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di FARA MISURACA

Domenico Morelli, Il bagno turco (1875 circa).

   

Palermo come tutte le antiche città nasconde nel suo ventre altre “città” che descrivono forse ancor più che in superficie la successione di culture che si sono sommate nei millenni. Sia le particolari caratteristiche geologiche del substrato sia le attività antropiche condotte per almeno 28 secoli di storia hanno dato origine a moltissimi vuoti sotterranei, utilizzati per vari scopi ma sempre collegati alle attività di superficie. Tra le città ricche di storia sotterranea Palermo vanta in Europa il primato di possedere, grazie alla struttura geologica del suo sottosuolo, costituito da calcareniti quaternarie [1] e in parte da calcari dolomitici mesozoici, un patrimonio ipogeo sia di origine antropica dove si palesa la mano dell’uomo che di genesi carsica dovuta a fenomeni geologici. Pertanto si ritrovano allo stesso tempo ambienti artificiali scavati nella calcarenite, che documentano la genialità costruttiva dei nostri antenati, e suggestive grotte naturali erose e istoriate dall’acqua nel calcare [2].

Cripte, catacombe, pozzi, cisterne, silos, camminamenti, cave in galleria, camere dello scirocco, qanat e tante altre architetture sotterranee esprimono questo rapporto secolare tra l'uomo e sottosuolo che, sotto la città di superficie, ne ha costruito un'altra nascosta.

Di quest'altra Palermo poco è noto agli stessi abitanti, anche se racconti popolari come I Beati Paoli e innumerevoli leggende la colorano di folklore.  

In queste pagine ci preoccuperemo di far conoscere la più medievale di queste opere: i Qanat.

A causa del clima arido e della carenza di sorgenti, fin dai tempi più antichi gli abitanti della città hanno cercato un metodo alternativo per soddisfare il fabbisogno idrico e le caratteristiche del terreno che costituisce la piana di Palermo hanno favorito per secoli lo sfruttamento delle falde acquifere di cui, contrariamente all’apparenza, la zona è ricca. Nell’antichità il rifornimento idrico della città era assicurato prevalentemente da pozzi freatici e dalle sorgenti situate fuori le mura dell’antica città (la paleopoli) che sorgeva su una penisola stretta tra le foci di due fiumi, il Kemonia e il Papireto [3].

 

A sinistra: mura e fiumi della Palermo punica (Ziz o Sis, fiore); autore della mappa Vincenzo Salerno. A destra: fontane e corso d’acqua nella sala d’ingresso della Zisa.

Nel IX secolo Musulmani invasero la Sicilia, conquistando Palermo nel 831 e l'intera isola nel 965. Durante il periodo musulmano Palermo, divenuta capitale, è stata una della città più importanti nei commerci e nella cultura, era conosciuta in tutto il mondo arabo e si dice avesse più di 300 moschee [4].

Sede di un potente emirato, grazie alla capacità amministrativa dei Kaglebiti divenne una terra ricca e florida dai costumi tipicamente musulmani con influenze nella lingua e nella toponomastica, nelle colture e nelle costruzioni architettoniche ancora oggi chiaramente riconoscibili. Le tracce di essa sopravvivono anche nei monumenti che costituiscono il centro della città antica, con i suoi cinque quartieri: il Kasr, sito nella punta estrema della Paleopolis; il quartiere della grande Moschea; la Kalsa (ossia Eletta) sede degli emiri; la zona degli Schiavoni (Sclavi), attraversata dal fiume Papireto; e infine a ponente il Moascher, il quartiere militare.

Il monaco Teodosio, testimone oculare, che ci ha fornito queste notizie sosteneva anche che nelle  trecento moschee di Palermo l’istruzione era affidata a trecento maestri per una popolazione di oltre trecentomila persone.

Dai diari dello scrittore e viaggiatore Ibn Hawqal [5] apprendiamo infine che già nel X secolo, in pieno periodo fatimita [6] «la popolazione si disseta con l’acqua di pozzi posti all’interno delle loro case» [7].

Come venne risolto il problema dell’approvvigionamento idrico che non solo portava l’acqua nelle case private e negli Hammam [8] ma rese la piana di Palermo quel rigoglioso giardino ricco di verzura e fontane di cui narrano gli antichi viaggiatori? Grazie all’applicazione di un’antica tecnica arabo-persiana, cioè la costruzione di una fitta rete di canalizzazioni sotterranee: i Qanat.

Nella piana di Palermo gli arabi cominciano a sperimentare con successo le loro conoscenze di ingegneria idraulica, mutuate e messe a punto da precedenti civiltà orientali, adattandole alle specifiche condizioni idrologiche e climatiche che offriva l’ambiente palermitano.

I Qanat o ‘ngruttati’ sono delle strette gallerie sotterranee scavate dai muqanni [9], “maestri d’acqua”, con delle semplici zappe perché la calcarenite, una roccia molto friabile, è facile da lavorare; questi cunicoli intercettavano la falda acquifera e tramite la gravità e una leggera pendenza trasportavano l’acqua in superficie.

La diffusione di queste gallerie sotterranee è documentata in diverse aree geografiche a carattere climatico di forte aridità e in base alla tipologia di risorsa idrica disponibile si sviluppano prevalentemente due tipi di canali sotterranei: i qanat di tipo persiano e i foggara tipici dell’area del deserto del Sahara che sono serviti per la creazione di oasi lungo le vie carovaniere.

«I foggara si sviluppano per lunghezze notevoli a una profondità che non scende mai oltre il livello delle falde acquifere e non penetrano mai nella falda. Vengono così liberati i microflussi imprigionati nelle rocce» [10], mentre i qanat di tipo persiano attingono l’acqua direttamente dalla falda acquifera e la trasportano fino al punto di utilizzazione coprendo anche distanze lunghissime. Il cunicolo procede lungo il sottosuolo con una pendenza minima, inferiore allo 0,5%, garantendo un flusso lento e costante dell’acqua senza causare l’erosione delle pareti del canale. L’acqua, grazie a questa tecnica mantiene la purezza e la temperatura della falda. L’obbligo alla pendenza costante portò i costruttori a far fare ai canali lunghissimi giri, per cui il sottosuolo di Palermo è un fitto intreccio di cunicoli, di stratificazioni di pozzi su pozzi che raccolgono e convogliano le acque dalle falde fino agli sbocchi.

In entrambi i casi il sistema si differenzia nettamente dai classici acquedotti romani le cui condotte, sia aeree che sotterranee, venivano e vengono alimentate da acqua di superficie come quella di sorgenti, laghi e fiumi.

 

A sinistra:la camera dello scirocco di Villa Savagnone ad Altarello di Baida. A destra: la camera dello scirocco della regina Costanza d'Altavilla a Brancaccio, Palermo.

Lungo lo sviluppo del qanat si aprivano dei pozzi verticali che comunicavano con la superficie. Tali pozzi, oltre a consentire l’approvvigionamento idrico per gli edifici, pubblici e privati, e l’irrigazione dei campi, servivano anche a facilitare le operazioni di scavo consentendo l’estrazione del materiale roccioso in fase di realizzazione del qanat.

Individuata la falda, e stabilito il tracciato del qanat , si iniziava lo scavo procedendo da valle verso monte per evitare il deflusso delle acque. La corretta direzione di scavo veniva assicurata in maniera molto semplice, utilizzando tre lampade poste lungo il letto del canale che servivano sia ad illuminare l’ambiente sia a mantenere l’allineamento desiderato fino al completamento della galleria [11].

La caratteristica tecnica di alcuni qanat palermitani, che li distingue da quelli orientali più antichi, è la mancanza di un vero e proprio pozzo alimentatore principale che spesso viene sostituito da una estesa galleria drenante trasversale ubicata a monte. Questo elemento innovativo attesta una sensibile evoluzione dei princìpi e delle tecniche costruttive che il tema degli acquedotti ha raggiunto in Sicilia [12].

L’esistenza di queste condotte sotterranee spiega, nonostante la natura arida del territorio, il fiorire, nella Palermo araba e poi normanna, di fontane, peschiere, bagni pubblici, canali d’acqua e giardini lussureggianti.

È interessante notare nelle canalizzazioni palermitane la presenza di due differenti tipi di pozzi che comunicano con la superficie. Un primo tipo di pozzi, circolari o quadrati numerosi nei giardini dell’agro palermitano, hanno le dimensioni di circa un metro quadrato e venivano utilizzati dai muqanni per l’estrazione del materiale di scavo per le opere di manutenzione e, solo saltuariamente, per attingere l’acqua. Una seconda tipologia di pozzi presenta una sezione rettangolare di circa 1x2 metri, in corrispondenza di questi pozzi il fondo dei qanat si abbassa e si allarga per dare spazio ad una sorta di vasca sotterranea. «L’ampiezza di questi pozzi e la vasca sotterranea servivano per l’alloggiamento delle norie a tazze o senie azionate da animali da tiro» [13]. La conoscenza delle caratteristiche geologiche dei diversi suoli e la padronanza della nuova gestione del patrimonio idrico, hanno favorito il diffondersi di nuove colture. Oltre alle colture già conosciute in epoca bizantina, nei giardini del palermitano si coltivano nuove specie importate dagli altri paesi arabi come pistacchi, vari legumi fino ad allora sconosciuti, spinaci, carciofi e melanzane [14], e in zone opportunamente allagate, il riso.

Tra le piante da frutto si trovano le palme da dattero, il banano, l’arancio dolce e amaro e il limone.  

Qanat dell’Uscibene ad Altarello di Baida, Palermo.

Allo sviluppo dei Qanat, iniziato attorno al IX secolo e che raggiunse il suo massimo durante il periodo del vicereame spagnolo, si associa la costruzione di altri ambienti ipogei come camere dello scirocco, bagni ebraici miqweh [15], sotterranei di riunione, serbatoi, scammarati d’acqua, grandi canalizzazioni a volta (smaltitoi, acquedotti del maltempo), gallerie vadose e gallerie freatiche, laminatoi, cunicoli di drenaggio, cunicoli e canali di scarico, cunicoli collettori, cunicoli di bonifica (gammitte), condotte e canali piccoli grandi della vecchia fognatura. Cunicoli di fuga, cunicoli di servizio, camminamenti militari, corridoi, gallerie, passaggi, cunicoli, condotti carsici, ecc.

Sicuramente tra tutti gli ambienti ipogei associati o derivati dalla costruzione dei qanat i più affascinanti sono “Le camere dello Scirocco”, singolari ipogei che destano molta curiosità e sono esempio di architettura del raffreddamento passivo. La denominazione suggestiva di camera dello scirocco per indicare questi singolari ambienti freschi si ritrova per la prima volta in un atto notarile del 5 agosto 1691 dove si legge: «Scendesi più in basso a man destra vi è una grotta seu camera di scirocco con fontana in mezzo e tutto in giro con mattoni di Valenza» [16]. Le camere dello scirocco costituirono spesso e in varie forme il corredo architettonico delle ville e casene di caccia durante la cosiddetta “grande villeggiatura” che raggiunse la massima diffusione nel XVIII secolo, un periodo florido per l’aristocrazia di Palermo. Ma il loro uso potrebbe essere anteriore a questo periodo per la presenza della “camera” di Villa Naselli Agliata descritta dal gentiluomo Vincenzo Di Giovanni nella sua opera Palermo Restaurata del 1552 [17]. Si tratta di spaziosi ambienti, decorati e piastrellati finemente, intagliati ad arte nella roccia calcarenitica e attraversati e resi freschi dai qanat medievali. Alcune come quella descritta dal Di Giovanni presentano una vera e propria “torre del vento”, di forma tronco-conica che racchiude alla base una camera con sedili, simile per funzionamento termodinamico alle badgir iraniane di Yazd (la città delle torri del vento) che veicolano la circolazione dell’aria fresca all’interno dei palazzi, espellendo quella calda.

I qanat visitabili a Palermo sono oggi solo tre: il Gesuitico basso (o della Vignicella), il Gesuitico alto e quello dell’Uscibene con la sua magnifica camera dello Scirocco.

   

Bibliografia

Barbera Giuseppe, Agricoltura e paesaggio nella Sicilia arabo normanna
(www.sunandwind.it/eventi/ecomediterranea/giuseppe_barbera.pdf ).

Barbera Giuseppe, Tuttifrutti. Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei fra scienza e letteratura, Mondadori, 2007.

Contino Pierluigi, Il regio sollazzo della Favara a Maredolce, tesi di laurea, 2004.

Cresti Federico, Città, territorio, popolazione nella Sicilia musulmana. Un tentativo di lettura di una eredità controversa. Mediterranea, Ricerche storiche, n° 9, anno IV, aprile 2007 (www.storiamediterranea.it/public/md1_dir/r765.pdf)

Gueli Donatella, Palermo Sotterranea, volume edito dall'Assessorato regionale dei Beni culturali e ambientali.

La Duca Rosario , Storia di Palermo, vol. II, Dal tardo-antico all’Islam, edizioni L’epos, Palermo 2002.

La Duca Rosario , Storia di Palermo, vol. III, Dai Normanni al Vespro, edizioni L’epos, Palermo 2003.

Ovadyah Yare Da Bertinoro, "Lettere dalla Terra Santa", introduzione, traduzione e note di Giulio Busi, Luisé, Rimini 1991.

Pizzuto Antinoro M., Gli arabi in Sicilia e il modello irriguo della Conca d’Oro, Regione Siciliana Assessorato Agricoltura e Foreste, Palermo 2002.

Rizzitano Umberto, La conquista musulmana, in Storia della Sicilia, ESI, Napoli, 1980, vol. III.

Todaro Pietro., Il sottosuolo di Palermo, Flaccovio Editore, Palermo 1988.

Todaro Pietro, Guida di Palermo sotterranea, edizioni L’epos, Palermo 2002.  

    


NOTE  

[1] Caratteristica di questa roccia di colore giallastro è quella di essere di consistenza tenera e al tempo stesso resistente, capace di lasciarsi facilmente cavare e garantire stabilità alle pareti dello scavo. Essa è dotata, inoltre, di un buona coibenza termica ed acustica, proprietà queste che assieme alla facile reperibilità e alla durevolezza ne hanno fatto anche un ottimo materiale da costruzione.

[2]  G.B. Floridia, Notizie sul sottosuolo della città di Palermo, in «Rivista mineraria siciliana», 1956, n° 39.

[3]  I fiumi Kemonia e Papireto sono oggi interrati essendo stati sotterrati man mano che la città si espandeva. Scrive Giarrusso (Piano Regolatore di Risanamento dell’ing. Felice Giarrusso, 1885) che «a seguito delle epidemie e delle inondazioni del fiume Kemonia del 1557 e 1575, il Senato affrontò il problema della bonifica dei due torrenti adottando le seguenti soluzioni: per il torrente Kemonia fu deciso di deviare le acque provenienti dalle zone di monte, oggi corrispondenti al viale delle Scienze, corso Pisani e alla Fossa della Garofala, nel fiume Oreto mentre le acque sorgive, più basse, furono convogliate alla Cala attraverso un canale rivestito sia nel fondo che nelle pareti e con una copertura a volta che percorreva il vecchio corso; per il Papireto si decise di colmare la fossa denominata "Danisinni" da cui aveva origine il torrente e di ricoprire il tragitto con un canale coperto fino alla Cala. Queste opere però non si rilevarono sufficienti ad eliminare i pericoli di inondazioni, forse per insufficienza dei collettori. Infatti, presto in seguito alle piogge la zona colmata si ritrasformò in palude ea seguito delle precipitazioni atmosferiche di particolare intensità si continuarono ad avere inondazioni con  danni e numerose vittime». Ancora oggi alle prime piogge i tombini delle strade della città “esplodono” e le allagano. E' interessante notare che a quel tempo le strade erano realizzate con il caratteristico andamento a culla, accettando il concetto che la strada durante le piogge si doveva trasformare in collettore pluviale.

[4]  U. Rizzitano, La conquista musulmana, in Storia della Sicilia, ESI, Napoli, 1980, vol. III, p. 137.

[5] Mercante, geografo e viaggiatore. Visse la sua giovinezza a Baghdad. A causa di una ingente perdita patrimoniale iniziò nel 943, un viaggio trentennale nelle regioni dell'Islam. Fu in Sicilia nel 973 e non fu molto tenero con i costumi rilassati dei musulmani di Sicilia.

[6]  Nel 910 il possesso della Sicilia passò a una nuova dinastia che, in opposizione alla famiglia degli Abbasidi, affermava il suo diritto legittimo a governare la comunità dei credenti sulla base della sua discendenza dalla figlia del profeta Muhammad, Fatima. Dopo un periodo di circa un decennio durante il quale il nuovo potere fu obbligato ad affrontare le vivaci contestazioni degli Abbasidi, che fondava la sua opposizione sui principi dell’ortodossia religiosa, i Fatimidi stabilirono il loro controllo sull’isola, non senza generare nuovi episodi di rivolta e di guerra civile. Secondo Amari, la repressione della rivolta del Val di Mazara causò la morte di una quantità impressionante di persone, distruggendo almeno un terzo della popolazione della provincia.

[7]  Riportato da Todaro P., Palermo sotterranea, 1988, in La Duca R., Storia di Palermo, vol. II,  Dal tardo-antico all’Islam, edizioni L’epos, Palermo 2002, p. 240.

[8]  Bagno turco: gli arabi ripresero la tradizione dei bagni riscaldati delle Terme romane con dei bagni, chiamati "hammam " (dall’arabo: "scaldare"), più piccoli e con una procedura di balneazione più semplice. Nelle terme romane, dopo l'attività fisica, si entrava nel tepidarium, poi nel calidarium ed infine nel laconicum, la stanza finale più calda, riscaldata con aria secca ad altissima temperatura, infine dopo la pulizia del corpo e i massaggi, si faceva una nuotata nella piscina del frigidarium, seguita dalla frequentazione di biblioteche o spettacoli. Nella tradizione araba, il ciclo è ridotto e inverso: l'hammam è formato essenzialmente da tre sale in cui ci si lava, una sala è molto calda (harara), una tiepida e l'ultima fresca; si inizia di solito dalla sala più calda. Alla fine del ciclo si possono fare dei massaggi.

[9]  I muqanni erano gli antichi scavatori di pozzi arabo-persiani.

[10]  Pizzuto Antinoro, 2002, p. 22, citato in Contino, Il regio sollazzo della  Favara a Maredolce, 2004.

[11]  Todaro P., Palermo sotterranea, 1988, p. 27. La lampada di coda veniva di volta in volta spostata in testa mantenendo l’allineamento e suggerendo la direzione dello scavo.

[12] Todaro P., Palermo sotterranea , in Contino, Il Regio sollazzo della Favara a Maredolce, 2004.

[13] Pizzuto Antinoro M., Op. cit., p. 27, in Contino, op. cit.

[14] L’agricoltura siciliana in periodo arabo è ricca di molte specie coltivate.  Negli orti, nei frutteti e nei giardini del X secolo, insieme alle colture di origine autoctona o importate nei secoli precedenti, si diffondono piante provenienti dalle regioni sottomesse al dominio arabo o prelevate in regioni ancora più lontane. Ibn Hawqal  cita, per la prima volta, la canna da zucchero (qasab farisi,canna di Persia).

 Nella sua descrizione, lungo i corsi d’acqua che lambivano la città si trovavano anche, piantagioni di maqathin cioè zucche e cocomeri che necessitano di molta acqua, di cipolla, molto diffusa e consumata, anche per le proprietà afrodisiache, soprattutto allo stato crudo: «Non c’è persona, quale che sia la classe sociale, che non le mangi durante tutta la giornata, non c’è casa dove si consumino mattina e sera», riporta Ibn Hawqal che ne deplora l’eccessivo consumo e la ritiene responsabile della rilassatezza dei costumi dei siqillyi. Negli orti, insieme alle cipolle, erano presenti, anche nuove specie introdotte dagli arabi: gli spinaci (che per la prima volta sono citati in Andalusia verso la fine del XI secolo), i carciofi (noti in Africa nel XIII secolo), e le melanzane che dall’India giungono in Egitto, in Tunisia e quindi, nel X secolo, si ritrovano già in Spagna e in Sicilia. Nelle zone umide della città si coltivava anche il riso ed il lino.

Il cotone e la canapa che, secondo Yaqut, citato da M. Amari nella sua Biblioteca arabo–sicula, erano coltivati nei pressi dell’odierna S. Giuseppe Jato. Tra i diversi legumi si produceva anche il sesamo, molto diffuso secondo quanto indica l’etimo dialettale di origine araba (ciminu) e ancora oggi usato per decorare il nostro pane. Nei mercati cittadini non mancavano spezie, piante medicinali (tra queste la manna ottenuta dal frassino e una malva conosciuta in Spagna che Ibn al Awwam chiama malva di Sicilia), piante coloranti come l’indaco (azzurro), il cartamo (giallo), l’hennè (rosso-bruno) che nel XII secolo risulterà coltivato nel territorio di Partinico, il guado (blu) e le foglie del mirto, utilizzate per la concia delle pelli.  

Presente era anche il gelso nero, utilizzato per l’allevamento del baco e quindi per la produzione della seta, e il carrubo, già noto in epoca precedente ma adesso molto diffuso come suggerisce l’origine araba del nome.

Tra le piante della città, certamente nei suoi giardini, non potevano mancare la palma da dattero,  il banano, l’arancio amaro, il limone, la limoncella (lumia). Il loro diffondersi  inizia sicuramente durante la dominazione araba in anni non lontani dal 976, quando fu realizzato il Patio degli aranci nella Mezquita di Cordoba, divenuto un modello in Spagna e in Sicilia per i cortili di altre moschee e palazzi.  

Non trascurati erano i vigneti, coltivati con tecniche simili a quelle  romane  ma, a quanto riferiscono gli agronomi andalusi, con un’attenzione particolare alla cura estetica. Il consumo di vino – che in Sicilia veniva preparato con senape, miele e mosto - non era soggetto a restrizioni religiose come riferiscono Ibn al Awwam e Ibn Hawqal  ed è parte fondante, insieme alle rose di nuove specie, al gelsomino ad altre piante ornamentali, di quel genere poetico, la rawdiya, che canterà l’amore per le piante e la bellezza dei giardini arabi della Sicilia. (Barbera Giuseppe, Tuttifrutti. Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei fra scienza e letteratura, Mondadori, 2007; Agricoltura e Paesaggio nella Sicilia arabo normanna; www.sunandwind.it/eventi/ecomediterranea/giuseppe_barbera.pdf).

[15] Miqweh (antico bagno rituale ebraico): recentemente ne è stato scoperto uno dagli archeologi dell’Università Ariel di Tel Aviv durante una campagna di scavi nella zona in cui era situato l’antico quartiere ebraico, la giudecca palermitana, situata lungo il corso del fiume Kemonia, oggi vicino la chiesa di san Nicolò da Tolentino. Una descrizione della sinagoga di Palermo come si presentava nella seconda metà del ‘400 si deve al rabbino Ovadia da Bertinoro che conclude la pagina con le parole “di cui al mondo non ha l’eguale ed è in assoluto degna di lode” (O.Yare da Bertinoro, “Lettere dalla Terra Santa” Rimini, 1991, p 13).

[16] Pietro Todaro, dal sito http://www.provincia.palermo.it e Todaro Pietro, Guida di Palermo sotterranea, edizioni L’epos, Palermo 2002.

[17] Pietro Todaro, Il sottosuolo di Palermo, Flaccovio Editore, Palermo 1988.

     

      

©2008 Fara Misuraca.

   


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