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di FABIO FIGARA

  

   

1254: Luigi IX di Francia, definito in seguito re santo, tornò in patria dopo una disastrosa crociata (la settima) ed una prigionia di quattro anni. Il suo rilascio costò ben 400.000 libbre tornesi e la cessione dei diritti su Damietta, della quale aveva assunto il controllo nel 1249. Giunto in Francia, fu costretto ad occuparsi di una rivolta della popolazione contadina (e non solo), distogliendo così il suo pensiero da qualsiasi nuovo proposito di crociata.

La situazione in Terra Santa peggiorava giorno dopo giorno: molti avamposti cominciavano a venir meno a causa degli attacchi dei Turchi, i quali ripresero possesso di città come Cesarea o di roccaforti come quella templare di Beaufort; gli stati crociati creati sino ad allora decadevano progressivamente, soprattutto per la mancanza di un’organizzazione interna efficiente e stabile. Inoltre mancava  l’appoggio dei regni europei a causa di un radicale cambiamento di mentalità delle masse, che non riuscivano più a trovare ideali nelle spedizioni per liberare il Santo Sepolcro: il pellegrinaggio iniziava ad essere svalutato come forma penitenziale e devozionale, e nuove correnti, come quella gioachimita, rimproveravano l’inutilità dell’impresa. C’era il rischio della fine di un periodo di compattezza dei paesi occidentali cristiani che, nel pensiero di dover sconfiggere un nemico comune, erano riusciti fino a quel momento a trovare quel minimo di unità che da tempo mancava in Europa, unità che aveva permesso loro di risolvere alcuni problemi interni (non ultimo il raggiungimento di un accordo sull’elezione papale senza contese). D’altra parte era divenuto troppo dispendioso mantenere eserciti e regni in Terra Santa, e ormai le vie degli scambi commerciali verso Alessandretta, verso Cipro, nel Mar Nero e nel delta del Nilo sembravano ben consolidate.

Fu in questo clima “anticrociato” che la predicazione divenne mezzo potentissimo di propaganda, forse come mai prima di allora. Nacque un vero e proprio ordo predicatorum, che  aveva fatto il suo fine primario, e di cui i più vivaci rappresentanti erano Francescani e Domenicani.

Dei primi faceva parte Gilberto o Guilberto de Tournai che, insieme a personaggi quali Alano di Lille, Giacomo de Vitry e Umberto di Romans, ci ha lasciato i suoi sermoni ad status.

Nato attorno al 1200, studiò a Parigi ed ottenne la cattedra di Teologia, che lasciò per vestire il saio. Visse nella Parigi della Sainte-Chapelle, il reliquiario di pietra policromo, la cui adorazione probabilmente lo indusse più di qualsiasi altra corrente religiosa alla vita contemplativa. Non si sa con certezza se partecipò o meno alla sfortunata spedizione di re Luigi ma ciò spiegherebbe perché, durante il secondo Concilio di Lione, si pronunciò contro l’idea di organizzarne una nuova (opinione peraltro sostenuta dallo stesso Umberto di Romans), probabilmente per aver visto i crimini efferati compiuti dai crociati.

Sappiamo però di un’opera, ormai perduta, l’Hodoeporicon Primae profectionis Ludovici Gallie Regis in Syriam, che attesterebbe la sua effettiva partecipazione alla crociata.   

Tuttavia il papa lo obbligò a compiere il suo dovere, cioè a predicare a favore della successiva spedizione nel tentativo di arruolare nuovi elementi nonostante la sua avversione al movimento crociato, ma ciò non gli impedì lo stesso di criticarlo: nell’Eruditio regum et principum inveì contro l’inutilità della crociata.

Gli anni delle critiche più pesanti furono quelli compresi tra il 1260 ed il 1264, essendosi ormai accorto che la crociata era molto più un movimento politico che ideologico, in quel periodo riguardante peraltro non solo le terre d’Outremer, ma anche le lotte interne alla cristianità: prima lo sterminio degli Albigesi, adesso la lotta contro i mala christiani (una lotta promossa da Innocenzo III e continuata dai suoi successori), ovvero gli aderenti alla fazione ghibellina rappresentata da Manfredi, accusato dal papa del momento (Urbano IV) di essere addirittura alleato di Baibairs, l’allora sultano del Cairo, che si preparava ad attaccare la Terra Santa.

Risultava peraltro abbastanza imbarazzante predicare una crociata contro altri cristiani: lo stesso Salimbene de Adam o da Parma, alludendo alla spedizione cui prese parte il padre Guido, scrisse Terra Sancta senza menzionare che la “Terra” da conquistare era quella della cristianissima città di Costantinopoli (1202-04)…

   

I sermoni: struttura

Facenti parte di una raccolta, i sermoni ad varios status o de diversis statibus et officiis erano principalmente rivolti ad viros, ad mulieres e ad sexum promiscuum; i primi erano così suddivisi: ai Praelati, ai Contemplativi e agli Activi, ovvero ai laici, considerati in base al mestiere, al rango sociale o alla situazione “esistenziale” (ad esempio: lebbrosi ed infermi). Questi ultimi proprio “activi” non erano, anzi, non lo erano affatto, ma era nello spirito assistenziale francescano fare partecipi anche loro.

A parte erano considerati i sermoni ad Crucesignandos e ad Peregrinos, di particolare importanza per il periodo in cui si sviluppano, e che analizzeremo qui di seguito.

Tutta la raccolta è dedicata ad Alessandro IV, morto nel 1261, e quindi si è pensato di datarla tra questo e l’anno seguente, ma sicuramente la composizione risale ad anni prima in quanto - come afferma Massimo Papi - «non è pensabile che Gilberto abbia pubblicato un sermonario radunando sue vecchie pagine e tralasciando di farne un aggiornamento globale». è difficile, se non impossibile, trovare riferimenti al 1260, l’anno di Montaperti, ma anche l’anno, secondo dottrine quali la gioachimita, di una “nuova era”.

Nella costruzione del sermone Gilberto tende a cambiarne la struttura in base alle sue esigenze, senza rimanere legato alle “regole letterarie” tradizionali, riprendendo in parte uno schema abbastanza antico risalente a Giona d’Orléans e ad Abbone di Fleury, in cui però gli stati sociali sono rigidamente divisi. Ciò non può più valere per il XIII secolo per la complessa articolazione della società, e quindi gli schemi tradizionali non potevano essere inseriti nei sistemi degli ordines.

Tutti i sermoni sono parti di un discorso unico, in cui Gilberto compie perfettamente l’esegesi della Croce e cerca di spronare gli animi ad una vera e propria “cristomimesi”, cioè indica ai futuri crociati come poter accogliere le stesse sofferenze di Cristo, come già aveva fatto San Francesco; tale è anche la base di tutta la teologia portata avanti da San Bonaventura, capo dell’Ordine Francescano in quel periodo, il quale spesso e volentieri si servì dell’opera di Gilberto.

Provo ad immaginare Gilberto mentre espone le ragioni della crociata: l’abito lacerato, la cordicella che pende dai suoi fianchi, la barba incolta, lì in mezzo alla folla che sprona gli uomini magari ricordando loro l’Alter Angelus, l’inviato di Dio che salva dall’ira divina gli eletti segnando loro la fronte («Vidi alterum angelus ascendentem ab ortu soli, habentem signum Dei vivi…», in AP. 7,2). E  nel primo sermone, Ad crucesignatos et crucesignandos, diviso a sua volta in tre parti, Gilberto analizza proprio il tema della “cristomimesi crociata”, la quale si può ottenere assumendo un simbolo particolare, che sarà anche il segno distintivo alla fine del mondo, ovvero il signum thau, la diciannovesima lettera dell’alfabeto greco avente appunto forma di una croce. E poi ricorda le sofferenze patite da Cristo sulla Terra, e di come invece l’uomo non riesce mai ad apprezzare la salvezza e la vita che gli è stata donata grazie al Suo sacrificio. Quindi la crociata è da intendersi anche come un’opera di ringraziamento alla quale gli uomini non possono e non devono sottrarsi, perché è minima cosa rispetto a quanto ci è stato dato. «Costantine in hoc vince» sottolinea, riferendosi al (discusso) episodio della visione della croce dell’imperatore Costantino, come esempio di forte spirito cristiano.

Ma non è un caso che il sermone ai crociati preceda quello rivolto ai pellegrini ed ai cavalieri. Difatti la crociata era una sorta di pellegrinaggio, anche se armato, e la legislazione canonica del pellegrino corrispondeva a quella del crociato stesso; entrambe le missioni erano sentite come parallele: la peregrinatio, unita alle elemosina, alle penitenze e ad un’adeguata disposizione spirituale, è il mezzo per arrivare alla vera salvezza dell’anima. E infine, non poteva certo mancare una predica ad potentes et milites, impostata tutta su un thema tratto dal II libro dei Maccabei («Accipe gladium, sanctum munus a Deo, quo deicies adversarios populi mei Israel», II Mc., 15): il cavaliere ottiene la spada da Dio, e per i Suoi scopi soltanto può usarla. Invece i milites, che rappresentavano ormai soltanto una cerchia ristretta in cui la carica, tramandata di padre in figlio, andava perdendo il sapore etico di cui avrebbe dovuto essere impregnata, si dimostravano spesso prepotenti con i più deboli e vili nel momento del vero bisogno. Gilberto si sofferma per criticare aspramente tali comportamenti, inclusi i tornei ai quali i cavalieri adoravano partecipare.

…Neanche la seconda spedizione di Luigi andò a buon fine; il re morì sulla costa tunisina nel 1270. Giacomo I d’Aragona aveva tentato l’anno prima, ma la sua flotta venne fermata da una tempesta. Nel 1272 nemmeno Edoardo di Cornovaglia riuscì a portare a termine la spedizione, mentre le fortezze e gli stati creati fino ad allora cadevano uno dietro l’altro.

          

PER SAPERNE DI PIù

Franco Cardini, Gilberto de Tournai: un francescano predicatore della crociata, in Studi Francescani, 1975, volume 1-2. 

Massimo Papi, Crociati, pellegrini e cavalieri nei «sermones» di Gilberto de Tournai, in Studi Francescani, 1976, volume 3-4.

  

     

©2006 Fabio Figara

   


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