’avvocato Gaetano Celano, che, per testimonianza del Gattini [4], difendeva nel 1776 i diritti che Montalbano aveva sulla “difesa” di Andriace contro le pretenziose rivendicazioni della reverenda mensa vescovile di Tricarico. Diverse menzioni dell’avvocato Celano sono fatte anche dal Rondinelli e la diatriba con la sede vescovile tricaricese era d’antica data. Il già menzionato abate Placido Troyli, dopo esser caduto in disgrazia per aver voluto accondiscendere a certe ingiuste e fameliche mire dei cistercensi toscani, si trovò coinvolto in un bellum diplomaticum contro il vescovo tricaricese del tempo, monsignor Antonio Zavarroni, scontro dal quale uscì con le sue povere ossa più rotte di prima [5]. E non si dimentichi che i vescovi della suddetta diocesi, a Montalbano andavano sin dal secolo XVI a svernarci e, in alcuni casi, lì videro il dies natalis delle loro anime [6]!

Concluso questo breve, incompleto (all’ennesima potenza! E Francesco Lomonaco? E Niccolò Fiorentini? E Felice Mastrangelo?) e certamente noioso excursus su Le ragioni della storiografia a Montalbano Jonico, torniamo alle nostre mura medievali.

Tralasciando la lodevole, ma purtroppo impossibile da verificare e quindi inattendibile, citazione del Rondinelli, non ci resta che “strizzare” le testimonianze a nostra disposizione, per vedere se qualche goccio di storia riesce a venir fuori.

Continuiamo, quindi, l’analisi del testo dell’abate Troyli, ipotizzando che il “recinto” da lui descritto sia quello delle mura più antiche. Si preferisce questa e non l’altra ipotesi per alcune semplici ragioni che discorreremo qui appresso. Innanzitutto, il reverendo Placido non poteva non tener conto, in una qualsivoglia descrizione della sua città natale, di casa sua, ovvero della posizione di questa rispetto al resto dell’abitato, punto dal quale lo “sguardo” della sua memoria doveva prendere origine. Certi del fatto che il buon abate, uomo (checché se ne sia detto o se ne dica) di grandissimo spessore intellettuale, sarebbe certo stato felicissimo di stimolare l’altrui intelletto al fine di dar scaturigine ad un proficuo dialogo [7], sottoponiamolo pure, tranquilli di non urtarlo, al P.A.T., vale a dire il Picture Arrangement Test [8] [test di ordinamento di un disegno]. Partendo con il considerevole vantaggio di conoscere a priori la rappresentazione dello spazio effettuata dal soggetto. La casa in cui nacque Placido Troyli è situata nell’odierno Corso Carlo Alberto, ex via principale della cittadina, che prende origine per l’appunto dalla “porta del castello”, per andare a finire nel punto in cui si apriva la porta (ormai diruta) principale della seconda cinta muraria: “porta della terra”. Ci troviamo dunque tra i due fuochi del nostro ragionamento! Che volere di più?

 Montalbano, un'immagine del centro storico

Dalla sua casa natale, l’abate muove certamente gli occhi della memoria in direzione della cortina muraria più antica: essendo la seconda cinta muraria oggetto di nuovi restauri nel 1860 [9], quindi ancora pienamente funzionante nel secolo decimottavo, quando il prelato scrisse, o a maggior ragione alla fine del Seicento, se la descrizione è frutto di ricordi dell’autore, è impensabile che essa fosse oggetto della descrizione del Troyli, poiché era parte talmente integrante del borgo, che in una descrizione antiquaria (si pensi all’effigie di Giano) non aveva ragion d’essere.

A quei tempi la prima cinta doveva vedersi ancora quasi intera, non essendo stata per ampie porzioni fagocitata da corpi di fabbrica assai più recenti, merlata e torreggiante così come l’abate la descrive e, soprattutto, munita di balestriere. Questo elemento è interessante: la balestra, infatti, è un’arma certamente medievale, ma l’inizio del suo impiego nell’Italia meridionale è di dubbia datazione, oscillando tra XI e XII secolo. Ora, premesso che una balestriera è ancora oggi perfettamente conservata e visibile in un tratto delle mura più antiche (quindi l’abate ha davvero ragione), non ci resta che decidere se tendere una mano in direzione della memoria forense dell’avvocato Fiorentini (sbilanciandoci almeno fino al secolo XI, se non all’VIII) o preferire una datazione più recente. Ad esempio se ne potrebbe ipotizzare una al XII secolo, partendo dalla notizia che Ruggero II, nel 1127, occupò diversi castelli nelle immediate vicinanze: Craco, Sant’Arcangelo, Tursi, Oggiano (primo nucleo dell’odierna Ferrandina) e Pisticci, quindi dovette procedere al racconciamento e alla manutenzione, in primis, degli impianti difensivi, a maggior ragione dal momento che la sua politica era orientata precipuamente su un riutilizzo di ogni forma di fortificazione, sia urbana che rurale [10].

Ma ciò ci fornisce indirettamente un ulteriore elemento, per quanto controverso e privo di riscontro diretto, in favore della datazione più remota: la politica di Ruggero optava più spesso per un riutilizzo delle strutture difensive preesistenti, più che per una loro fondazione ex novo. Certo, Montalbano non compare nell’elenco, dunque nulla di certo può essere evinto dall’intera trattazione, ma proprio la balestriera può essere un elemento-chiave per comprendere qualcosa di più. Durante le ultime Giornate normanno-sveve (le informazioni che verranno qui riportate provengono dagli appunti presi al convegno da chi scrive, non essendone ancora stati pubblicati gli atti, in data attuale) si è acceso, in seguito alla relazione di Aldo Settia, un interessante dibattito in merito all’utilizzo della balestra e alla datazione di questo utilizzo, dal quale sono scaturite interessanti osservazioni. Innanzitutto già Amato di Montecassino parla dell’utilizzo della balestra (arbaleste) alla fine del secolo XI [11], ma non sappiamo con certezza se la menzione sia da attribuirsi a un involontario “elemento di decontestualizzazione” sfuggito alla penna del volgarizzatore trecentesco dell’opera di Amato, la cui originale redazione latina è andata ormai perduta; inoltre, durante il suddetto dibattito, si è appreso che anche l’Anonimo Vaticano (che non mi è stato possibile, nell’ambito di questa piccola ricerca, consultare direttamente) riferisce dell’utilizzo della balestra nel secolo XI e d’altra parte pare che furono proprio i cavalieri Normanni, dato che l’etica cavalleresca, prima del secolo XII, non escludeva l’utilizzo delle armi a distanza, ad introdurre nell’orientaleggiante Mezzogiorno d’Italia l’arma così tipicamente occidentale. Lo stesso Settia propende per una diffusione dell’arma in tutto l’Occidente proprio a partire dal secolo XI [12], nonostante essa fosse attestata un po’ in tutta l’area europea sin dall’alto Medioevo.

Per quel che riguarda il Mezzogiorno in sé e per sé, dallo stesso dibattito è emerso che in Puglia una balestra è attestata da un atto notarile del secolo XII, data invero molto vicina all’occupazione dei centri vicini a Montalbano da parte di Ruggero II. Ma c’è ancora dell’altro da mettere in relazione alle notizie qui riportate. Nel Catalogus Baronum sono riportate delle notizie decisive per fornire saldi margini di certezza ad una datazione al XII secolo di un’opera di manutenzione, più che di una fondazione ex novo, delle fortificazioni di Montalbano. In seguito alla politica congiunta di Manuele Comneno e Corrado III in funzione antinormanna, Ruggero II diede il via a quel grande movimento di arruolamento in tutto il Regnum, noto come Magna expeditio [13], per contrastare un attacco che doveva avvenire nel 1149, anche se la riconquista normanna di Corfù dello stesso anno dovette fruttare al Normanno un bel vantaggio, specie in termini di tempo, tanto da costringere il basileus a rinviare sine die l’attacco decisivo alla Calabria [14]. Fatto sta che a partire dal 1150 l’arruolamento in massa fu davvero ingente e si avvalse di strumenti come l’augmentum.

La natura del provvedimento è stata oggetto di discussioni, dato che il termine non compare in alcun altro documento, ma doveva essere l’equivalente, sul piano feudale, dell’«auxilium pro magna expeditione», esatto anche da istituzioni ecclesiastiche, normalmente esenti da imposizioni di natura feudale [15]. Orbene, nell’ottica di questa leva forzata, Montalbano, feudo da cinque cavalieri, aumenta i suoi effettivi a dieci cavalieri e dieci servientes [16]. Ciò la dice lunga sulle risorse del centro già nel XII secolo, ma ci fornisce indiretta testimonianza di una struttura castellare, residenza fortificata o sistema difensivo del borgo che fosse, perfettamente funzionante, anzi munitissima, già a quell’epoca: armare, addestrare e  mantenere dieci milites, ovvero guerrieri professionisti a cavallo, non era spesa da poco. Per quel che concerne i servientes, invece, erano, già in età normanna, truppe ausiliarie o mercenarie [17]. È impensabile che un centro capace di fornire, prima dell’imposizione dell’augmentum, cinque milites non fosse quantomeno munito di mura e torri. Inoltre, la presenza stessa di guerrieri specializzati intra moenia favorisce l’ipotesi di relazione poco fa avanzata tra la balestriera ed una rifortificazione del centro in età ruggeriana: l’utilizzo di un’arma all’epoca modernissima, come la balestra, presupponeva certamente la presenza di gente in grado di manovrarla.

Purtroppo un elemento di disturbo tanto inaspettato quanto inopportuno ci “spezza le ginocchia” in questo ragionamento: la notizia dell’augmentum per Montalbano è giustificata nel Catalogus come segue: «[…] sicut dixit Guillelmus Petre Perciate […]». Mi sento di avanzare qualche dubbio sull’effettiva relazione con Montalbano di Guglielmo di Pietrapertosa. Il personaggio è infatti il fratello di Roberto di Pietrapertosa (in latino medievale, come riportato nel Catalogus, Petreperciate). Questa è una testimonianza orale riportata nel documento, e di testimonianze orali, almeno per tutti gli altri centri della zona, nel Catalogus Baronum non ce n’è nemmeno una. La faccenda sembra inspiegabile, ma gratta gratta il russo che vien fuori il cosacco…

Nel Commentario del Catalogus [18] tale testimonianza è giustificata sulla scorta di un’altra menzione del personaggio in una sentenza di Ruggero II diretta a Guglielmo arcivescovo di Siponto, compresa in un apocrifo di Guglielmo I indirizzato a Filippo de Gussone giustiziere di Basilicata. E quali sono le testimonianze richiamate? Zavarroni e il suo anonimo oppugnatore autore dell’opera intitolata Insussistenza ed Invalidità de’ Privilegj che si pretendono conceduti da’ Principi Normanni alla Chiesa Cattedrale di Tricarico, per le Terre di Montemurro, ed Armento, giusta l’opposizioni de’ moderni Critici, in favore dell’Illustre Duca di Montemurro D. Vespasiano Andreassi, contro le moltiplicate Riflessioni di Monsignor D. Antonio Zavarrone Vescovo della medesima Chiesa. Premesso che l’opera dello Zavarroni si chiamava curiosamente Esistenza e validità de’ privilegi conceduti da’ Principi Normanni alla Chiesa Cattedrale di Tricarico, aggiungerò soltanto, lasciando al lettore eventuali deduzioni, che altrove [19] credo di aver dimostrato che l’anonimo altri non fosse che l’abate Placido Troyli. Le deduzioni del lettore, confido, converranno sul fatto che la certezza della notizia tentenna paurosamente.

Lungi dal voler affrontare spinosissime ed intricate problematiche in questa sede, si riterrà opportuno prendere l’informazione con il beneficio dell’inventario. Ma è impossibile tacere il fatto che il Rondinelli riporta l’informazione della donazione di Andriace fatta nel luglio 1110 proprio da Umbaldo signore di Petrolla al cenobio di Bansi, riprendendola proprio dalla stessa opera dello Zavarroni! Il problema è a monte e non possiamo sapere fino a che punto le rivendicazioni dell’episcopato tricaricense, strenuamente oppugnate dal Troyli, dal Celano, dal Fiorentini o da chi altri abbiano potuto influire su di una ricostruzione veritiera e fededegna delle notizie riguardo a Montalbano in età normanna.

Come se tutto ciò non bastasse, il Rondinelli riferisce di un altro spunto della citata memoria forense dell’avvocato Celano: una concessione di Ruggero II, del 1151, in cui il Normanno confermava al cenobio di Bansi alcune prerogative sul «casale Andriachium in tenimento Montis Albani». Ora, se la notizia fosse vera (ma chi ce ne offrirà riscontro certo?), si potrebbe ipotizzare una struttura castellare a Montalbano, dato che di lì dovevano venire amministrate importanti risorse come un casale compreso nel proprio tenimentum, già dal XII secolo. Ma ciò avrebbe un senso se oggetto delle attenzioni su Montalbano da parte dei vescovi di Tricarico non fosse proprio Andriace, sin dal XVI secolo. Perché mai venivano infatti a svernarvi, se non per controllarne in loco produzione e resa? E qui il Rondinelli, non volendolo, ci regala il bandolo dell’intricata matassa [20]. Come pervenne Andriace alle amorevoli cure dell’episcopato tricaricese? Ma dal monastero di Bansi, mi sembra ovvio! Peccato che Andriace nel Catalogus non compaia. La questione è assai complicata e non si cercherà certo di fornire in questa sede spiegazioni che necessiterebbero di ben altri spazi e studi. Un’ultima cosa ci resta comunque da fare: compiere un volo pindarico e mettere in relazione con quanto detto, a questo riguardo, l’unico relitto medievale mai significativamente racconciato presente a Montalbano: la parola dialettale per descrivere la “terravecchia”, ovvero la parte dell’abitato cinta dalla prima cortina muraria: ‘U Castìedd.

 


1  Placido Troyli, Istoria generale del Reame di Napoli, tomo I, parte II, Napoli 1747, p. 146.

2  Id., Istoria cit., tomo IV, Napoli 1749, p. 130. Per approfondire l’argomento cfr. Massimiliano Ambruoso, Castel del Monte: un tempio «virtuale», in R. Licinio (a cura di), Castel del Monte e il sistema castellare nella Puglia di Federico II, Bari 2001, pp. 77-112.

3  Prospero Rondinelli, Montalbano Jonico e i suoi dintorni. Memorie storiche e topografiche, Taranto 1913, p. 21.

4  C. G. Gattini, Delle Armi de’ Comuni della Provincia di Basilicata, Matera 1910, p. 52.

5  Propongo una modesta sintesi dell’argomento nella mia tesi di laurea: Pietro Francesco Nestola, Roberto il Guiscardo nell’«Istoria» di Placido Troyli, Università degli studi di Bari, Facoltà di Lettere e Filosofia, Anno Accademico 2002-2003.

6  Rondinelli, Montalbano cit., p. 145.

7  Troyli, Istoria cit., tomo I, Introduzione dell’autore, fol. VI, n° VII: “[…] l’Uomo fornito dell’uso di ragione, sempre il Perché nelle cose dubie rintracciar debbe”.

8  Per le tecniche percettive di rappresentazione delle carte geografiche e per l’approccio “anomalo”, nel suo complesso, con il quale si sta cercando in questa sede di affrontare la questione, cfr. Costantino Caldo, Geografia umana, Firenze 1996, cap. 13 «Percezione e spazio sociale», pp. 256-269.

9  Rondinelli, Montalbano cit., pp. 21-22.

10  Per l’intera tematica cfr. Raffaele Licinio, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, Bari 1994, pp. 85-102.

11  Amato di Montecassino, Histoire de li Normant, ed. V. De Bartholomaeis, in FSI, 76, Roma 1935, lib. IV, cap. XXVIII, p. 202.

12  Aldo A. Settia, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Roma-Bari 2002, p. 277.

13  E. Jamison (a cura di), Catalogus Baronum, FSI, 101, Roma 1972, Foreword, pp. XV-XVI.

14  Salvatore Tramontana, Il Mezzogiorno medievale. Normanni, svevi, angioini, aragonesi nei secoli XI-XV, Roma 2000, p. 43.

15  Jamison (a cura di), Catalogus cit., Foreword,  p. XXI.

16  Ivi, n. 139.

17  Licinio, Castelli cit., p. 124.

18  E. Cuozzo (a cura di), Catalogus Baronum. Commentario, FSI 101, Roma 1984, nn. 136 e 139.

19  Nestola, Roberto il Guiscardo cit., pp. 110-117.

20  Rondinelli, Montalbano cit., p. 37.

   

    

  

© 2005 Pierfrancesco Nestola.

   


torna su

Pre-testi: Indice

Home